Quando l’occhiolino non basta più: perché l’antropologia deve anche spiegare


Antropologia culturale Modulo A Lezione 10 registrata il 22 ottobre 2025

Arrivati alla decima lezione sento sempre che sto camminando sul filo. Da un lato c’è Geertz con la sua meravigliosa thick description, che ti insegna a leggere i significati. Dall’altro c’è un problema che non possiamo più ignorare: interpretare non basta.

L’ho capito tardi anche io, perché l’ermeneutica ha un fascino incredibile. Ti dà l’impressione di essere un decifratore di misteri. È come trovare l’occhiolino dentro il tic.
Però c’è un rischio: che tutto si riduca alla bravura narrativa dell’antropologo. E lì l’antropologia si trasforma in letteratura commentata.

È qui che entrano in scena Harvey Whitehouse e Pascal Boyer, ed è qui che la lezione cambia passo. Whitehouse, con la sua solita gentilezza micidiale, ti ricorda che l’antropologia è diventata epistemologicamente innocua per un motivo preciso: ha sviluppato un “esclusivismo interpretativo” che la rende sospettosa verso qualunque parola che assomigli a causa, meccanismo, processo. E così, mentre noi discutiamo di simboli e metafore, gli psicologi sperimentali e i neuroscienziati corrono avanti.

Whitehouse propone una via diversa: la consilienza. Non un “tutto è biologia”, non un “tutto è testo”, ma una cucitura onesta tra scienze naturali, sociali e umane. Per farlo, dobbiamo smettere di avere paura dei corpi (la biofobia delle humanities) e smettere di diffidare dei significati (la semiofobia delle hard sciences). L’acqua benedetta è acqua reale più valenza simbolica. Non si può studiare ignorando una delle due dimensioni.

Poi arrivo alla distinzione che uso sempre per chiarire il metodo:
spiegazioni di primo livello: ricostruzione emica, thick description, il mondo visto da dentro;
spiegazioni di secondo livello: perché quei significati funzionano, perché generano coesione, perché producono fiducia, identità, appartenenza.

Ed è qui che tiro fuori l’esperimento di puzzle box.

Scimpanzé e bambini di fronte alla stessa scatola. Quando è trasparente, gli scimpanzé saltano le parti inutili. I bambini no. Ripetono tutto. Whitehouse lo chiama opacità causale. E ha ragione. Noi umani siamo progettati per imitare anche ciò che non capiamo. È un prezzo da pagare per avere rituali, apprendimento sociale, allineamento di gruppo. Senza questa tendenza, niente religioni, niente riti d’iniziazione, niente “noi”.

E allora, o l’antropologia si ferma alla thick description e dice: “è il loro modo di dare senso”, oppure si chiede: “perché proprio quel modo?”. È qui che entrano memoria, neurofisiologia, psicologia sociale.

Perché un rituale doloroso funziona? Perché il dolore intenso produce flashbulb memories. Perché queste memorie favoriscono fusioni identitarie. Perché la fusione identitaria predispone alla lealtà estrema. E a un certo punto capisci che stiamo parlando anche di radicalizzazione, violenza politica, recidiva carceraria. Non è riduzione. È rispetto epistemico: prendere sul serio le pratiche culturali come fenomeni intelligibili, verificabili.

Poi passo il microfono a Boyer. E lì divento più amaro. Perché Boyer dice una cosa che brucia: l’antropologia, oggi, conta pochissimo nel discorso pubblico. Non per colpa degli altri. Per colpa nostra. Abbiamo abbandonato le grandi domande sulla natura umana. Ci siamo rinchiusi in piccoli silos interpretativi. Abbiamo perso la cumulatività. E intanto gli scienziati cognitivi fanno il lavoro che potremmo fare anche noi, se solo smettessimo di guardare la biologia con sospetto.

Boyer suggerisce tre strade.
La via scientifica: ipotesi, metodi condivisi, dati cumulabili.
La via erudita: descrizioni solide, archivi etnografici che non evaporano dopo vent’anni.
La via delle connessioni sorprendenti: intuizioni che illuminano, ma che non possono sostituire il rigore.

Il punto finale della lezione è semplice. Tenere Geertz, ma aggiungere Whitehouse. Tenere i significati, ma anche i meccanismi. Tenere l’interpretazione, ma senza trasformarla in litania esegetica.

Per essere utile alle persone, ai decisori, ai contesti concreti, l’antropologia deve fare entrambe le cose. Leggere i significati e spiegare perché funzionano.