Siccome qualcuno si è risentito per il tono frettoloso con cui ho riassunto la mia posizione sull'uso della conoscenza come forma di distinzione sociale (è vero, ero stato troppo sintetico e poteva sembrare ce l'avessi con qualcuno, mentre mi interessava evidenziare una tendenza), preferisco aggiugere qualche altra riga.
Le mie riflessioni sulla fregola da aggiornamento (per cui sembra che ci sia una porzione sottilissima del mondo che sa quel che sta veramente succedendo, mentre tutti noi, poveracci, viviamo ancora nel passato remoto) erano solo un tentativo di applicare la "critica sociale del gusto" di Pierre Bourdieu a un fenomeno recente come il capitale culturale da "informazioni aggiornate", che è diverso dal capitale culturale da informazioni di expertise che può vantare, poniamo, un medico o un architetto, ancorati a un sapere radicato nel tempo. Pensavo insomma fosse interessante lanciare uno spunto di riflessione sul fatto che il sapere cosiddetto umanistico (tra cui il sapere delle scienze sociali) stia subendo (in maniera esasperata) le forme di pressione all'aggiornamento tipiche del sapere tecno-scientifico della seconda metà del Novecento.
Certo, può dare fastidio avere l'impressione che qualcuno (cioè io) ci abbia fatto tana: eccolo, il solito professorino che pretende di spiegare come funziona il mondo ma poi del mondo non sa una fava. No, non era così. Il primo a essere oggettivato (almeno nelle mie maldestre intenzioni) sono io.
Essere eventualmente "vittima" di una tendenza generale non mi pare un problema: io ascolto la musica che ascolto e faccio i pensieri che faccio, in buona parte, perchè vengo da una determinata classe sociale (in termini di reddito e di istruzione, è il "capitale culturale ed economico ereditato", secondo Bourdieu) e perché mi colloco ora in una determinata fascia di reddito e di istruzione (il "capitale culturale ed economico acquisito"). Per quanto la cosa mi possa irritare, io sono il frutto (sociale) della mia collocazione (sociale). Senza che questo mi sminuisca o mi sottragga alle mie responsabilità. Solo che facendo un lavoro che mi impone di capire alcune dinamiche culturali e sociali, non posso far finta di essere un osservatore calato dallo spazio, e devo sempre tener conto delle mie "determinazioni".
Ma quel che vale per me, mi aspetto valga anche per gli altri: forse siamo in un'epoca di crescente insicurezza dato che molti di noi si trovano a fare o lavori completamente nuovi (per i quali non possono individuare alcuna tradizione di riferimento plausibile) o comunque radicalmente mutati quanto a temi, oggetti e strumenti. Questa impossibilità di adagiarsi sul passato ci spinge (guardate che mi ci metto anch'io, se avete visto il "promo" di un post su quanto era bello fare l'antropologo cento anni fa, quando le cose e le culture cambiavano mooooolto più lentamente) a cercare di dimostrare le nostre competenze non in forma cumulativa ma sempre più selettiva, per cui "io so" non si costruisce più come una torre (dove l'aggiornamento è l'ultimo anello di una superficie tendenzialmente stabile che condividiamo più o meno nello stesso numero di utenti) ma come una piramide (il sapere "vero" si restringe sempre più, le fasi precedenti sono più ampie ma anche rapidamente obsolete, e "io so" si costruisce in opposizione al "voi non sapete" dove nel "voi" di oggi ci sono anche molti "noi" di ieri, ormai tagliati fuori e che non posso più riconoscere come miei pari perché non sono più aggiornati come me).
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.