Non tutti sulla stessa barca


Pare che la Global Sumud Flotilla (GSF), quella flottiglia internazionale di decine di barche che vorrebbe forzare il blocco navale israeliano su Gaza, sia già naufragata. Non in mare, ma tra le onde alte del “woke”.

La miccia l’ha accesa il coordinatore tunisino Khaled Boujemâa, che si è dimesso scandalizzato nello scoprire che a bordo c’erano attivisti LGBTQ, come Saif Ayadi, “queer activist”. “Siamo stati ingannati, non ci avevano detto chi saliva sulla nave”, ha protestato in due dirette social.

A rincarare la dose ci hanno pensato Mariem Meftah e Samir Elwafi: per loro, infilare bandiere arcobaleno nella “sacra causa di al-Aqsa” è un oltraggio. Meftah ha concesso che l’essere gay è questione privata, ma ha chiarito che in chiave islamica l’attivismo queer è incompatibile con il simbolo religioso e politico di Gerusalemme. Elwafi è stato ancora più netto: “La Palestina è prima di tutto la causa dei musulmani, inseparabile dalla sua dimensione spirituale e religiosa. Perché degradarla con slogan queer che dividono invece di unire?”.

E così ecco il punto: i Palestinesi come popolo oppresso (narrativa laica, umanitaria, progressista) collidono frontalmente con la Palestina come terra islamica irrinunciabile, proprietà dell’umma, non negoziabile perché sacralizzata da al-Aqsa. Contraddizione insanabile tra laicità del popolo e sacralità del territorio, che nemmeno le barche riescono a tenere a galla.

Intanto, la Flotilla ha visto il riposizionamento anche di passeggeri celebri: Greta Thunberg ha abbandonato la leadership accusando i colleghi di preoccuparsi troppo delle beghe interne e troppo poco del “genocidio in Palestina”. È rimasta come semplice volontaria, con cambio cabina: dal natante della direzione, il Family, al più militante Alma.

Se n’è andato anche il giornalista Yosef Omar, colpevole di “sensazionalismo” per aver parlato di un presunto attacco con droni. Nel frattempo, guasti e maltempo hanno già fatto perdere pezzi alla flottiglia, che prosegue faticosamente il suo viaggio verso Gaza.

E come se non bastasse, ecco il fuoco incrociato: il Ministero israeliano per la Diaspora ha pubblicato un rapporto che collega il GSF a reti di Hamas e dei Fratelli Musulmani. E lo svedese-israeliano David Stavrou, su Svenska Dagbladet, ha accusato il gruppo di ospitare anche simpatizzanti di Hezbollah, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), e figure con idee estremiste, sessiste e apertamente antisemite.

Insomma, tra woke occidentali e islamici intransigenti, ambientaliste svedesi e militanti queer, imam e predicatori anti-israeliani, la “flottiglia della resistenza” attraversa acque burrascose ben prima di avvistare Gaza. Non c’è bisogno di Israele per fermarla: basta il cortocircuito tra l’idea laica di Palestinesi come popolo vittima e quella islamica di Palestina come terra sacra. Due letture incompatibili, e il risultato è che non sono affatto “tutti sulla stessa barca”.