Antropologia culturale Modulo A Lezione 12 registrata il 28 ottobre 2025
C’è stato un tempo in cui la cultura sembrava un vagone: solido, chiuso, tutto dentro lì. Poi arriva Appadurai e ribalta il tavolo: la cultura non è un contenitore, è un insieme di flussi. Anzi, correnti che si intersecano, si mescolano, si pigmentano a vicenda. Persone, idee, denaro, immagini, tecnologie. Niente più blocchi, solo movimento.
L’esempio
migliore è quello dei bangladesi tra Italia e Londra. Stessa origine,
storie diversissime: religiosità inconciliabili, pratiche di consumo ibride,
cicatrici diasporiche che non si parlano. È la superdiversità: incastri
mai visti, combinazioni che non seguono più nessuna mappa.
E
mentre continuiamo a temere l’imperialismo culturale americano, il mondo
si globalizza in altro modo: cinese, indiano, africano. Basta un video da Lagos
per spostare una moda romana. Il problema non è più chi domina chi, ma come le
immaginazioni si sincronizzano senza frontiere.
Qui
arriva la seconda trasformazione: dal tempo del primo canale secondo canale
all’epoca dei micro schermi. La nazione non sincronizza più nessuno. La scuola
compete con TikTok, la famiglia si sbriciola in decisioni prese via
smartphone, e perfino le tradizioni artigiane, come quella del vetraio
muranese, si regenerano in mani straniere. La globalizzazione non erode
le culture, le riarticola.
Dentro
questo caos, Appadurai ci dà la sua bussola: gli -orami. Etnorama,
tecnorama, finanziorama, mediorama, ideorama. Cinque lenti per leggere come
ogni fenomeno, dalle Nike ai conflitti, è l’effetto locale di forze nate
altrove. Lo si visto anche nelle piazze: gruppi islamici tradizionalisti
che marciano accanto a collettivi queer. Obiettivi convergenti, valori
lontanissimi. Il solito gioco: il nemico del mio nemico. Con esiti
prevedibili, come l’Iran del 1979 insegna.
Poi
torno al mestiere di casa: l’etnografia. Osservazione partecipante,
colloqui, censimenti, fonti scritte. Quattro strumenti tecnici che non
funzionano senza il vero prerequisito: il paradosso dell’intimità. A
differenza di altre scienze sociali, noi possiamo lavorare solo se qualcuno si
fida, apre la porta, ci lascia sbirciare nel retrobottega della vita
quotidiana. Herzfeld lo chiamava intimità culturale. Io lo traduco così:
una verità che non ti viene detta non esiste.
Non
basta fare volontariato, non basta viaggiare. Serve la residenza, la
lingua del posto, il taccuino che conserva ciò che ancora non capisci ma
che un giorno forse diventa dato.
E
così ho chiuso la lezione: prima di andare sul campo, proviamo a leggere noi
stessi attraverso gli -orami. Le famiglie, i lavori, le relazioni, tutte
attraversate da flussi che non controlliamo. Capire da dove arrivano è il primo
passo per capire anche il resto.
