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domenica 22 luglio 2007

Albania 5: Viaggio in Italia

(giugno 1995) Mentre andavo in Albania pensavo: non so neppure una parola di albanese, neppure un saluto, quelle due o tre parole che uno sa comunque, anche in lingue di cui non sa assolutamente altro. So dire almeno una parola in giapponese, in russo, in armeno, in arabo, in turco, in serbo-croato: possibile che non ci sia una parola di albanese da qualche parte del mio cervello, neppure per caso? No, non c’era. Non ricordavo neppure come di dice Albania in albanese (ancora adesso, so pronunciare la parola, ma non so come si scrive) e l’unica cosa che potevo dire era che l’albanese è il diretto discendente dell’illirico, uno di quei nomi di misteriose popolazioni indoeuropee che si imparano alle prime lezioni di glottologia o linguistica storica. Non credo di essere un caso speciale: quanti Italiani sanno qualcosa di più di questa lingua?
Appena ho passato il confine mi sono reso conto di trovarmi in una situazione di perfetta simmetria inversa. Praticamente non c’è Albanese che non sappia almeno qualche frase in italiano per salutare e molti capiscono tutto quel che gli si dice. Altri ancora parlano con una spigliatezza che non ha mai smesso di stupirmi, anche quando ormai era un’abitudine. La passione per l’Italia è vera e non è solo uno stupido “immaginarsi”. Nelle case che ho potuto visitare i televisori accesi (presenti ovunque, anche nelle famiglie più povere) erano sintonizzati sui canali italiani (Rai per tutti, ma è un must per i più abbienti l’antenna satellitare per vedere le reti di Berlusconi, che sono di gran lunga più apprezzate dei canali pubblici, considerati troppo “noiosi”), e se per caso invece si trattava di emissioni della TV albanese, il più delle volte vengono trasmessi film italiani con sottotitoli. Alla radio la musica italiana è dominante (Toto Cutugno, Albano e Romina, Gianni Morandi) e il più famoso presentatore televisivo locale ha come suo modello dichiarato Pippo Baudo. C’è un’Italia sottile come un filo d’onda elettromagnetica che si è già infilato dappertutto in questo paese. Ok, si potrà dire, ma questo lo sapevamo già, forse è l’unica notizia che ci è arrivata con sufficienti dettagli, se non altro è una notizia che fa “folklore”, o che almeno l’ha fatto. Però c’è dell’altro. Non so come dire, è l’Italia che quel filo ha tessuto dentro le persone e che molte volte si è intrecciato con l’Italia della cultura, dell’arte, della storia, dell’“Una volta”. Ylber ha due sorelle che vivono a Pogradec, una cittadina relativamente ricca sul lago di Ochrid, a dieci minuti d’auto dal confine con la Macedonia ex-yugoslava. La sorella maggiore ha una figlia, Matilda, di vent’anni, al secondo anno di università. Studia italiano e lo parla in maniera perfetta (tra l’altro, parla perfettamente anche l’inglese e Gilles mi ha detto che il suo francese è più che buono). Per lei l’Italia è allo stesso tempo Venezia e Firenze (le due città che ama di più e che sogna di visitare) e i telefilm di Italia1. Ma mentre Italia1 è sempre presente nella sua vita (praticamente vivono col televisore acceso e sintonizzato su quel canale) Venezia e Firenze sono idee, righe di parole e illustrazioni sui libri, sono poeti e pittori e date. La presenza dell’immagine televisiva e la conoscenza storica del nostro paese producono in Matilda una precoce nostalgia per il nostro paese, di cui parla a volte come se ne fosse stata strappata, anche se non ci ha mai messo piede. Alcuni amici greci, al mio ritorno, mi facevano notare con un certo fastidio questa sottomissione culturale come un segno di debolezza, di poca stima di sé. Pensavo: è paragonabile questo amore per l’Italia a quello che gli “Americani” hanno suscitato nel nostro paese per un paio di decenni dopo la fine della guerra? Mi rispondevo abbastanza facilmente: no. Non c’è paragone. Il uattsamericannao di Alberto Sordi parlava di un pianeta sconosciuto, di un paese dei balocchi e basta. In Albania l’Italia è di certo anche questo ma c’è una conoscenza più profonda, più “diretta”, non fosse altro per la competenza linguistica che hanno del nostro idioma. Remigio, sedici anni, fratello di Matilda, ha imparato l’italiano dalla televisione senza mai studiarlo, e posso assicurare che è un buon italiano. Grazie alla televisione lui sa una cosa degli Italiani che noi non sapevamo degli Americani: sa il disprezzo e la paura che nel nostro paese c’è per loro, per cui quando gli ho detto se verrà a visitare l’Italia mi ha detto: Mi piacerebbe, ma un “turista albanese” non sarebbe accettato, voi credete che gli Albanesi siano tutti così e ha messo le mani ad artiglio vicino alla faccia, facendo un ghigno che voleva essere sinistro. Poi si è messo a ridere, e ha continuato: voi conoscete solo questa specie di Albanesi, ma non siamo tutti così, così come voi pensate.
Remigio e Matilda hanno due cugini, figli della sorella minore di Ylber. Ho conosciuto il più piccolo: si chiama Alban, ha nove anni, un po’ di denti storti e due occhi veloci e scuri scuri. Studia l’italiano da un anno e lo parla già ottimamente. Se anche gli manca un vocabolo, non gli mancano certo i mezzi per azzeccare perifrasi adatte e mi ha raccontato quel che fa a scuola e tutto sulle lezioni di karatè della palestra che frequenta da qualche mese. Mi ha assicurato che la sorella, più grande di un tre anni, parla l’italiano quanto lui, ma è troppo timida per conversare con gli stranieri. Mentre chiacchieravo con Alban mi tornavano in mente le parole del vecchio Dhori sulla necessità si smettere di essere Albanesi, ai discorsi con Ylber, a quel che avevo visto fino ad allora. Per un po’ m’è tornata la voglia di trovare un senso, di mettere ordine. Mannaggia: di spiegare. Poi mi sono calmato, mentre Alban mi faceva vedere l’ultima “mossa” di karatè che aveva imparato. In palestra? No, alla televisione, guardando un film di Bruce Lee su Italia1.