La prima lezione di Antropologia culturale è sempre un po’ come il primo appuntamento: ci si presenta, si spiega cosa si farà insieme e si prova a dire perché mai vale la pena di restare. In questo caso, l’oggetto del desiderio è la cultura, che non è un hobby raffinato né il catalogo dei classici da leggere, ma il sapere che si apprende, che non nasce con noi.
Per capirci: non è la natura che ci
dice cosa è commestibile e cosa ci fa ribrezzo, né ci insegna
come stare in piedi senza sembrare marionette goffe. Tutto questo lo
impariamo, e imparandolo diventiamo umani. Non a caso i riti di
passaggio, dal battesimo cristiano alla circoncisione ebraica,
fino alle iniziazioni tribali, servono a ricordarci che non basta nascere
per essere qualcuno: bisogna essere trasformati, riconosciuti,
introdotti dentro una trama di simboli.
Qui l’antropologia si fa
laboratorio comparativo: mette insieme pratiche diverse e mostra che, al
netto delle differenze, l’idea è la stessa. La biologia da sola non
basta: ci vuole un timbro culturale, un marchio simbolico, per
farci diventare persone.
Non è solo roba nostra, per carità: anche le orche insegnano ai piccoli tecniche di caccia e gli scimpanzé mostrano come si rompono le noci con le pietre. Persino l’orso M49, ribattezzato Papillon, sembra avere una biografia culturale. Ma c’è una differenza decisiva: la cumulatività. Quello che noi impariamo non si perde più,
si stratifica, cresce: è l’effetto cricchetto (ratchet effect), che fa sì che l’agricoltura non debba essere reinventata ogni volta, ma diventi punto di partenza per altre invenzioni.
E allora sì, siamo imperfetti, fragili,
incompleti. Ma è proprio qui che abita la nostra forza. Rita Levi
Montalcini lo chiamava “elogio dell’imperfezione”, Leonard Cohen
ci ha aggiunto che “c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce”.
L’antropologia non è altro che il mestiere di inseguire queste crepe,
di capire come l’umano si costruisce sulle proprie mancanze,
trasformandole in possibilità.
