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domenica 15 ottobre 2017

Antropologia culturale #06

13 10 2017. Con questa lezione, finalmente, abbiamo iniziato a confrontarci con un vero testo di antropologia culturale, non solo con gli appunti contenuti nella dispensa e con obliqui riferimenti ad autori e testi. Cominciamo quindi a leggere antropologia partendo da un testo quasi-sacro, un articolo del 1973 che ha segnato una presa di consapevolezza importante nella storia della disciplina. Si tratta di “Verso una teoria interpretativa di cultura”, scritto da Clifford Geertz come introduzione alla raccolta di saggi Interpretazione di culture, in cui ripubblicava in una nuova cornice teorica alcuni importanti saggi che aveva scritto negli anni Sessanta. Si tratta, insomma, di roba sicuramente datata, una riflessione dei primi anni Settanta (44 anni fa!) dedicata a commentare e inquadrare un lavoro di ricerca che ha più di cinquant’anni.
Ci sono state diverse svolte teoriche dopo le riflessioni elaborate da Clifford Geertz, ma io sono del parere che ben poco di nuovo si possa aggiungere dal punto di vista epistemologico al quadro dell’antropologia interpretativa. Geertz ha avuto dei limiti chiari sul piano dei contenuti (e forse questo ha implicazioni metodologiche) disinteressandosi ad esempio troppo della QUESTIONE DI GENERE (del modo cioè in cui maschi e femmine si costruiscano dentro orizzonti culturali specifici e si configurino come la differenza INTERNA più radicale) ma la sua EPISTEMOLOGIA basata su una concezione semiotica della realtà culturale e la sua METODOLOGIA basata sull’ermeneutica non hanno trovato ancora alternative. Anche chi contesta Geertz, lo critica o oggi pensa di essere “oltre” Geertz non può prescindere dalla CONCEZIONE INTERPRETATIVA di cultura, né sfuggire alla necessità di COMPRENDERE i dati etnografici attraverso un’analisi ermeneutica. Ci sarà modo, spero, di discutere il TESTUALISMO di Geertz, ma lo faremo più avanti, quando sarà più chiaro il suo progetto scientifico.

Per ora diciamo che nel corso della lezione siamo partiti dalla distinzione tra FUNZIONE e SENSO. I costrutti umani (una forbice, un mito, una centrale nucleare, un romanzo) possono essere dotati di una funzione, vale a dire la loro finalità intrinseca può essere X, attivata da una causa Y; oppure possono essere dotati di un senso, vale a dire un quadro di significazione per gli umani che ne fanno uso. Non sempre le due cose si sovrappongono o coesistono, e sono molti i costrutti culturali di cui è complicato individuare il senso ma praticamente impossibile identificare una funzione. Possiamo comprendere bene a cosa serve una tenaglia o un pacchetto di fazzoletti, ma non è chiaro spesso il rapporto tra FORMA e FUNZIONE dato che molti oggetti possono avere la medesima funzione (tenere legati i capelli) eppure avere forme molto diverse. Perché oggetti deputati alla medesima funzione (contenere liquidi per portarli alla bocca) tendono ad avere forme diversissime tra culture diverse e spesso anche nella stessa cultura (calice, bicchiere, coppa, tumbler…)? Ciò dipende sempre dal fatto che “la cultura è appresa” e questo meccanismo produce diversità ipso facto. Ma c’è una ragione più profonda e dipende dal fatto che come esseri umani non riusciamo ad articolare un rapporto con il mondo che non sia anche di tipo segnico, semiotico. Tendiamo cioè a caricare di significato tutti i costrutti naturali e culturali di cui riusciamo a parlare, altrimenti non riusciremmo a relazionarci con essi, e come abbiamo visto il significato di x si incastra in una rete di segni, non è desumibile da x in quanto tale. Insomma, mentre la funzione potremmo ipotizzare che sia incardinata nel costrutto culturale (MA chi seguirà anche il secondo modulo, di Antropologia economica, scoprirà che non è affatto così, e quel che chiameremo il VALORE D’USO di un oggetto, vale a dire la sua FUNZIONE, è una variabile dipendente dalla cultura dove quell’oggetto si presenta), il senso di un oggetto è sempre un prodotto culturale, e lo è di necessità. Possiamo cioè facilmente pensare a oggetti de-funzionalizzati (si potrebbe dire che l’arte è quel processo che de-funzionalizza porzioni del reale esasperandone la dimensione estetica, per cui anche un orinatoio può essere un pezzo d’arte, una volta de-funzionalizzato e ricondotto in un contesto adeguatamente significativo in senso artistico come un museo o una galleria); ma ci è molto più difficile, se non impossibile, pensare a oggetti de-semantizzati (a cui cioè si sia intenzionalmente sottratto il senso) ma ancora funzionali. Gli orologi ammosciati di Dalì potrebbero avvicinarsi a una finzione rappresentazionale di oggetti de-semantizzati ma funzionali, ché io non riesco a pensare ad altro. Come può un costrutto culturale o naturale funzionare (avere una funzione) senza più avere un senso, dato che “funzione” è a sua volta un segno che pretende un’operazione di significazione? Se non tutti i sensi sono funzionali, di certo tutte le funzioni sono significative e dunque possiamo dire che la realtà culturale è fatta di costrutti che necessariamente devono essere caricati di un senso.
Prima che ci si intrecci il cervello, diciamo che l’antropologia culturale cerca di ricostruire i significati dei costrutti (culturali o naturali) come vengono rappresentati (i significati, non i costrutti) dalla specifica cultura che stiamo analizzando. Si tratta insomma di “ricostruire il punto di vista del nativo” (vedremo in un altro saggio, se ce la facciamo) il quadro di senso di chi agisce culturalmente.

Per esemplificare questo passaggio, abbiamo a un certo punto discusso di Pietre, di Fate e di OCHOBO, uno “strano” principio estetico” giapponese che sembra condizionare la vendita di hamburger da quelle parti… La lezione da apprendere da questo caso è che non c’è modo di correlare il concetto o il termine Ochobo a alcunché di referenziale, e dobbiamo rassegnarci al fatto che le culture sono in grado di creare concetti che debbono essere compresi facendo riferimento ad altri concetti, e non al “mondo reale”. C’è una sorta di sapere oggettivo (le cose reali come le pietre), soggettivo (le cose che vivono solo per le credenze soggettive di alcuni) e intersoggettivo (come ochobo, che è un sapere culturale).

Per arrivare a comprendere quel che Geertz vuole dirci a livello profondo (che studiare una cultura vuol dire INTERPRETARLA, non OSSERVARLA) ci conduce dentro un esercizio di meta-riflessione teorica. Ci vuole far comprendere che il nostro lavoro è un lavoro interpretativoermeneutico, e per arrivare a capirlo dovremo seguirlo in un complesso esercizio interpretativo. Se non capiamo il percorso analitico del saggio non potremo comprendere il fine teorico del saggio stesso, dato che i due coincidono (come sempre, nell’antropologia interpretativa metodo e teoria sono difficilmente separabili).
Per arrivare al testo del racconto etnografico geertziano abbiamo distinto sommariamente tra
Livello –emico
e
Livello –etico
Dell’analisi sociale. Indipendentemente dal fatto che dovremmo accettare il fatto che per l’analisi culturale il livello “etic” altro non è che l’emic di qualcun altro, quel che conta qui è che l’analisi –etica impiega categorie analitiche dell’osservatore, mentre l’analisi –emica impiega le categorie analitiche dell’attore sociale osservato. Quel che mi interessa nell’analisi culturale è riuscire a ricostruire le categorie analitiche dell’attore sociale, vedere le cose “dal suo punto di vista” (un cane come lo vediamo a Roma o come lo vedono a Seul, come ci siamo detti a lezione, un po’ scherzosamente).
Questa contrapposizione si può anche rispecchiare in un’altra importantissima opposizione, su cui ci siamo soffermati a lungo, vale a dire quella tra

THIN DESCRIPTION (descrizione sottile)
e
THICK DESCRIPTION (descrizione densa)

La prima (abbiamo fatto il doppio esempio dell’etnografo marziano che deve spiegare cosa sia un battesimo e poi l’esempio veramente clamoroso dell’Occhiolino, vero pezzo di battaglia delle mie lezioni di antropologia culturale) è una DESCRIZIONE PRIVA DEL SIGNIFICATO CHE ALL’AZIONE ATTRIBUISCONO GLI ATTORI SOCIALI, una vera descrizione “senza senso”; mentre la seconda è una descrizione CHE INCLUDE IL SENSO DELL’AZIONE ESPRESSO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ATTORE SOCIALE (è una descrizione “emic”, per così dire).

Q1. Per concludere questa lezione, selezionate una qualunque azione sociale e datene una doppia descrizione: una THIN priva di senso culturale, e una THICK in cui invece il significato culturale sia incluso.