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venerdì 22 ottobre 2010

Musulmani europei (non solo "d'Europa")

Il professor Angelo Panebianco è ordiario di Sistemi internazionali comparati presso la Facoltà di Scienze Politiche di Bologna, e quindi non è un semplice opinionista del Corriere della Sera (con tutto il rispetto per gli opinionisti) ma uno studioso professionista.
Da qualche tempo sta sviluppando sulle colonne del CdS una versione all’europea dell’Huntingtonismo che trovo sinceramente indigesta. Ognuno, ci mancherebbe, ha le opinioni che crede, e non sarà un oscuro ricercatore di antropologia a contestare il nucleo della posizione di un famosissimo ordinario di scienze politiche, ma non ce la faccio a non fare alcuni rilievi specifici al fondo che ha pubblicato ieri.
Lo spunto per questo nuovo articolo è la riflessione pubblica di Angela Merkel sul “fallimento del multiculturalismo” in Germania. L’argomentazione di Panebianco è che l’assimiliazionismo (modello francese) è difficilissimo ma il multiculturalismo (modello anglosassone) è addirittura impraticabile. Le ragioni per cui il multiculturalismo (inteso come preservazione delle diversità culturali e autoregolazione della tutela delle diverse identità) non sarebbe praticabile mi sono però oscure. Dice il fondo:


Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico.

Questa affermazione non viene argomentata in alcun modo, viene lasciata così, senza alcuna spiegazione. I paesi che per primi e in modo più coerente hanno applicato i principi del multiculturalismo sono stati il Canada e l’Australia. Se sono queste le “specialissime eccezioni” cui fa implicito riferimento non mi è chiaro cosa ci sia di così speciale in questi paesi, se non il fatto che il multiculturalismo è stato assunto esplicitamente come una parte centrale del loro programma costituzionale. In buona parte, anche gli Stati Uniti sono un paese multiculturale, come lo sono la Gran Bretagna, l’Olanda e, ormai è chiaro, la Germania stessa. Per quanto il modello sia perfettibile (immagino che il professor Panebianco abbia consuetudine con questo aggettivo quando insegna la sua disciplina, che tratta proprio di sistemi politici) mi sento di poter sostenere che in questi paesi c’è, contemporaneamente, un tentativo di far convivere diversità culturale e democrazia, con risultati che non direi da buttar via.
Certo, ci sono momenti e aree di tensione, ma quel che è carente è uno spazio pubblico di dibattito e comunicazione tra diverse diversità, se così posso dire, più che la democrazia in quanto tale. L’emergere di contrapposte sacche di resistenza alla comunicazione interculturale (i culturalisti, tradizionalisti e fondamentalisti di ogni quartiere) non deve far dimenticare che il movimento epocale di popolazioni che si è messo in moto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale verso l’Europa non ha prodotto le catastrofi sociali che si sarebbero potute logicamente temere. C’è un sacco di lavoro da fare, certo, ma in larga misura l’integrazione (sia essa nella forma dell’assimilazione volontaria o nel recupero rispettoso della propria specificità culturale) è avvenuta e sta avvenendo in forme pacifiche. A meno che non si voglia accusare l’immigrazione di essere responsabile di ogni sperequazione sociale (come se “prima degli immigrati” non esistessero le differenze di classe, l’emarginazione sociale e l’ingiustizia), dobbiamo riconoscere che l’arrivo di diverse decine di milioni di stranieri si è realizzato in forme tali da non squassare il “nostro” stile e i “nostri” stardard di vita, anzi. Anzi, in massima parte possiamo dire che il mantenimento di alti standard di benessere sociale ed economico è stato possibile proprio grazie all’apporto della forza lavoro straniera.
Di che stiamo parlando, allora? Di cosa parla il fondo del professor Panebianco quando discetta sull’impossibilità di praticare il multiculturalismo se non “in modo non democratico”? Tutta questa fumosa premessa sul fatto (non spiegato) che è inutile cercare di applicare il multiculturalismo serve come argomentazione a supporto di quel che mi pare il vero “argomento” del fondo, proposto nella seconda parte, e che provo a sintetizzare: se il multiculturalismo non si può praticare, bisogna “tornare” al buon vecchio assimilazionismo. Ma per poterli assimilare, gli stranieri devono essere più vicini a noi, e “l’islam” è troppo lontano. Punto.
Questa conclusione è raggiunta con una duplice mossa. Prima ci si concentra sul presunto dato di fatto che vi è una incompatibilità oggettiva tra integrazione multiculturale e islam:


C’è però il caso dell’islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si contata il fallimento del multiculturalismo.

Ora, basta un poco di onestà intellettuale (o una scorsa ai giornali) per dover ammettere che questa affermazione è semplicemente falsa, almeno per quel che riguarda l’Italia (ma sono convinto che una comparazione attenta porterebbe alle medesime conclusioni in tutta Europa). La crisi di convivenza civile, l’esplodere dei conflitti che potrebbero essere il sintomo del “fallimento del multiculturalismo” sono sempre associati al colore della pelle (razzismo) e alla condizione socio-economica (classismo), e quasi mai alla religione. Una delle prime fobie anti-stranieri in Italia ha avuto come oggetto gli albanesi (febbraio-marzo 1997) e si è conclusa con Irene Pivetti che urlava isterica “buttateli a mare”, perorazione prontamente seguita il giorno dopo grazie all’affondamento della Kater-I-Rades speronata da una corvetta della marina militare italiana provocando almeno 70 morti,  e non mi risulta che a nessuno sia mai importato se quei morti fossero cristiani o musulmani.
Il delirio di Rosarno di inizio 2010, per arrivare vicino a noi, riguardava le angherie anti-multiculturali subite da un gruppo di negri, e di nuovo nessuno si è preoccupato di chieder loro se erano cristiani (allora prego, assimilatevi, non vedevamo l’ora!) o musulmani (vade retro, Satana!), e tutti indifferentemente sono stati sfruttati e impallinati per il divertimento di qualche capetto locale. Devo aggiungere le varie ondate fobiche contro rom e romeni?
Il fatto che Nicolae Romulus Mailat, lo stupratore e assassino romeno di Giovanna Reggiani fosse (lo deduco dal nome) un cristiano ortodosso ha reso più assimilazionista la rabbia anti-romena che si scatenò in quei giorni? Qualcuno ha idea di che religione praticava Thong Hong Sheng il ragazzo cinese picchiato alla fermata dell’autobus a Torbellamonaca il 2 ottobre 2008 da un gruppetto di balordi (evidentemente preoccupati del multiculturalismo, ma non di quello stesso paventato da Panebianco)? Potrei andare avanti fino alla nausea, dimostrando che le tensioni che potrebbero portare argomenti alla tesi del “fallimento del multiculturalismo” non sono praticamente mai dettate da attriti di natura religiosa, e  tanto meno dipendono dalla religione islamica.
Ma non è questo il punto, si potrebbe obiettare. Il vero punto è che “i musulmani” sono chiusi nel loro riferimento comunitario, e assumono valori antitetici ai principi europeo-occidentali, costituendo quindi, de facto, una quinta colonna, magari silenziosa per ora, ma pronta a balzare in prima linea non appena i numeri saranno dalla loro parte. In effetti, è proprio questa la seconda mossa di Panebianco, e l’unico punto che penso gli stesse a cuore quando ha aperto la questione del multiculturalismo, vale a dire l’inossidabile alterità dell’islam rispetto a qualunque definizione si voglia dare di occidente. Questa contrapposizione radicale e totale deve essere presentata in forma apodittica:


cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico?

L’obiettivo è raggiunto: la solidità dell’Occidente e la sua monolitica compattezza vengono esaltate dalla contrapposizione a un altrettanto compatto Islam, definito “antitetico”.  La potenza retorica di questo pezzo di giornalismo scientifico è che la conclusione cui giunge (Occidente e Islam sono antitetici) è una deduzione inconsistente tratta da premesse assolutamente false o indimostrate (che il multiculturalismo non si può praticare se non in contesti non democratici; che l’islam sia sempre la pietra dello scandalo quando si vanno a verificare i casi di fallimento della convivenza).
L’Islam (come l’Occidente) è una costruzione linguistica cui non corrisponde un oggetto reale. L’idea di una “civiltà islamica” antitetica all’Occidente è il frutto di un incubo notturno, il riverbero di qualche trauma perduto nel tempo. Come “noi”, dentro l’Occidente, ci dibattiamo tra opinioni diverse, prospettive politiche radicalmente opposte, visioni del mondo divergenti, così l’Islam è un quadro multiforme di diversità e contrasti. Dentro l’Islam (come dentro l’Occidente) ci sta tutto e il suo contrario, e le storie dell’Islam e dell’Occidente (storie di tolleranza e di intolleranze, di pace e di violenza, di vita e di morte) sono lì a dimostrarcelo al di là di ogni nostra fobia, di ogni nostro terror panico. E se uno non ha voglia di studiare così tanta roba, basta farsi un giro in qualche moschea, parlare con un po’ di persone, provare a conoscere questi benedetti musulmani per scoprire che sì, sono tanto diversi da noi, ma sono anche tantissimo diversi tra di loro. Siete mai stati in una moschea? Avete parlato con i diversi imam e vi siete accorti di come la singola provenienza (dal Marocco o dall’Egitto, dal Bangladesh o dall’Indonesia) produca rifrazioni dell’Islam sensibilmente diverse? La storia multiforme del Cristianesimo, usato come giustificazione dei peggiori atti di violenza (anche recente, pensate alle violenze perpetrate contro i medici abortisti) e per gli atti più sublimi di altruismo non dovrebbe insegnarci che ogni credo religioso si può prestare (volentieri o meno) alle pratiche politiche più divergenti e contraddittorie? Il Got mit uns scialato per secoli in Europa fino ai nazisti non dovrebbe farci un poco calare la cresta quando parliamo di occidente laico e liberale e democratico? E se in questi ultimi trent’anni si è fatta largo una concezione estremamente rigorosa della fede musulmana, e se da questo recupero neo-tradizionalista e identitario si è staccata una malapianta velenosa che nutre il terrorismo internazionale, significa forse questo che tutto l’Islam ne è parte attiva? Allora, il fanatismo di alcuni pastori della Bible belt (e dei loro emissari sulla scena politica) dovrà forse ricadere sul capo di tutti coloro che si dicono seguaci di Cristo?
Io trovo del tutto insensato questo modo di pensare, e non mi resta che chiedere come mai un acuto scienziato politico proponga questa visione grottesca dell’Islam (e quindi dell’Occidente), un’immagine che non ha riscontro nella realtà ma che ha il pericoloso effetto di spingere proprio alla produzione nel mondo reale dell’oggetto tanto temuto nella fantasticheria. La pragmatica della comunicazione chiama questo modo di agire profezia che si autodetermina (self-fulfilling prophecy):


E’ il comportamento che provoca negli altri una reazione alla quale quel dato comportamento sarebbe la risposta adeguata. Per esempio, una persona che agisce in base alla premessa “non piaccio a nessuno” si comporterà in modo sospettoso, difensivo, o aggressivo, ed è probaible che gli altri reagiscano con antipatia al suo comportamento, confermando la premessa da cui il soggetto era partito.

Queste sono parole che Paul Watzlawick e i suoi collaboratori del Mental Research Institute di Palo Alto, California, scrivevano nel 1966 (trad. it. Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971; la citazione è da pag. 91) pensando alle cause “lingustiche” di alcune gravi patologie psichiatriche come la schizofrenia. Trovo estremamente doloroso e preoccupante che quelle stesse parole possano essere impiegate, oggi, per descrivere un atteggiamento politico irresponsabile e gravido di conseguenze nefaste per tutti, coloro che le pronunciano facendosene alfieri, e coloro che sono involontari oggetti di quella descrizione aberrante.