Roma, pezzi mancanti e culi di pietra

 


Da questo semestre non insegno più al Campus Romano del Trinity College, e dopo tanti anni non ho più il “dovere” di spiegare Roma, la sua forma novecentesca, la sua storia italiana e le mille complicazioni di questa maledetta città benedetta. Mi resta però il piacere di continuare a capirla, stavolta per me soltanto. Intanto un nuovo semestre è iniziato al Campus, e negli ultimi anni cominciavamo con una visita alla Centrale Montemartini, uno di quegli esperimenti folli che solo Roma può permettersi: un miscuglio di modernità e classicità, dove nulla sembra al posto giusto ma tutto produce, alla fine, un’armonia ambigua (la versione cattolica, o almeno italiana, dell’estetica zen). Per salutare i colleghi del Trinity e i nuovi studenti di quest’anno – che spero comunque di incontrare – pubblico qui una mia vecchia traduzione di una poesia di Billy Collins. Non mi somiglia affatto, ma somiglia moltissimo a Roma: dopo tanti anni che la vivo e l’attraverso, comincio davvero a sentirla come “la mia città”. O almeno una delle città a cui appartengo.

 

Statue greche e romane (poesia di Billy Collins)

Pare che la prima a andare perduta fosse la punta del naso
Poi le braccia e le gambe
E più tardi il pene marmoreo, se una cosa del genere era stata scolpita.

E spesso una testa intera correva dietro al naso
Come forse avveniva quando del pane
Veniva infornato nelle strade laterali della Roma antica.

Nessuna speranza per il flauto un tempo attaccato
Alle labbra di quel satiro con le guance rigonfie,
E neanche per il bastone cui una volta si poggiava il pastorello,

La spada non più afferrata dal guerriero,
Le povere orecchie perdute del giovane dormiente,
E qualunque cosa Afrodite reggesse nelle sue mani recise.

Ma il torso è tutt'altra storia:
L’uomo medio, l’ultimo ad andarsene, sopravvive senza mezzi termini,
Sostenuto sul piedistallo con un pezzo di tubo,

E così sopravvive il potente culo di pietra,
Così liscio e fondamentale che nessuno
Resiste a lasciare il gruppo e a girarci attorno per ammirarlo.

Così vanno le cose, qui
Nella luce che si diffonde dal tetto a vetrata,
Un’estremità perduta dopo l’altra:

Dita finite troppo vicine all’affettatrice del tempo,
Mani cadute come lancette di un orologio,
Interi arti tranciati dalla falce mortale.

Ma fuori, nelle strade cittadine,
Sta piovendo, e il selciato riluce
Del traffico incrociato della vita:

Centinaia di nasi ancora intatti,
Braccia dondolanti e mani che si aggrappano,
La pelle ancora calda e la fronte ancora lucida.

Chi mai può immaginare quando verrà il momento
In cui nulla di noi sarà rimasto
Se non il nudo basamento su cui un tempo ci ergevamo

Oramai esposto all’aria aperta,
Solo il vento tra gli alberi e l’ombra
Delle nuvole a spazzare quel duro ripiano di marmo.