Il mio post sul lutto perinatale ha suscitato molte reazioni, come potete vedere dai lunghi commenti. Mi dispiace sinceramente di aver ferito la sensibilità di persone che già hanno dovuto provare il dolore di quella che immagino sia la perdita assolutamente più irreparabile, vale a dire quella di un figlio, e a mia unica discolpa posso dire di non aver avuto l'intenzione di ferire nessuno veramente.
Con il mio post non intendevo sminuire quel dolore (che è tale nella misura in cui viene provato, non c'è nulla da sminuire o esagerare nel dolore degli altri) ma mi chiedevo come mai solo da qualche anno, "da noi" si sentisse la necessità di portarlo alla luce della discussione e dell'elaborazione pubblica. Certamente, perdite perinatali sono avvenute sempre (e con una frequenza molto molto maggiore più si va indietro nel tempo) ma non ho memoria di un'accettazione sociale pubblica di questo dolore: era solo questa considerazione che aveva mosso il mio post.
Durante le prime lezioni di antropologia, quando si tratta di parlare del ruolo che certe forme della comunicazione e della tecnologia hanno nel produrre relazioni sociali, faccio sempre un esempio.
Mio padre e mia madre hanno avuto sette figli, quattro femmine e tre maschi, ma hanno saputo il nostro sesso (e qualunque altra caratteristica fisiologica su di noi) solo al momento della nascita. Io, invece, ricordo pefettamente il momento in cui ho visto la faccia di Rebecca (la mia prima figlia, che ha otto anni) e della seconda figlia (Amanda, che ha un anno e mezzo). Le ho viste attorno al quarto mese di gravidanza, le ho viste dentro l'utero, e il ginecologo ci ha stampato una "foto" in cui i lineamenti di entrambe erano perfettamente riconoscibili.
Per Amanda (che è nata da una mamma diversa da quella di Rebecca) siamo andati in un centro diagnostico romano molto attrezzato e molto "lussuoso", e ricordo che il ginecologo era sorpreso che ad accompagnare Valeria incinta ci fossimo solo io e Rebecca. Di solito, ci ha spiegato, per occasioni come questa molti radunano il parentato allargato, tant'è che la sala dell'ecografia è attrezzata con un vero salottino appartato con un'ampio schermo alla parete dove viene proiettata l'immagine dell'ecografia che viene ripresa nella stanza a fianco, per dar modo a nonni e zii di assistere alla prima epifania del/la bambino/a.
Ai miei studenti dico che mio padre e mia padre potevano solo immaginarci, e lo facevano molto, molto vagamente a sentire i loro ricordi. Soprattutto mio padre, non potendo avere alcuna esperienza fisica della paternità fino al momento in cui ci ha visti, sono certo che ci ha amati fin da subito, fin da quando mia madre gli comunicava di essere incinta (non ho alcun dubbio su questo, e tutta la vita di mio papà sta a dimostrarlo), ma non ha potuto stabilire alcuna relazione emotiva con noi come veri esseri umani concreti, non semplici idee della sua mente.
Io, invece, ho potuto ricordarmi della faccia delle mie figlie mentre ancora erano nella pancia delle loro mamme: sapevo che erano femmine, non perché "me lo sentissi" (com'era una volta) ma perché me l'avevano detto. Avevo visto il labbro sporgente di Rebecca e il naso all'insù di Amanda e già facevo il gioco delle somiglianze molto prima che venissero partorite.
Per non parlare dell'analisi del sangue per le mie compagne (sono microcitemico, portatore sano di anemia mediterranea) dell'amniocentesi, dell'ecografia morfologica, della translucenza nucale, tutte analisi ed esami che avevano escluso una serie di gravi malattie.
Non intendo misconoscere il dolore dei genitori che hanno subito un lutto perinatale, e non credevo di aver detto nulla che potesse lasciarlo in alcun modo credere. Ma riconoscere che un dolore ha assunto una forma socialmente accettata non significa ammettere che sia universale nel tempo e nello spazio, né considerarlo come l'unica forma ragionevole di reazione a una perdita perinatale, quasi che chi continuasse a elaborarlo (anche con la rimozione) nel privato altro non sarebbe che uno scellerato o un represso. Le persone che conosco che hanno subito questa perdita sono persone sensibili, non certo mostri, ma non racconterebbero mai questo loro dolore in pubblico, a estranei, su un blog. Il loro modo di affrontare (superare/rimuovere) il dolore forse appartiene a un'altra epoca, forse è addirittura fuori moda, ma io credo che sia altrettanto legittimo di chi invece ritiene necessario esporlo pubblicamente. Ognuno ha diritto di affrontare il proprio dolore come meglio crede, ma chi lo rende pubblico avrà in più l'onere di vedersi interrogato sulla forma di quella sofferenza, senza che questo costituisca automaticamente un insulto.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.