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giovedì 22 maggio 2008

Diritto di cittadinanza


Non sono pregiudizialmente ostile al governo in carica. Se non avessimo “questa” destra, e se da qualche parte esistesse una destra sinceramente liberale, come quando nacque, credo che alla fine sarei di destra. Sono troppo individualista, e tutto quello che mi suona omogeneizzazione, livellamento, eguaglianza scatena subito il mio sospetto. Per questo amo Bersani più di Tremonti, Giavazzi infinitamente più di Alemanno: perché mi trovo d’accordo con la sinistra liberale in quanto liberale più che in quanto di sinistra.
Faccio questa premessa sperando che chi mi legge e questo governo l’ha votato non consideri le mie parole dettate dal pregiudizio politico.
Dicevo nel post precedente che con gli studenti di Napoli stiamo leggendo Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, di Taylor e Habermas, sperando di fornire qualche strumento di analisi e riflessione sullo stato attuale della società italiana e dei suoi rapporti con “lo straniero”.
La presentazione, ieri, di un disegno di legge che prevede il reato di clandestinità mi offre l’opportunità di far vedere come uno studio “teorico” possa diventare uno strumento di posizionamento politico.
Habermas contesta a Taylor, soprattutto, la prospettiva (che Taylor del resto espone proprio per contestarla) del “liberalismo procedurale”, cioè del formalismo del liberalismo che, senza assumere alcuna posizione etica su quel che andrebbe fatto per perseguire una “vita buona”, si deve limitare a porre le regole sui rapporti formali tra cittadini, in modo che poi ognuno possa, individualmente, perseguire il suo ideale di “vita buona”. Secondo Taylor, insomma, il liberalismo classico è costretto a sottrarsi a qualunque giudizio etico, ed è proprio questo formalismo che gli impedisce di comprendere le finalità delle minoranze e delle comunità culturali, di cui finisce per ignorare i diritti (da cui il comunitarismo per cui Taylor è diventato famoso).
Habermas, in sostanza, dice che questa presentazione del liberalismo avanzata da Taylor per argomentare a favore del comunitarismo dei diritti collettivi è falsa e fuorviante, dato che ogni sistema giuridico ha una sua “pregnanza etica” che gli deriva dal fatto di essere l’espressione storica (culturalmente determinata ed eticamente orientata, quindi) della comunità (nazionale) che l’ha espresso e formulato.
Ogni corpus legislativo, quindi, cerca non solo di incarnare una serie di principi morali nella sua costituzione (individuando quel che è “buono per tutti”, universalmente) ma è storicamente costretto (anche quando non lo vorrebbe, eventualmente) a rispecchiare nel suo sistema di leggi la storia etica (quel che è buon per “noi”, che quelle leggi le dobbiamo rispettare) e culturale di quel “popolo”. Per l’Italia, l’abolizione della legge sul delitto d’onore, l’introduzione della legge sul divorzio e infiniti altri casi ci dimostrano che ogni sistema giuridico è imbevuto della storia della nazione che se l’è dato, e quindi muta nel corso del tempo anche per corrispondere ai principi etici che quella nazione elabora con il passare del tempo.
Questo fondamento etico dello stato democratico non va ovviamente confuso con lo stato etico totalitario perché completamente diverso è il cittadino dei due ordinamenti. Mentre infatti nei sistemi totalitari il cittadino deve obbedire a leggi eteroprodotte paternalisticamente da una casta “per il suo bene”, ciò che infatti caratterizza lo stato democratico liberale è il principio giusrazionalista del contratto: i cittadini stanno assieme per un patto che hanno tutti sottoscritto, e obbediscono alle leggi perché sono loro stessi (direttamente o più spesso attraverso l’istituto della rappresentanza) ad essersele date. Il soggetto dello stato democratico è libero e autonomo (in senso kantiano) perché obbedisce a leggi che egli stesso si è dato, quindi la sua soggettività di soggetto privato (che ha dei diritti e dei doveri) nasce necessariamente assieme alla sua soggettività di soggetto pubblico, che partecipa alla vita civile (la sfera pubblica) e politica (legislativa).
In sostanza, dice Habermas, una società è democratica se ha una sfera pubblica in cui è possibile per lei dibattere sulla sua natura, autocomprendersi per poter far rispecchiare questa autocomprensione nel diritto, pena la perdita di autonomia e libertà dei soggetti (che altrimenti si troverebbero ad obbedire a leggi che non hanno scelto). Se non c’è una sfera pubblica in cui la società si rispecchia, è inevitabile che il passare del tempo produrrà uno scollamento tra autorappresentazione e sistema giuridico, e quindi i cittadini cesserebbero di essere tali perché si troverebbero a dover sottostare a leggi che non hanno scelto e sottoscritto come espressione anche etica della loro stessa comunità.
Come si vede da questa impostazione rigorosamente liberale, il sistema giuridico di un paese che si voglia democratico deve parlare dell’autorappresentazione e autocomprensione di quel paese, ma non può parlare dell’Altro perché se si legifera sull’Altro si sta producendo un oggetto sociale, che deve obbedire a una legge senza aver potuto partecipare alla sua stesura. Anche quando sanziona i reati, la legge deve sempre e solo parlare di “noi” membri della comunità: noi diciamo che chi tra noi fa questo viene punito e può, al limite essere espulso dal noi, ma perché quella legge sia legge democratica dobbiamo tutti convenire che vi sia totale coincidenza tra quanti quella legge l’hanno elaborata e quanti a quella legge devono obbedire. Se si esula da questo principio (che cioè la legge è sempre “eticamente pregnante” nel senso che riguarda “noi”, non gli Altri o “tutti”) si decade ipso facto dallo stato liberale democratico. Se una legge riguarda soggetti esterni al corpus legiferante non è una legge che possa appartenere a uno stato liberale democratico.
La proposta di legge sul reato di clandestinità è precisamente una legge di questo tipo: si impone a un oggetto politico (il clandestino) che non ha alcuna possibilità di partecipare alla sua stesura, e quindi è radicalmente non democratica e non liberale. Non mi sorprende che questa proposta di legge sia stata voluta dalla Lega Nord, che per totale mancanza di cultura politica e giuridica incarna gli spiriti più belluini (e quindi decisamente pre-giusrazionalisti) del nostro paese. Il timore, come mi faceva notare uno studente ieri a lezione, è che lo “spirito della Lega”, il suo bieco localismo etnico, si stia diffondendo in tutto il paese, come dimostrano gli incendi dei campi rom di Napoli della settimana scorsa.
Se si vuole proporre un reato di clandestinità e insieme rimanere dentro il consesso degli stati democratici, è necessario offrire al contempo la cittadinanza a chiunque sia residente in Italia da un certo periodo (diciamo tre anni?), avendo lavorato (non importa se in regola o al nero) e senza aver commesso reati penalmente rilevanti. Questa proposta, che suona ovviamente “scandalosa” in questo periodo, è in realtà una normalissima prospettiva liberale, che dovrebbe trovare d’accordo tutti i buoni borghesi che dentro lo stato liberale sono cresciuti e hanno potuto prosperare. Superare “l’emergenza clandestini” sarà possibile solo quando smetteranno di essere tali. Possiamo e dobbiamo regolare i flussi, ma dobbiamo garantire i diritti di cittadinanza a quanti vengono qui: solo se si sentiranno parte della società civile potranno rispecchiarvisi, senza dover scappare o nascondersi, costretti a cercare altre forme di espressione della propria identità.

MG è una persona della quale devo parlare in forma anonima, per salvaguardare il suo fragilissimo benessere: vive in Italia da sette anni, ma non essendo cittadino UE si è potuta regolarizzare solo con la Bossi-Fini, pur avendo sempre lavorato dieci ore al giorno. Ha il visto in scadenza a giugno 2008, e per poterlo rinnovare ha dovuto accettare un contratto di lavoro capestro, dato che se avesse continuato a lavorare al nero non vedrebbe il suo permesso di soggiorno rinnovato. Ora lavora dieci ore al giorno ma il contratto parla di cinque, per cui i contributi versati sono part-time.
Non può dire nulla perché ha paura che il datore di lavoro rescinda il contratto e quindi si troverebbe a giugno senza occupazione e automaticamente senza rinnovo del permesso. MG abbassa la testa, continua a lavorare dieci ore al giorno (anche il sabato e la domenica, dato che i mille euro al mese concordati per il suo lavoro finto part-time non le bastano e deve fare il “doppio lavoro” nei week end, dato che paga un affitto di 600 euro, per una casa di 45 metri quadri in periferia, e la sua è una situazione sicuramente vantaggiosa rispetto a quella di molti altri lavoratori non UE a Roma).
Il fatto che io debba scrivere di MG in forma totalmente anonima è un segnale gravissimo della sua condizione: dal punto di vista dei diritti, dal punto di vista della sua soggettività di individuo, MG non esiste, non deve esistere. E ora una legge le parlerà ancora direttamente, e le dirà quel che lei è o non è. Senza che lei possa partecipare, senza che lei possa replicare. Non possiamo accettare che questo modo proceda oltre, se insistiamo a definirci liberali e democratici.