Dicevamo ieri che il pollice è stato il primo strumento dell’uomo. L’indice allora è la sua prima parola. Se con il pollice le cose si prendono e si trasformano, con l’indice si dicono prima ancora di avere in bocca suoni articolati. Lo stesso bimbo che ieri abbiamo visto succhiarsi il pollice, ora lo vediamo mentre indica di volta in volta stupefatto, impaurito o divertito le cose con quella minuscola freccia che gli spunta dal pugno chiuso. L’indice è allora la voglia di uscire da noi stessi, lo sforzo per forare il sacco amniotico che ci contiene nella nostra solitudine, per andare verso il mondo delle cose. Sì, perché “non si indicano mai le persone”, ci insegnavano le zie di buona famiglia, ma le cose sì che si indicano.
L’indice impone da subito un triangolo sociale: io, l’oggetto indicato, e la persona cui lo segnalo. Io che vedo questa cosa che tu, distratto, non cogli, te ne faccio dono e l’indice è il pacco regalo, il contenitore del mio gesto di attenzione per te. Guarda, non solo ho visto una cosa, non solo quella cosa mi attrae, ma mentre la guardo penso a te che mi sei vicino e non te ne sei accorto, e allora te la segnalo, te la indico, te la regalo. Perché voglio che tu condivida quello che sento. Certo, a volte ti posso segnalare una cosa brutta o
pericolosa (attento, non pestarla! Fa’ attenzione al gradino!) ma la mia
intenzione è sempre la stessa: mi prendo cura di te, le cose intorno in realtà mi ricordano di te, non mi isolano. Pensate a un genitore al parco con il bimbo in passeggino: buona parte della comunicazione sarà di questo tipo, indessicale dicono i linguisti, per dire una comunicazione che “indica” i suoi oggetti, e quindi dipende tutta dal contesto in cui avviene: “questo”, “quello”, “qui”, “lì” sono tutti deittici che non significano nulla se non c’è il dito indice ad
accompagnarli. L’indice è un dito premuroso, allora, si prende cura delle persone attorno a noi.
Ma se contravveniamo alle norme di buona educazione delle zie, e lo rivolgiamo contro le persone, allora l’indice diventa tutt’altro. È la messa all’indice, è il ludibrio, e la freccia segnalatrice diventa quasi una spada con cui vorremmo trapassare l’individuo che puntiamo. Penso a certi discorsi degli uomini infervorati che sanno perfettamente quali siano i loro nemici. Anche se quasi mai quei nemici esistono nella realtà, e anzi sono solo fantasmi e incubi delle loro infanzie dolorose in cui venivano forse puniti per il vizio di ficcarsi l’indice nel naso, quegli uomini pieni di zelo segnalano costantemente i loro mortali avversari sguainando l’indice e sciabolando nell’aria come spadaccini ubriachi. Penso a come usiamo noi mentalmente l’indice in questo modo, ogni volta che qualcuno non si adegua alle nostre aspettative: “Tu!, Come osi?!” e non finiamo neppure la frase perché la chiusa sarebbe “come osi ESSERE così?” Perché l’indice sa essere prepotente, a volte sogna di essere una bacchetta magica, o almeno la bacchetta di un direttore d’orchestra, per trasformare la realtà a nostro piacimento o almeno metterla in riga, imponendole il nostro ritmo.
L’indice dunque, è sempre sospeso tra dono generoso e rigido moralismo, tra offerta all’altro del nostro sguardo e chiusura all’altro di cui non accettiamo alcuna differenza, alcuna deviazione dalla norma che abbiamo tabilito.
Per chi volesse continuare a ragionare sul dono e le sue implicazioni antropologiche consiglio la lettura dei testi che parlano del Saggio sul dono di Marcel Mauss, raccolti da Matteo Aria e Fabio Dei nel volume Culture del dono, pubblicato da Meltemi. Se volete invece seguire i percorsi amari dell’isolamento e dell’esclusione potete leggere Lo spazio del razzismo di Michel Wieviorka, edito da Il Saggiatore.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.