Tic, occhiolini e altre forme di sopravvivenza nella rete dei significati

 

Antropologia culturale Modulo A Lezione 08 registrata il 20 ottobre 2025

All’ottava lezione mi tocca affrontare uno dei nodi più delicati dell’antropologia: spiegare che capire gli esseri umani non è un’operazione da meccanico, ma un lavoro di interpretazione. E ogni volta che lo dico mi rendo conto che sto litigando sia con chi vede la cultura come un epifenomeno biologico sia con chi la vede come una fantasia collettiva completamente arbitraria. La verità, come sempre, è che la cultura sta nel mezzo, sospesa tra vincoli fisici e libertà simbolica.

Riparto da Edelman e Geertz, da Bourdieu, Eco e Harari. Ognuno, a modo suo, dice la stessa cosa: non siamo liberi come crediamo, ma non siamo nemmeno burattini delle condizioni materiali. Le nostre pratiche culturali spuntano dove ecologia, economia e simboli si incontrano, un po’ come certe piante che crescono solo se trovano la fessura giusta nell’asfalto.

A questo punto porto in scena lui, il protagonista: Clifford Geertz, con il suo saggio del 1973, Verso una teoria interpretativa della cultura. Ed è sempre qui che mi trasformo in un narratore un po’ ironico, perché Geertz dice una frase che, se fosse un meme, avrebbe fatto il giro del mondo: siamo insieme il ragno e la mosca.
Tessiamo reti di significati e poi ci finiamo dentro. Una metafora che, a volerla prendere sul serio, spiega metà della vita sociale.

Poi arriva la distinzione fondamentale tra thin description e thick description. La prima è la descrizione del movimento. La seconda è il suo senso. Il famoso esempio del tic e dell’occhiolino lo uso sempre con un piacere quasi infantile. Faccio anche la faccia: prima espressione involontaria, poi occhiolino complice. E lì scatta la risata, perché il punto diventa subito chiaro.
Lavare un bambino e battezzarlo sembrano la stessa azione. Ma solo uno dei due ti promette la salvezza eterna. L’acqua di Lourdes e quella del rubinetto sono chimicamente identiche, ma culturalmente distano più di due continenti.

È qui che dico agli studenti che capire non significa giustificare. Capire perché un gruppo umano compie certe azioni non implica approvarle. Si può analizzare culturalmente il nazismo senza fare apologia di niente. L’antropologia è un esercizio di lucidità, non di indulgenza.

Nella parte finale introduco l’episodio marocchino del 1912. È perfetto per mostrare che ogni etnografia è una matrioska di interpretazioni. C’è l’informatore che interpreta ciò che vede. C’è il traduttore che interpreta l’informatore. C’è l’etnografo che interpreta entrambi. E poi ci siete voi, lettori, che interpretate me. Quando lo spiego mi viene da sorridere, perché è un modo elegante per dire che l’antropologia non è mai un racconto neutrale: è sempre una lettura di seconde e terze letture.

E così preparo il terreno per Whitehouse e Boyer, che arriveranno per dire: bene l’interpretazione, ma ora cerchiamo di capire come funziona la mente che interpreta. Non per demolire Geertz, ma per completarlo.

Se c’è un messaggio che vorrei restasse della lezione è questo: gli esseri umani non li si capisce misurandoli, li si capisce leggendo la trama dei significati che abitano. E quella trama, per quanto sottile, tiene insieme il mondo più di quanto facciano le sue strutture materiali.