A questo punto entra in scena Geertz, con
la sua distinzione tra etic ed emic. La prima è la descrizione
esterna, il modo in cui uno Stato, un esercito o un burocrate interpretano
un’azione. La seconda è il significato che quella stessa azione ha per chi la
compie. E qui racconto sempre la storia di Cohen, che è un piccolo
capolavoro etnografico.
La scena è il Marocco coloniale. Berberi
che assaltano gli ospiti di un mercante ebreo. Cohen che va dal capitano
francese e si sente liquidato con un’alzata di spalle. Nella grammatica
politica locale, quel gesto non è solo menefreghismo: è un’autorizzazione
implicita. Così Cohen si regola di conseguenza. Va dallo sceicco, prende le
pecore dei predoni e le porta via. Risultato: per i berberi è chiaro il
messaggio, perché parla il linguaggio del ’ar, dell’onore. Per i
francesi, invece, Cohen è un ladro di bestiame. Fine della storia.
Ogni volta che lo racconto, in classe qualcuno ride. E ha ragione. Perché l’equivoco è perfetto. Cohen non ruba nulla. Sta parlando. Usa le pecore come sintassi sociale. Il problema è che i francesi leggono la scena con il buon senso della loro accademia militare. E senza accesso al codice emic, tutto si deforma. Cohen finisce in prigione, le pecore sequestrate, e all’uscita il colonnello lo saluta con un “non è affar mio” che è un perfetto esempio di ignoranza semiotica travestita da amministrazione.
A questo punto intervengo io, perché
all’esame c’è sempre qualcuno che ripete la favola ufficiale: “arrestano Cohen
perché ha rubato le pecore”. No. Lo arrestano perché non capiscono. E
l’antropologia serve esattamente a questo: a ricordarci che la realtà sociale
non si capisce senza il linguaggio dei significati locali.
Da qui passo alle tesi metodologiche.
Lavoriamo in piccolo per parlare del grande, come dice Eriksen. Ma con una
prudenza che Geertz ribadisce in continuazione. Rischiamo sempre di rimanere
incastrati nel caso, di perdere di vista la cornice. L’unico antidoto è l’attenzione,
nel senso radicale in cui lo intendeva Simone Weil. Fare antropologia significa
sospendere il “so già come funziona”, e imparare a leggere il mondo come un
testo pieno di note, rimandi, traduzioni imperfette.
Quando introduco “Gli usi della
diversità”, mi diverto a smontare due pilastri dell’etnocentrismo colto.
Lévi-Strauss, con la sua idea dei vagoni culturali su binari separati,
che devono restare separati per non mescolarsi troppo. Mi piace definirlo, con
delicatezza, un preservativo culturale. Peccato che le culture non siano
vagoni ma torrenti, e che nessun francese, per quanto colto, rappresenti da
solo la cultura francese.
Poi arriva Rorty, che trasforma l’Altro in un espediente psicologico per
sentirsi meglio nella propria tribù. Qui Geertz taglia corto: se l’Altro è una
caricatura, non aiuta nessuno a capire nulla.
Concludo spesso con l’apologo dell’“indiano
ubriacone e del rene artificiale”. Una storia amarissima, dove nessuno
capisce nessuno, e dove tutti si sentono nel giusto. È il perfetto esempio di
ciò che accade quando l’immaginazione si spegne e ciascuno resta prigioniero
della propria rete di significati.
E allora lo dico chiaramente. La diversità
non va celebrata come folklore, non va temuta come minaccia e non va
neutralizzata a colpi di “ognuno a casa sua”. Va compresa. Non accettata
per forza. Compresa. È un lavoro quotidiano, faticoso e, per quanto mi
riguarda, l’unico modo sensato per stare al mondo.
