Non c’è più modo di parlare di certe cose. La comunicazione è solo frastuono, distorsione, bailamme. Non incolpo nessuno, “il mezzo è il messaggio”, diceva un vecchio professore canadese preso troppo sul serio, ma è evidente che la maggioranza di noi non ha più voglia non solo di ascoltare, ma anche solo di immaginare le ragioni dell’altro. Deve essere un nazista, se dice certe, cose, deve essere un fanatico se osa pensarla pubblicamente così. “Non ti riconosco più” (se ti conoscevo prima) oppure “adesso sì che ho capito chi sei” (se mai avevo avuto a che fare con te se non in pubblico). Ne viene fuori che qualunque proposta di confronto (ciascuno ha le proprie convinzioni, proviamo ad argomentare per vedere se possiamo cambiarle o farle cambiare?) viene soppiantata da “non ti capisco”, “io ho le idee chiare”, “sei un mostro”. È il trionfo della Righteous Mind di Jonathan Haidt, della necessità di essere buoni. Così sintetizza Peter Boghossian i suoi esperimenti di street epistemology in una chiacchierata con Konstantin Kisin e Francis Foster:
PB:
Una delle cose più importanti che ho imparato, e che in un certo senso rafforza
ciò che già pensavo, è che le persone si schierano non sulla base delle prove
che hanno, ma per una ragione morale. Tipo: le persone buone
stanno da questa parte, io sto da questa parte, quindi sono una persona buona;
le persone buone dovrebbero stare da questa parte, io dovrei
stare da questa parte, io sto da questa parte, quindi sono una persona buona.
È così che funziona.
KK:
Quindi le persone in un certo senso delegano il loro modo di pensare al gruppo
a cui appartengono. È questo che stai dicendo?
PB:
Beh, in realtà trovano la loro tribù sulla base di una ragione morale
per crederci.
KK:
Ah, capisco.
PB:
Quindi le persone riflettono su cosa significhi per loro essere una persona
buona e poi allineano la propria sicurezza e le proprie convinzioni
di conseguenza. Perciò lanciamo un’affermazione come: «Le donne trans
dovrebbero competere negli sport femminili», oppure «La soluzione dei due Stati
è la migliore soluzione», e loro si schiereranno dalla parte che pensano sia
quella su cui una persona morale dovrebbe stare. Ed è un’esperienza affascinante.
E allora non c’è altro che tornare alle poesie
di Billy Collins, in attesa che riprendano le lezioni e che questo
spazio torni a essere un luogo di incontro, e non di scontro.
ZITTO
(Billy Collins)
Ci ho fatto caso al crepuscolo
dopo che avevo acceso tre candele
e mi stavo versando un bicchiere di vino
che non avevo detto una parola, a anima viva, per tutto il giorno.
Solo in casa,
mi davo da fare girando la ruota di un mulino di carta
o fissando il fondo di un buio pozzo d’inchiostro
nessuno a bussare alla porta, nessuno squillo al telefono.
Ma quando si sono accese le luci del viale,
mi sono ricordato di aver parlato a una tartaruga,
nella mia passeggiata mattutina, un saluto fugace
che l’aveva spinta dal suo tronco a tuffarsi dentro il lago.
Avevo anche parlato ai pesci rossi
gettando una manciata di cibo nello stagno
e fatto pure due chiacchiere col cane,
che piegava la testa di qua e di là
mentre gli spiegavo che la cena era ancora
lontana
e che doveva stare a cuccia sulla soglia.
Ho perfino parlato a me stesso, mentre battevo a macchina
e più tardi, mentre cercavo in giro i miei stivali.
E così, avevo sì e no messo un piede sul sentiero
che conduce alla grande casa del silenzio
dove uomini e donne camminano contando i grani di un rosario.
In effetti, ho passato un solo pomeriggio
di silenzio totale da mostrare a me stesso,
un giorno di primavera in una cella nel Big Sur,
con forse venti monaci altrettanto silenziosi nelle loro celle lì attorno
una comunità di Camaldolesi
un ordine così severo, mi aveva detto la
guida,
che al loro confronto i Benedettini,
da cui si erano separati nell’Undicesimo secolo,
sembravano una banda di teppisti.
Di una vita intera con la bocca accesa,
facendo suonare il clacson del mio Ego,
un solo pomeriggio stando davvero zitto
su quelle rupe, con il Pacifico disteso lì sotto,
ma ascoltando il canto degli uccelli
dalla finestra quel giorno, potevo sentire la mia goccia
di silenzio prendere forma sulla bocca del rubinetto
e cadere nel bacile d’acqua della serenità.
Eppure, da allora
nulla tranne il rumore dell’autopromozione,
il frastuono di ristoranti rumorosi,
i discorsi di proclamazione di laurea,
il piccolo re della voce che dice la sua,
e oggi l’orgoglio di scrivere questi versi,
che dev’essere la ragione per cui la mia penna
mi ha voltato la schiena per nascondersi la faccia tra le mani.