Antropologia culturale Modulo B Lezione 1 registrata il 10 novembre 2025
No. Perché per capire Durkheim bisogna
prima capire una cosa ovvia e insieme imbarazzante: che da qualche parte, nella
nostra storia evolutiva, ci siamo chiesti cosa diavolo significhi morire e
perché ogni tanto sogniamo i nonni morti che ci rimproverano. Quella roba lì,
che nessun manuale di metodologia vorrebbe affrontare prima della pausa caffè.
Spiego che la religione non è una patina
appiccicata sopra la ragione, tipo lo zucchero filato sulle mani dei bambini. È
una parte essenziale di quella cosa che chiamiamo cultura, la rete che
ci tiene in piedi quando la realtà ci ricorda che non abbiamo nessuna voglia di
essere lasciati soli davanti al caos. Gli umani sono grandi specialisti di
questo: trasformare il caos in cosmos, anche quando il cosmos è fatto di
spiriti un po’ permalosi.
E allora si arriva al punto in cui i miei
studenti pensano che la magia sia tutta una faccenda di gente che lancia
maledizioni perché ha visto troppi tutorial su TikTok. E devo spiegare che no,
che in certe tradizioni il mago non è un influencer con la cappa, ma uno che
cerca di negoziare con poteri metaumani per rimettere ordine nel mondo. A volte sbagliando clamorosamente, certo, ma almeno ci
prova.
La religione, invece, entra in scena
quando gli umani ammettono che certi eventi non si lasciano manipolare. E
allora implorano, pregano, trattano. È un salto di logica che fa molta
impressione: dalla volontà di controllare tutto alla consapevolezza che non
siamo onnipotenti. Dalla pretesa al riconoscimento.
Poi li porto da Durkheim, che fa
quell'operazione magnifica in cui la società si scopre specchio di sé
stessa. E da Horton, che ci chiede di smetterla di trattare le
cosmologie africane come se fossero poesiole tribali inventate da spiriti
fantasiosi. Per lui la differenza tra un cosmologo bantu e un fisico teorico
non sta nel fatto che uno usa la matematica e l’altro no, ma nel tipo di metafora
che permette di pensare l’ordine. L’uno ricorre ai clan, l’altro ai quark.
Nessuno dei due ha visto davvero un quark, tra parentesi.
E intanto mi rendo conto che la lezione
sta funzionando: qualcuno annuisce, qualcuno prende appunti, qualcuno sta già
pensando che la religione non è affatto quel residuo primitivo che gli avevano
raccontato. È un modo di stare al mondo in cui il senso non è dopo, ma
adesso. Qui. Nell’esperienza concreta di una comunità che prova a non
naufragare nel rumore di fondo.
Insomma, il corso comincia così: con un
misto di morte, sogno, metafore sociali, e il tentativo disperato
di convincere trenta ragazzi che la religione non è l’antenata imbarazzante
della scienza, ma una delle prime tecnologie umane per rendere la vita
vivibile. E che no, non la toglieremo di mezzo tanto facilmente.
