Il popolo in cattedra (ma senza megafono)

 
Ogni tanto succede una cosa curiosa. Scrivi un saggio scientifico, lo mandi a una rivista accademica, affronti una serie di traversie editoriali degne di un romanzo di formazione ottocentesco, e alla fine il testo viene pubblicato. È quindi uscito

Pietro Vereni. 2025. «Il popolo in cattedra. Sinistra accademica, popoli oppressi e stati oppressori». Rivista di antropologia contemporanea, fasc. 1: 229–57. https://doi.org/10.48272/118437.

Fin qui tutto normale. O quasi.

Poi però scopri che, fuori dall’accademia, qualcuno è convinto che quel testo sia un manifesto politico, una presa di posizione militante, magari persino un tentativo di “fare propaganda”. Il che è interessante, perché il saggio in questione non dice cosa pensare, ma prova a capire come si pensa, e soprattutto perché in certi contesti si pensa in un modo e in altri in modo diametralmente opposto.

Il popolo in cattedra nasce esattamente da questa curiosità antropologica. Non è un pamphlet, non è un comizio, non è una chiamata alle armi. È un’analisi del modo in cui alcuni contesti sociali vengono raccontati con un linguaggio iperpoliticizzato, carico di categorie morali, sospetti, allarmi, mentre altri contesti analoghi vengono trattati con una cautela quasi cerimoniale, come se fossero fatti di cristallo.

La domanda non è “chi ha ragione”, ed è piuttosto: perché usiamo due grammatiche diverse per descrivere fenomeni simili?

È qui che entra in scena il vero bersaglio del saggio, che non è la politica in sé, ma il modo pigro e automatico di politicizzare il discorso, trasformando l’analisi in giudizio e il giudizio in riflesso condizionato. In certi casi si brandisce il vocabolario del potere, dell’oppressione, della violenza simbolica come una clava. In altri casi, improvvisamente, si scopre il valore della complessità, del contesto, delle sfumature. Non è un complotto, ma molto peggio: è un’abitudine.

Questo saggio prova a mostrare che l’iperpoliticizzazione selettiva non è una forma superiore di coscienza critica, ma spesso una scorciatoia cognitiva, una soluzione elegante per evitare il lavoro più faticoso: capire davvero cosa sta succedendo.

Il video che accompagna questo post, realizzato dall'AI NotebookLM, non aggiunge tesi nuove, ma prova a rendere visibile l’architettura argomentativa del testo. È un invito a leggere il saggio per quello che è: un esercizio di antropologia, non un atto di fede politica. Non ho avuto alcun controllo sulla generazione del video, gli ho solo dato in pasto il testo dell'articolo, a cui si riferisce come "the source". L'ho fatto generare in inglese un po' per allargare il bacino potenziale di spettatori, e un po', lo ammetto, per restringere quel bacino tagliando fuori sciocchi e facinorosi.

Se poi qualcuno continuerà a leggerlo come un testo “schierato”, pazienza. Come diceva un certo semiologo, non esiste vaccino contro la cattiva lettura, ma almeno si può riderne. E, ridendo, magari castigare i costumi.