Quando abbiamo iniziato a pensare insieme (e perché non abbiamo più smesso)


Antropologia culturale Modulo A Lezione 07 registrata il 15 ottobre 2025

Arrivati alla settima lezione, mi tocca affrontare un tema che manda in crisi metà degli studenti e fa sorridere l’altra metà: il nazionalismo. E io inizio sempre nello stesso modo, dicendo una cosa che suona quasi scortese: le nazioni non esistono, se non nella nostra testa. Di solito vedo un paio di sopracciglia alzarsi, qualcun altro che prende appunti con aria sospetta, e io che continuo come se niente fosse.

La verità è che le nazioni non precedono il nazionalismo, ci arrivano dopo, un po’ come quei locali che diventano “storici” solo quando ci mettono la targa. Me lo hanno insegnato tre signori fondamentali: Elie Kedourie, Ernest Gellner e soprattutto Benedict Anderson.
Ed è con Anderson che le cose si fanno davvero interessanti, perché introduce l’idea delle comunità immaginate: milioni di persone che non si vedranno mai, ma che riescono comunque a pensarsi come parte dello stesso “noi”.

E come ci riescono? Grazie a un’infrastruttura molto poco romantica: la stampa. È quando cominciamo a leggere gli stessi testi, nella stessa lingua, che le nostre menti si allineano un po’. Non per decreto divino o vocazione nazionale, ma per quello che Anderson chiama capitalismo a stampa.
L’italiano, insomma, non nasce patriottico: nasce editoriale.


Da qui passo al cuore del discorso: la cultura è una rete di significati, non un set di valori che ci trasmettono col latte materno. E questa rete ci tiene “impigliati”, come dice Geertz.
Non nel senso tragico, ma in quello ironico: qualunque cosa facciamo, ci troviamo a interpretare segni che qualcun altro ha costruito prima di noi.

Qui mi diverto sempre a ricordare che “lezione” viene da legĕre, “leggere”. Quindi una lezione è, letteralmente, un esercizio di lettura collettiva. Pensiamo insieme perché leggiamo insieme.
E questo, a ben vedere, è lo stesso principio che regge il sentimento nazionale.

Poi c’è Jack Goody, che mi ha cambiato la vita accademica più di molti maestri. Con lui ho capito che la scrittura non serve solo a registrare informazioni: trasforma il pensiero. Ci educa a ragionare per sequenze, a ordinare, a classificare. Senza questa tecnologia mentale non esisterebbe la cooperazione complessa di cui andiamo tanto fieri.

Infine torno sempre al punto di partenza: se continuiamo a immaginare le culture come blocchi omogenei è perché siamo figli di questa storia politico-semiotica. Da una parte c’è la nostra tendenza bio-sociale a dividere il mondo in noi e loro; dall’altra, due secoli di nazionalismo moderno che ci hanno insegnato a considerare questa distinzione come naturale, ovvia, addirittura morale.

Per chi vuole una versione TED-friendly, cito spesso Harari:
gli esseri umani cooperano in grandi numeri e in modo flessibile perché credono in storie condivise. Che poi è la lezione più semplice e più difficile dell’antropologia: non siamo un popolo perché ci somigliamo, ma perché immaginiamo le stesse cose.

Il resto, diciamolo, è coreografia patriottica.