Qualche anno fa, quando pensavo di vivere un’altra vita, ho iniziato una serie di letture mai affrontate nella mia formazione professionale, vale a dire testi il cui l’umanità è analizzata anche nella sua componente animale. Uno degli autori introduttivi era il compianto Frans de Waal, i cui studi sugli scimpanzè e sui bonobo hanno chiarito alcune cose importanti sull’origine della morale e sul concetto di potere. In un suo libro si parlava anche della storia per certi versi incredibile di Jane Goodall, scomparsa il primo ottobre 2025. Mi era talmente piaciuta quella ricostruzione di de Waal, e tanto importante mi era apparsa per l’accademia, le scienze sociali e la politica, che avevo deciso di pubblicare un breve pezzo, ora perduto nei meandri inaccessibili del web. Lo ripubblico qui come modesto omaggio a questa studiosa, alla sua onestà intellettuale e al suo coraggio.
Solomon “Solly” Zuckerman era un baldo
medico britannico (nato nel 1904, figlio sudafricano di genitori ebrei russi)
che a 24 anni si trovò fare lo zoologo nella “Collina delle scimmie” del
Regent’s Park Zoo di Londra. Aveva poche idee, ma molto chiare, e tra queste vi
era la convinzione che gli umani andassero tenuti concettualmente separati da
tutti gli altri animali.
Così, senza che vi fossero ragioni di
ordine scientifico, aveva stabilito che gli australopiteci non potevano essere
considerati antenati degli umani, e lo stile di vita di scimmie e primati fosse
assolutamente diverso da quello degli umani: divenire umani, nella sua
concezione, era stato un lavoro di separazione, di negazione totale
di quella matrice animale. La sua idea era nitida, quasi una fissazione:
gli umani non sono animali. La strada per provare questo principio diventava
doppia.
1.
Dimostrare che gli
animali sono davvero animali. Come dire, proprio delle bestie. Nello zoo
di Regent’s Park mise allora assieme un bel po’ di mandrilli (un tipo di
scimmie piuttosto aggressive, dotate di canini affilatissimi e i cui maschi
sono grandi mediamente il doppio delle femmine) facendo competere i maschi tra
loro. Tra i mandrilli, ogni maschio tende a costituire un gruppo di femmine
sotto il suo controllo, ma mettendo assieme intenzionalmente meno femmine che
maschi, si crea il contesto per scatenare una feroce violenza competitiva.
Sulla Collina delle scimmie, Zuckerman poteva così vedere maschi che si
scannavano per il controllo delle femmine, e poi si portavano in giro le loro
“conquiste”, spesso sfinite o morte.
Questa impressionante impresa scientifica portò alla pubblicazione, nel
1932, del libro che gli diede fama (e che poi lo portò a collaborare come
“Consigliere di guerra” con l’Amministrazione britannica), vale a dire La
vita sociale delle scimmie e dei primati. In questo libro l’anatomista
ventottenne sosteneva che quel che era successo nello zoo londinese era tipico
delle società scimmiesche e lanciava un monito forte a che gli umani non
prendessero quella società a proprio modello: “Il legame sessuale è più
forte della relazione sociale e un maschio adulto, a differenza di una
femmina, non appartiene a nessun altro individuo” (p. 303). La lezione
era chiara: gli animali sono incapaci di relazioni sociali che non siano
dettate dalla forza fisica e ogni maschio è un individuo che si
relaziona con gli altri utilizzando solo questa forza come unità di misura
della sua socialità.
2.
Tutti gli studi
successivi hanno dimostrato la falsità di una simile concezione delle scimmie e
dei primati, ovvero bruti in costante preda della violenza, ma lord Zuckerman
(questo, intanto, il titolo acquisito nel 1971 per i suoi evidenti meriti) non
era uomo da farsi intimidire dalla realtà e tirava dritto. Se la montagna della
bestialità animale era difficile da scalare, si doveva
comunque evitare che sentimenti e pratiche troppo umane potessero essere
individuate nel mondo animale: antropomorfismo ingenuo, ecco il vero
nemico di uno scienziato tutto d’un pezzo.
Immaginate quindi la faccia di Solly
Zuckerman quando, nel 1962, presiedendo una sessione di lavoro della Zoological
Society of London, questo trombone ormai ultracinquantenne, pieno di sé quanto
di pregiudizio, vide che tra gli iscritti a parlare c’era Jane Goodall.
La signorina aveva 28 anni (gli stessi di quando Solly aveva iniziato
l’esperimento della Collina delle scimmie), una bellezza inglese incantevole,
e non possedeva alcun titolo di studio, neppure una laurea triennale in
scienze naturali. Nel 1957 aveva viaggiato in Kenya e lì aveva contattato un
famoso paleontologo, Louis Leakey, che l’aveva assunta come segretaria per un
progetto di ricerca sul comportamento degli scimpanzè nel loro ambiente
naturale, che secondo Leakey poteva dire molto sulle origini del comportamento
umano. Nel 1960 Leakey era riuscito a raccogliere i fondi per far partire il
progetto e ormai da quindici mesi Jane studiava gli scimpanzè del parco
Gombe, in quella che oggi si chiama Tanzania. I risultati del lavoro di
Jane erano sbalorditivi, ed era proprio per quei dati della sua ricerca che
era stata chiamata a relazionare, con la sua esile figura e l’immancabile coda
di cavallo.
Zuckerman schiumava rabbia e testimoni
oculari lo ricordano scagliarsi contro gli organizzatori alla fine
dell’incontro: “Chi ha invitato questa ragazzina sconosciuta e
ridicola a un convegno scientifico?”
Era una donna in un ambiente dominato da
maschi, non aveva alcun titolo accademico (anche se Cambridge accolse il suo
progetto per l’evidente quadro teorico innovativo e le conferì il dottorato nel
1966) e, peggio che mai, aveva aperto una pista di ricerca incredibile, dato
che gli scimpanzé sembravano in grado di praticare costumi che fino ad
allora erano stati considerati specifici degli umani, almeno tra i primati: fabbricazione
e uso intenzionale di strumenti, diplomazia politica, strategie di guerra,
caccia di altri animali, compassione e collaborazione. La rigida barriera
tra umani e animali che Zuckerman aveva eretto facendo massacrare tra loro
i mandrilli del Regent’s Park Zoo sembrava crollare sotto i docili colpi di
questa solidissima biondina senza laurea.
Nel 1991 — dopo che Jane Goodall aveva da
tempo sconvolto il mondo e “ridefinito l’uomo”, come aveva riconosciuto Louis
Leakey — il vecchio lord Zuckerman ancora non si dava per vinto e trovò le
energie per scrivere una lunghissima recensione di diversi libri (tra cui
l’autobiografia di Goodall). Recensione intitolata a ribadire la fissazione di
una vita di studio: Apes R not Us, qualcosa come “Mica siamo scimmie”. I
commenti che Zuckerman riserva al lavoro di Goodall sono imbarazzanti per il livore
senile di chi non riesce ad ammettere che la propria teoria era semplicemente
errata, che gli esseri umani sono primati molto più vicini agli scimpanzè e
ai bonobo di quanto non si potesse neppure immaginare negli anni Sessanta e che
quindi non solo la bestialità ci appartiene come specie, ma l’umanità per
molti versi appartiene a tutti i primati.
Il vecchio Solly, a sprezzo del ridicolo,
non si mosse dalla sua idea, al massimo concesse che l’avvenenza della giovane
signora avesse lanciato una moda per lui poco comprensibile: “Sarebbe stato
sorprendente se la pubblicità associata alla vita della Goodall non avesse
creato lo stereotipo di giovani donne attraenti che […] abbandonano la
civiltà ‘per entrare in comunione con la natura'…".
Oggi nessuno ricorda più Solly Zuckerman,
e questo è un bene, mentre Jane Goodall è celebrata come colei che, tra i
primi, ha empiricamente messo in discussione l’eccezionalismo umano. Ci
resta solo il dubbio che, dimenticato Zuckerman, abbiamo scordato l’importanza
in negativo della sua lezione: gli umani sono meno bestiali di quanto
potrebbe pensare il nostro ignorante pessimismo, perché i nostri cugini primati
non raggiungono la crudeltà animalesca che immaginavamo, prima di
cominciare a conoscerli.
E proprio a dispetto di questo ignorante
pessimismo, la nostra animalità non è da idealizzare e neppure va demonizzata:
i nostri corpi e il sistema delle nostre percezioni sono una inossidabile e
ineluttabile dotazione naturale. Illudersi, come Zuckerman, che ciascuno di noi
possa costruirsi interamente in base alle sue scelte culturali o
psicologiche, senza tener conto di quel che ci impone la forza – spesso
benefica – della natura, rischia di introdurre, di nuovo, un eccezionalismo
di cui possiamo davvero fare a meno e di cui Goodall aveva ragione a dubitare.