Sto leggendo un bel libro, Sarah F. Green, Notes from the Balkans: Locating Marginality and Ambiguity on the Greek-Albanian Border, Princeton, N.J, Princeton University Press, 2005 che racconta il confine epirota tra Grecia e Albania. È un libro densissimo, che da un canto offre un quadro etnografico finalmente aggiornato alla fine degli anni Novanta di una regione poco battuta dagli scienziati sociali da troppo tempo, e dall’altro mette un po’ in crisi una certa retorica ricorrente sulle bellezze del margine, su come vivere ai margini costituisca uno spazio di “resistenza” e controidentità. Ma qui mi limito a citare un pezzo in cui la concezione di modernità degli abitanti sul versante greco è contrapposta a quella degli abitanti del versante albanese (molti dei quali, ricordo, sono membri della minoranza greca). È un bel pezzo che mi serve per criticare la convinzione (diffusa soprattutto dai giornali, vedi qui un mio saggio che affronta marginalmente questo tema) dell’Albania come un paese sostanzialmente rurale e, soprattutto congelato dalla dittatura comunista:
Man mano che le persone iniziavano a divenire più familiari le une alle altre, quelle sul versante greco divennero consapevoli del fatto che un’evidente “modernizzazione” aveva avuto luogo anche in Albania. Hoxha, essendo un convinto sostenitore del socialismo scientifico e industriale, intendeva trasformare l’Albania “dall’essere un arretrato paese rurale a un’economia agricola e industriale” (Stefanaq Pollo e Arben Puto, The History of Albania from Its Origins to the Present Days, London, Routledge & Kegan Paul, 1981, p. 26). Biberaj nota che la politica di industralizzazione di Hoxha aveva “condotto alla creazione di un’industria ramificata relativamente moderna, che nel 1985 era in grado di produrre più del 40 per cento del reddito nazionale complessivo” (Elez Biberaj, Albania: A Socialist Maverick, Bouderl, Co, Westview Press, 1990, p. 68). Le riforme agricole, a parte il programma scaglionato di collettivizzazione e l’acquisizione da parte statale di tutta la terra agricola, erano state di comparabile dimensione: “Programmi grandiosi di recupero delle terre, miglioramento dei terreni e irrigazione; introduzione di nuove tecniche di coltivazione e meccanizzazione; e uso in crescita dei fertilizzanti” (Biberaj 1990, p. 69). Anche l’istruzione venne riformata: dal 1946, l’istruzione doveva essere laica, libera, e fornita dallo stato, con sette anni di educazione elementare obbligatori per tutti; si approntarono scuole professionali e commerciali e si stabilì un programma per sconfiggere l’analfabetismo […]
In breve, anche se non vi era dubbio che l’Albania era più povera della Grecia in termini economici quando il confine venne riaperto, divenne sempre più evidente che quel che era accaduto sui due lati del confine erano forme differenti dello stesso processo: non era successo che un lato si fosse modernizzato mentre l’altro era rimasto com’era quando il confine era stato chiudo chiuso
Mi resta da aggiungere che con questo non intendo certo schierarmi dalla parte di quegli insipienti che ancora ai primi anni Ottanta partivano dall’Italia per andare a scoprire le meraviglie del socialismo realizzato albanese, o che nelle università dove lavoravano mettevano nei desiderata delle biblioteche l’opera omnia di quel divino pensatore che fu Enver Hoxha. Ho visto l’Albania troppo da vicino per credere al periodo della dittatura comunista come a null’altro che a un vero incubo collettivo. Ma mi piace ricordare ai primordialisti che si affannano a cercare nella millenaria eredità “balcanica” le ragioni, ad esempio, del tasso di criminalità tra gli immigrati albanesi in Italia, che eventuali devianze sociali, invece che retaggi atavici, sono molto più probabilmente la conseguenza di un processo di modernizzazione forzata, che ha prodotto fratture sociali e un senso profondo di anomia.