Antropologia culturale Modulo A Lezione 11 registrata il 27 ottobre 2025
Nell’aula della lezione ho provato a fare
capire questa cosa prendendo di petto le tre grandi vie della conoscenza
secondo Boyer. La prima – quella scientifica – è brutale: corpus
condiviso, metodi verificabili e pochissimo romanticismo. I classici non sono
oracoli, sono tentativi da migliorare. Chi appartiene a questo mondo si
riconosce: parla lo stesso lessico, discute gli stessi risultati, litiga sui
dati, non sui santi.
La seconda – l’erudizione – è ciò
senza cui la prima non esisterebbe. È fatta di persone che passano la vita a
leggere, raccogliere, classificare. Sono quelli che tengono in piedi il mondo:
come i botanici che decidono cosa sia davvero un “ciclamino selvatica”, o i
linguisti che conoscono la differenza fra un allofono e un morfo libero. Senza
di loro, niente scienza.
La terza via – le “connessioni
sorprendenti” – è quella in cui noi antropologi rischiamo di cadere un
giorno sì e uno pure. È la tentazione dell’intuizione scintillante, del
collegamento che fa scena, dell’accostamento
Shakespeare-colonialismo-dadaismo-spinozismo generato in tempo reale. È il
regno dei maestri evocati come amuleti: Benjamin, Derrida, Berger,
Foucault. Tutti utili, tutti nobili, ma spesso trasformati in una clava con cui
difendersi dalla realtà.
Il paradosso di oggi è che l’intelligenza
artificiale eccelle proprio nel terzo registro. Le chiedi: fammi un
paragone tra i Kula e Silicon Valley, e lei te lo fa in due secondi, con una
prosa così elegante da sembrare vera. E allora il rischio qual è? Che ci si
innamori della brillantezza, invece che del lavoro. Che
l’interpretazione diventi virtuosismo, e il virtuosismo una forma di deresponsabilizzazione
cognitiva.
Eppure, proprio adesso, l’antropologia
serve più di prima. Perché se la psicologia studia come si apprende, noi
studiamo come si trasmette: come un’idea riesce a circolare nonostante
il caos, come un’abitudine si stabilizza, come si crea quella fragile
illusione di coerenza che chiamiamo cultura. E questo riguarda tutto:
religioni, denaro, aziende, stati. Tutte entità che trattiamo come se
esistessero davvero, pur sapendo che sono costruzioni affidate
all’immaginazione coordinata.
Nella lezione ho mostrato lo spot della
Peugeot 206: un ragazzo dell’Asia meridionale che ricrea l’oggetto dei suoi
desideri “reimportandolo” nelle proprie competenze locali. Non è mimesi
servile, non è “occidentalizzazione”, è ibridazione concreta: un
incrocio tra flussi di immagini, mestieri, fantasie coloniali e tecniche di
lavoro. È globalizzazione come bricolage, non come imposizione.
Da qui ad Appadurai il passo è breve: disgiuntura e differenza. I flussi contemporanei non obbediscono più alla vecchia gerarchia marxiana infrastruttura-struttura-sovrastruttura. Si intrecciano, deviano, accelerano, ignorano i confini. Capire un caso oggi significa mappare i flussi ponto per punto, senza cercare la grande causa unica che spiega tutto. Perché non c’è.
Insomma, quello che chiedo ai miei
studenti è questo: interpretate pure, ma non fermatevi lì. Dalla thick
description bisogna sapere uscire, altrimenti diventa solo un bel racconto.
E noi non siamo qui per raccontare bene. Siamo qui per capire come il
mondo si tiene insieme.
