Antropologia culturale Modulo A Lezione 03 registrata il 7 ottobre 2025
C’è un’immagine che mi torna sempre in mente quando parlo di cultura: l’uomo nudo davanti al paniere vuoto di Epimeteo. Tutti gli animali hanno già ricevuto un dono — zanne, piume, artigli, pellicce — e a lui non resta nulla. È l’ultimo della fila, il dimenticato. Serve un furto, un colpo di mano divino: Prometeo ruba il fuoco e lo regala all’uomo. Da quel furto nasce la nostra umanità.
L’uomo è l’unico animale che non nasce
finito. È l’unico che deve imparare quasi tutto: a camminare, a parlare, a
difendersi. La nostra dotazione di istinti è piuttosto carente, e gran
parte di ciò che sappiamo fare lo sappiamo perché lo abbiamo appreso.
Siamo cuccioli prematuri che sopravvivono solo se qualcuno insegna loro come si
fa. E questa necessità di apprendere, invece di essere una condanna, è la
nostra forza più grande. La cultura non è un optional, è il nostro ecosistema.
Senza cultura non siamo liberi: siamo morti.
A differenza degli altri animali, però,
non ripartiamo mai da zero. Il nostro sapere è cumulativo, si stratifica
come un deposito di invenzioni, gesti e parole che si trasmettono da una
generazione all’altra. È quello che Michael Tomasello chiama effetto
cricchetto: ogni innovazione resta incastrata nel meccanismo, impedendo di
tornare indietro. È così che la cultura umana cresce, non per prove isolate, ma
per eredità condivisa. L’apprendimento non è un’avventura individuale,
ma un gesto collettivo. Per questo lasciare un bambino (o un adulto) “libero di
farsi da solo” non è libertà, è crudeltà. Nessuno “si fa da solo”. La
solitudine non emancipa, isola.
La tradizione è il nome che diamo a
questo filo di trasmissione, all’insieme di regole, linguaggi e gesti che ci
tengono in vita. Non è un recinto da abbattere per principio, ma una casa da
aprire con cautela. Come dice Chesterton, prima di buttare giù una staccionata,
chiediti perché è stata messa.
Quando mia figlia smise di chiamare la tartaruga “cunga” e imparò a dire “tartaruga”, non fu un atto di sottomissione: fu il suo ingresso nel mondo condiviso. La sua creatività si piegò alla grammatica comune, e in quella piega si fece persona. È lì che l’individuo diventa umano: quando rinuncia a essere l’unico centro dell’universo linguistico.
Oggi invece l’ideologia del “fatti da
solo” ha colonizzato tutto. È la pedagogia del narcisismo: “sii te
stesso”, “crea la tua verità”, “non lasciarti definire da nessuno”. E così il
soggetto contemporaneo crede di essere più interessante del mondo. Si specchia
nel proprio linguaggio, confonde libertà e autoreferenzialità, e finisce a parlare
come una paziente schizofrenica che inventa parole perfette ma incomprensibili.
Non comunica, si contempla.
Prometeo, al contrario, non ruba il fuoco
per sé. Lo ruba per noi. La cultura è questo: una fiamma che non
appartiene a chi la tiene, ma a chi la riceve. Ogni volta che la trasmettiamo,
diventiamo un po’ più umani. Ogni volta che la tratteniamo, torniamo a
essere animali nudi davanti al paniere vuoto.