La settimana scorsa, in vacanza a Favignana, ho interrotto il mio digiuno di immagini per ascoltare il sermone domenicale del vescovo Robert Baron dedicato al vangelo di Luca (14:1, 7-14) in cui Gesù racconta la parabola dell’invitato a nozze: “…non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti «Cedigli il posto»”. Non voglio parlare qui di come questa parabola possa aver risuonato nella mia vita e di quanto questa lezione sia sempre amara da apprendere, ma vorrei seguire piuttosto, fino a un certo punto, il pensiero del vescovo Baron.
Questa parabola, ci dice, parla dell’orgoglio,
il peccato maggiore. Per Tommaso è “amor di sé disordinato ed eccessivo”.
Per Agostino il peccatore è curvatus in se, ripiegato su sé
stesso, in un atteggiamento che impedisce di entrare in contatto con la realtà.
Si è talmente presi da sé, nell’orgoglio, che la realtà sfuma nel sogno o nel delirio.
Nel video il vescovo enfatizza l’etimologia
della parola antitetica all’orgoglio, vale a dire l’umilità. Viene
da humus, cioè la terra, lo sostanza fertile ma bassa di
cui è fatto il mondo vivente. La più bassa di tutte, la più concreta
(altro etimo interessante, da concrescĕre,
coagularsi, raddensarsi). L’opposto dell’orgoglio è la concretezza, nel senso
della “messa a terra”, dell’essere in contatto con la realtà terrena.
L’orgoglio è rinchiudersi in uno spazio
talmente ristretto, lo spazio dell’io piccolino del soggetto autosufficiente,
autonomo in quanto autistico, da perdere di vista qualunque dimensione relazionale,
qualunque connessione con il mondo “lì fuori” e “lì in basso”, con la
terra, insomma. Al punto che la mancanza di umiltà, cioè di contatto con la
terra, diventa perdita di contatto con il pianeta Terra, fuga in un mondo
senza più concretezza. L’orgoglio, in quanto peccato, diventa un buco nero, che
inghiotte tutto e tutto trascura.
Da dove viene l’orgoglio? Paul Tillich
sostiene che viene dalla paura. La vulnerabilità della nostra condizione
produce una barriera fintamente protettiva, che ci imprigiona
nella curvatura su noi stessi, illudendoci così di sfuggire alla nostra condizione.
Cercando di liberarci dalla paura del mondo, finiamo per intrappolarci
in noi stessi. Gesù, quindi, può dire che l’amore di Dio ci libera
perché ci solleva da questa paura della finitezza.
Del resto, ricorda sempre Baron, Jordan
Peterson ha più volte sostenuto che «La consapevolezza di sé (self-regard),
dal punto di vista psicologico, è l’equivalente della sofferenza».
Ci siamo quasi: l’orgoglio è uno schermo
con cui ingigantiamo l’io sperando con ciò di rimpicciolire il mondo concreto e
la paura che ci suscita, ma il rimedio è peggiore del male perché piegarsi
in sé stessi produce la sofferenza della consapevolezza (cfr. Leopardi).
Aggiunge in contrappunto il vescovo Baron:
a riprova in negativo, i momenti migliori della nostra vita sono quelli
in cui siamo meno consapevoli (in questo senso self-regarding) di
noi stessi. Non guardiamo dentro, bensì guardiamo fuori.
Questo è il senso di fare snorkeling.
Non c’è bisogno di cercare, prendere, cacciare, modificare la realtà: basta prenderne
atto con umiltà, sapere che non siamo attrezzatissimi per confrontarci con Lei,
ma possiamo cogliere qualche scheggia della sua bellezza e della sua potenza.
Ecco lo snorkeling che involontariamente
il vescovo Baron elogia:
WHen
you are not looking in, you are looking out. You are not preoccupied with what’s
affecting you, and threatening you and all that. You’ve forgotten that, and you
are in touch with humus, with the ground, with reality. That’s what we
are talking about, that’s the humility that stands against pride.
La parabola del banchetto di nozze
è così collegabile allo snorkeling: resta di lato, non ti mettere in mostra. E vedrai.
Alla lettera.
Qual è allora la via d’uscita dall’orgoglio?
Per il vescovo Baron è prendere sul serio la battuta di Oscar Wilde: la seconda
cosa peggiore di non veder realizzato il proprio desiderio, è veder
realizzato il proprio desiderio.
Bisogna uscire dal gioco competitivo,
la miglior strategia è quella di non giocare
affatto. Non diventare un cacciatore, non cercare di impiegare il tempo in modo
utile. Non tranne profitto, non ricavarne un beneficio. Guardare,
piuttosto, ammirare, riconoscere quel che è lì fuori, lì in basso. Non poterci
fare nulla.
