Pecore, onore e malintesi: istruzioni per sopravvivere ai significati altrui


                                   Antropologia culturale Modulo A Lezione 09 registrata il 21 ottobre 2025

Arrivati alla nona lezione, mi accorgo che c’è un punto del corso in cui gli studenti capiscono davvero cosa significhi fare antropologia. È il momento in cui dico: i dati non si raccolgono, si producono. E di solito qualcuno sgrana gli occhi, come se avessi bestemmiato in classe. Lo capisco, perché anche io, da studente, immaginavo l’antropologo come uno che va in giro a cogliere fatti culturali come fossero fiori. Invece no: i fatti nascono nell’interazione, nella scrittura, nella traduzione. È un lavoro artigianale, non botanico.

A questo punto entra in scena Geertz, con la sua distinzione tra etic ed emic. La prima è la descrizione esterna, il modo in cui uno Stato, un esercito o un burocrate interpretano un’azione. La seconda è il significato che quella stessa azione ha per chi la compie. E qui racconto sempre la storia di Cohen, che è un piccolo capolavoro etnografico.

La scena è il Marocco coloniale. Berberi che assaltano gli ospiti di un mercante ebreo. Cohen che va dal capitano francese e si sente liquidato con un’alzata di spalle. Nella grammatica politica locale, quel gesto non è solo menefreghismo: è un’autorizzazione implicita. Così Cohen si regola di conseguenza. Va dallo sceicco, prende le pecore dei predoni e le porta via. Risultato: per i berberi è chiaro il messaggio, perché parla il linguaggio del ’ar, dell’onore. Per i francesi, invece, Cohen è un ladro di bestiame. Fine della storia.

Ogni volta che lo racconto, in classe qualcuno ride. E ha ragione. Perché l’equivoco è perfetto. Cohen non ruba nulla. Sta parlando. Usa le pecore come sintassi sociale. Il problema è che i francesi leggono la scena con il buon senso della loro accademia militare. E senza accesso al codice emic, tutto si deforma. Cohen finisce in prigione, le pecore sequestrate, e all’uscita il colonnello lo saluta con un “non è affar mio” che è un perfetto esempio di ignoranza semiotica travestita da amministrazione.

A questo punto intervengo io, perché all’esame c’è sempre qualcuno che ripete la favola ufficiale: “arrestano Cohen perché ha rubato le pecore”. No. Lo arrestano perché non capiscono. E l’antropologia serve esattamente a questo: a ricordarci che la realtà sociale non si capisce senza il linguaggio dei significati locali.

Da qui passo alle tesi metodologiche. Lavoriamo in piccolo per parlare del grande, come dice Eriksen. Ma con una prudenza che Geertz ribadisce in continuazione. Rischiamo sempre di rimanere incastrati nel caso, di perdere di vista la cornice. L’unico antidoto è l’attenzione, nel senso radicale in cui lo intendeva Simone Weil. Fare antropologia significa sospendere il “so già come funziona”, e imparare a leggere il mondo come un testo pieno di note, rimandi, traduzioni imperfette.

Quando introduco “Gli usi della diversità”, mi diverto a smontare due pilastri dell’etnocentrismo colto.
Lévi-Strauss, con la sua idea dei vagoni culturali su binari separati, che devono restare separati per non mescolarsi troppo. Mi piace definirlo, con delicatezza, un preservativo culturale. Peccato che le culture non siano vagoni ma torrenti, e che nessun francese, per quanto colto, rappresenti da solo la cultura francese.
Poi arriva Rorty, che trasforma l’Altro in un espediente psicologico per sentirsi meglio nella propria tribù. Qui Geertz taglia corto: se l’Altro è una caricatura, non aiuta nessuno a capire nulla.

Concludo spesso con l’apologo dell’“indiano ubriacone e del rene artificiale”. Una storia amarissima, dove nessuno capisce nessuno, e dove tutti si sentono nel giusto. È il perfetto esempio di ciò che accade quando l’immaginazione si spegne e ciascuno resta prigioniero della propria rete di significati.

E allora lo dico chiaramente. La diversità non va celebrata come folklore, non va temuta come minaccia e non va neutralizzata a colpi di “ognuno a casa sua”. Va compresa. Non accettata per forza. Compresa. È un lavoro quotidiano, faticoso e, per quanto mi riguarda, l’unico modo sensato per stare al mondo.