Come si diventa etnografi. E perché non basta un registratore acceso

Antropologia culturale Modulo A Lezione 13 registrata il 29 ottobre 2025

 

Oggi, nella Lezione 13, ho dovuto fare una cosa terribile: spiegare l’esonero. E ogni volta che dico “esonero”, negli occhi degli studenti leggo la stessa domanda: “C’è da studiare?”.

La risposta breve è: .
La risposta lunga è: sì, ma con criterio.

Perché l’esonero non è un quiz di memoria. È un test di gerarchizzazione concettuale. Devi prendere un tema del corso e spiegarlo come se avessi una classe di liceo davanti. Non un congresso internazionale, non tuo cugino a cena: un liceo. Che significa tenere insieme rigore e chiarezza, e imparare che la comprensione non è un sentimento ma un esercizio di scelte.

Da qui siamo finiti dritti su Olivier de Sardan, che è un po’ il maestro zen della metodologia etnografica. E che ci ricorda che per fare ricerca servono due cose: il taccuino e l’impregnazione.
Due strumenti tanto semplici quanto micidiali.

L’impregnazione è quella cosa stranissima per cui, vivendo mesi con un gruppo umano, inizi ad assorbire regole, tempi, modi di scherzare, distanze corporee. Non puoi tradurle, non puoi spiegarle, le incarni. È il motivo per cui Piasere dice che solo chi vive con i rom capisce davvero il loro umorismo. Perché è un sapere incorporato, non un paragrafo del manuale.

Il taccuino, invece, serve a ricordarti chi sei. È la stanza degli specchi dove annoti tutte le volte in cui il tuo senso comune sbatte contro quello altrui. Senza taccuino, l’etnografo diventa turista. E il turista non produce dati, produce souvenir.

Poi arriviamo ai colloqui, che non sono interviste. L’intervista è asimmetrica: domanda, risposta, blocco note. Il colloquio invece si adatta ai codici locali. Eric Michaels lo scoprì a sue spese tra i Warlpiri, dove fare domande era un atto moralmente offensivo. Per loro, domandare significava che gli anziani non avevano insegnato bene. E infatti l’etnografo deve imparare a posizionarsi, non per virtù morale ma per accuratezza cognitiva: genere, età, fede, orientamento, tutto incide su ciò che ti viene detto o taciuto.

C’è poi il capitolo delle storie di vita, che sono biografie ma anche atti politici. Come quella di Leonidas, contadino macedone che cuciva assieme storia nazionale e familiare. E lì ti accorgi che il nazionalismo non è un’idea astratta ma un mestiere quotidiano, fatto di etichette che cambiano con i confini, con la religione, con la lingua. Una vera palestra di diforentità.

Poi arriva il momento freddo: il censimento, i dati etic. Roba da misurare in metri quadrati, correlazioni, percentuali. Lì l’etnografo non chiede senso: misura. Per ricordarci che il livello emic racconta, ma a volte copre. E che senza numeri rischiamo di scambiare una narrazione per un fatto.

Seguono le fonti scritte, gli archivi, i social, i documenti. Oggi l’etnografo non può arrivare in campo senza aver già letto tutto ciò che produce memoria collettiva. Siamo nell’era dei supporti extrasomatici: la storia è già scritta, bisogna solo capire come decifrarla.

E poi il capitolo più bello: la politica del campo.
La triangolazione semplice serve a verificare se ciò che ti dicono è plausibile.
La triangolazione complessa serve a capire perché opinioni diverse emergono da classi sociali, generi, generazioni diverse.
Non cerchi la “verità”: cerchi la mappa dei punti di vista.

Infine, l’autentica geometria dell’etnografia: iterazione e saturazione.
L’iterazione è la logica delle reti sociali che si aprono a catena: uno ti manda da un altro, che ti manda da un altro ancora.
La saturazione è il punto in cui i colloqui smettono di aggiungere qualcosa.
L’interpretazione però non si satura mai: siamo figli di Geertz, e l’ermeneutica non ha linea del traguardo.

La lezione si chiude ricordando che sì, de Sardan è tecnico, ma la tecnica serve a non raccontarci storie. L’etnografia è un mestiere artigiano: si fa con le mani, con la presenza, e soprattutto con l’umiltà di stare dentro il mondo degli altri senza dimenticare il proprio.