Pietro Vereni. 2025. «Il popolo in
cattedra. Sinistra accademica, popoli oppressi e stati oppressori». Rivista
di antropologia contemporanea, fasc. 1: 229–57. https://doi.org/10.48272/118437.
Fin qui tutto normale. O quasi.
Poi però scopri che, fuori dall’accademia,
qualcuno è convinto che quel testo sia un manifesto politico, una presa
di posizione militante, magari persino un tentativo di “fare propaganda”. Il
che è interessante, perché il saggio in questione non dice cosa pensare,
ma prova a capire come si pensa, e soprattutto perché in certi
contesti si pensa in un modo e in altri in modo diametralmente opposto.
Il popolo in cattedra
nasce esattamente da questa curiosità antropologica. Non è un pamphlet, non è
un comizio, non è una chiamata alle armi. È un’analisi del modo in cui alcuni contesti
sociali vengono raccontati con un linguaggio iperpoliticizzato,
carico di categorie morali, sospetti, allarmi, mentre altri contesti analoghi
vengono trattati con una cautela quasi cerimoniale, come se fossero
fatti di cristallo.
La domanda non è “chi ha ragione”, ed è
piuttosto: perché usiamo due grammatiche diverse per descrivere fenomeni
simili?
È qui che entra in scena il vero bersaglio
del saggio, che non è la politica in sé, ma il modo pigro e automatico di
politicizzare il discorso, trasformando l’analisi in giudizio e il giudizio
in riflesso condizionato. In certi casi si brandisce il vocabolario del potere,
dell’oppressione, della violenza simbolica come una clava. In
altri casi, improvvisamente, si scopre il valore della complessità, del contesto,
delle sfumature. Non è un complotto, ma molto peggio: è un’abitudine.
Questo saggio prova a mostrare che
l’iperpoliticizzazione selettiva non è una forma superiore di coscienza
critica, ma spesso una scorciatoia cognitiva, una soluzione elegante per
evitare il lavoro più faticoso: capire davvero cosa sta succedendo.
Il video che accompagna questo post,
realizzato dall'AI NotebookLM, non aggiunge tesi nuove, ma prova a rendere visibile l’architettura
argomentativa del testo. È un invito a leggere il saggio per quello che è: un
esercizio di antropologia, non un atto di fede politica. Non ho avuto alcun controllo sulla generazione del video, gli ho solo dato in pasto il testo dell'articolo, a cui si riferisce come "the source". L'ho fatto generare in inglese un po' per allargare il bacino potenziale di spettatori, e un po', lo ammetto, per restringere quel bacino tagliando fuori sciocchi e facinorosi.
Se poi qualcuno continuerà a leggerlo come
un testo “schierato”, pazienza. Come diceva un certo semiologo, non esiste
vaccino contro la cattiva lettura, ma almeno si può riderne. E, ridendo,
magari castigare i costumi.