Tanto per ribadire il concetto dell’ultimo post (grazie a Daniele Salvini per l’intelligenza e la leggerezza con cui ha accolto i miei rilievi), vorrei tornare con altri elementi attorno alla questione del minimalismo (non solo in rete), che fa preferire ad alcuni le vecchie interfacce di testo alle moderne GUI.
Luigi Serafini in un’intervista che compare sul numero odierno di Nòva24 articola una posizione interessantissima, che aggiunge (dal mio punto di vista) un’ulteriore sfaccettatura alla questione del rapporto tra utenti e rete come pratica di posizionamento sociale in senso bourdiano (vedi altri post taggati social distinction)
Luigi Serafini contrappone, alla fine dell’allestimento della sua Luna Pac, al Padiglione d’Arte Contemporanea, due concezioni estetiche.
Da un lato c’è la visione della mostra (che ne include una più vasta, dell’arte in quanto tale) come white box, scatola tendenzialmente vuota che l’artista deve limitarsi a riempire quanto meno possibile, secondo il principio del less is more.
All’opposto, l’arte sarebbe la versione socializzata dell’horror vacui e tenderebbe a occupare tutto lo spazio disponibile. Non solo inteso come spazio disponibile per quella mostra o per quell’opera, ma proprio TUTTO lo spazio e basta, in una pulsione espansionista che è in realtà semiogenetica: occupando lo spazio con la sua concezione del mondo, l’arte dà senso al mondo.
Mentre la prima versione sarebbe un retaggio del protestantesimo, che toglie dalle chiese gli stimoli percettivi visibili per condurre il fedele alla riflessione su di sé, lasciandogli come unico canale di ingresso sensorio l’udito della musica sacra, arte eterea quante altre mai, la visione espansionista dell’arte visiva, che pretende di occupare lo spazio colonizzandolo di senso e che porta il soggetto fuori di sé, è un derivato della cultura barocca (e dello spirito Controriformista che la abita, ovviamente). Impossibile, per un italiano, non associare quindi il less is more all’intimità del singolo borghese (weberianamente intento a scavarsi un cunicolo nel monte infinito della produttività) e i cascami barocchi alla caciarona estetica “popolare”, un po’ zingaresca e un po’ puttaneggiante.
Impossibile, soprattutto, non associare l’estetica del less is more al raffinato gusto delle classi superiori (che usano la stringa di comando, non il mouse, vanno ai concerti e se proprio devono godere visivamente si fanno una “vernice”) e l’estetica barocca alle classi televisivamente strumentali e subalterne, protese tra siti porno, YouTube, Un posto al sole e L’isola dei famosi.
Non è improbabile, infine, che molta della critica televisiva (ma anche tanta della critica del “visuale” in genere) sia tuttora scritta sulla base dell’estetica del less is more (mentre il prodotto e la sua fruizione sono di impostazione barocca, ovviamente) segnando quel paradossale scollamento tra critici e pubblico che tutti ormai accogliamo con rassegnazione.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
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giovedì 6 settembre 2007
Less is more?
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