Funes, i cani coreani e la guerra mondiale dei significati


 

Antropologia culturale Modulo A Lezione 06 registrata il 14 ottobre 2025

C’è un momento, verso la metà della sesta lezione, in cui guardo la classe e dico la cosa più banale del mondo che però è anche una bomba concettuale: “La cultura è simbolica.”

Che è una frase che sembra innocua, quasi da manuale.
E invece è il modo antropologico di dirti che tutto ciò che credi di vedere non lo stai vedendo: lo stai interpretando.

La lezione parte dall’appropriazione culturale, quel fenomeno moral-pop che nasce dalla convinzione (giuridicamente assurda, culturalmente potentissima) che le culture siano proprietà. Come fossero appartamenti: “questo è nostro, quello no”.
E l’antropologo, invece, sghignazza dentro: perché il punto non è l’oggetto rivendicato, ma il noi che si costruisce rivendicandolo.
Il patrimonio culturale – sostengo – non è un possesso, è una finzione vichiana, una storia che ci raccontiamo per sentirci eredi di qualcosa.

Poi arriva la definizione che tutti fingono di conoscere ma quasi nessuno ha masticato davvero: la cultura è una rete di segni interconnessi.
Ognuno di noi vive dentro una rete semiotica personale, fatta di biografie e accidenti; ma la cultura nasce solo dove queste reti si sovrappongono. È come se ognuno avesse una mappa mentale disegnata male, e la società fosse il punto in cui alcune porzioni di queste mappe coincidono abbastanza da permetterci di parlarci senza sbatterci la testa.

E allora spuntano i giganti:
Saussure, che ti ricorda che il significato non abita nelle cose, ma nelle convenzioni;
Eco, che ti dice che un segno è quello che fa nel sistema;
Wittgenstein, che ti spiega che capire un segno è saperlo usare;
Weber, con il suo uomo intrappolato in una ragnatela di significati;
e infine Borges con il povero Funes, che ricordava tutto ma non capiva niente, perché senza categorie la realtà è solo un’onda che ti travolge.


Il passaggio decisivo arriva qui: l’essere umano non pensa nel mondo, pensa contro il mondo, filtrandolo. Categorizziamo tutto, dal sacro al commestibile, dal bello allo sporco. E poi ci inventiamo etichette bellicose come eroe, resistente, terrorista, che sono la prova vivente che la realtà non è mai neutrale: è sempre politica, sempre oggetto di una battaglia semiotica.

Il finale è ben congegnato nella sua frettolosità: la distinzione tra segno e simbolo.
Il segno vuole chiarezza, il simbolo vuole ambiguità.
Il primo ti dice “qui passa l’autobus”.
Il secondo ti dice “qui passa il destino”, e magari è solo un graffito fatto male.

È in quella tensione che viviamo: tra il bisogno infantile di mettere tutto in ordine e il bisogno adulto di accettare che il mondo è un sistema di significati litigiosi, negoziati, trasformabili.

La realtà non è data: è costruita. E noi, poveri primati parlanti, passiamo la vita a rincorrere i fili di questa rete, sperando che qualcuno ci insegni a non rimanerci impigliati.