A metà degli anni Settanta vidi Uri Geller in televisione, un imbroglione che piegava i cucchiaini e faceva ripartire gli orologi abbandonati nei cassetti. Avevo una dozzina d’anni e rimasi molto colpito da questo mago, che mi pareva del tutto credibile e sincero, con quel suo sguardo e la capigliatura che lo facevano somigliare stranamente (ma questo lo avrei notato anni dopo) a qualche filosofo francese alla moda più o meno nello stesso periodo.
In quegli anni, a fine della scuola (ero alle medie) mia
mamma mi dava un paio di mille lire che investivo regolarmente in libri,
andandoli a comprare alla “Toletta”,
uno storico reminder veneziano (nell’omonima fondamenta, tra campo San Barnaba
e l’Accademia) che mi aveva indicato mio padre e dove facevo le scorte di letture
estive a prezzi davvero convenienti. Scovai un mattone firmato dallo stesso
Uri Geller, di cui il titolo mi pare fosse La mia storia: un’autobiografia
piena di episodi “psichici”, telecinesi, letture del pensiero,
premonizioni e, ci mancherebbe, manciate di cucchiaini piegati
con la sola forza del pensiero.
Mi bevvi il libro con tutte le sue frottole. Ero
un ragazzo semplice, cresciuto nell’entroterra veneziano in una famiglia di
tradizione veneto-cattolica. Mio padre si era staccato dalla terra come fonte
di sostentamento senza entrare nella sfera operaio-tecnologica di porto
Marghera, diventando un piccolo imprenditore artigiano e consegnando sé
stesso e la sua numerosa famiglia al crescente benessere dell’emergente
“Nordest” (che ancora non si chiamava così). Eravamo una famiglia numerosa
(sette figli), benestante (villa in periferia con annessa fabbrichetta
artigianale) e mediamente ignorante: mio padre, ottenuto con fatica il
diploma classico in un liceo cattolico, aveva mollato gli studi di economia e
commercio perché non aveva tempo di studiare, impegnato com’era a far schei;
mia madre si era diplomata alle magistrali sfidando l’opposizione del padre
palermitano, e faceva la centralinista ai Telefoni di stato. Oltre la
scuola canonica, i punti di riferimento culturali nella mia famiglia erano un onorevole
dell’area cattolica, la chiesa della
parrocchia e la televisione. Libri pochini: un po’ di narrativa popolare
(con qualche imbarazzante assaggio di autori indigeni in faticosa via di
legittimazione, come Nantas Salvalaggio) per mia madre, che comunque
leggeva per hobby, qualche saggio di basso livello (io leggevo letteratura per
ragazzi senza altro filtro che non il prezzo di copertina, impazzivo per una
serie Mursia su “strani animali e le loro storie”, ma mi facevo andare
bene anche Peter
Kolosimo e la sua pseudoarcheologia) e soprattutto quel che passava la
Rai come progetto educativo.
Fu così che, nella primavera 1976, con mio cugino
Salvatore vedemmo su Rete 1 le cinque puntate di Indagine
sulla parapsicologia presentate da Piero Angela, un giornalista forbito
di cui mi piacque subito il tono pacato e il piglio tignoso di
chi non si fa infinocchiare. Coadiuvato dal prestigiatore James Randi,
Angela sembrava avere un conto aperto con Uri Geller, di cui si ostinava
con la sua cortesia piemontese a mostrare l’inaffidabilità. Per me fu la prima
apertura vera nel mondo della scienza, vale a dire della verifica
(avrei imparato dopo a parlare popperianamente di falsificazione) di ipotesi
ben strutturate, sottoposte al rigore del vaglio sperimentale e della coerenza
logica. Poi sarebbe venuto il Dizionario filosofico di Voltaire (in
questa
edizione Bur, altro acquisto alla Toletta) a mettere in crisi definitiva la cosmologia
cattolica dentro cui ero nato e cresciuto, ma la decostruzione
angeliana di Uri Gellner fu per me una lezione fondamentale. Cresciuto in un
mondo istituito dalla fede cattolica e dalla fiducia nell’autorità
degli adulti, con quel programma mi affacciai timoroso sul precipizio del sospetto,
sulla sistematicità del dubbio, sulla possibilità che gli altri mentissero.
Studiare scienze sociali, possiamo dire, è
diventato negli ultimi cinquant’anni sempre più un addestramento a quel tipo di
atteggiamento, applicato però paradossalmente alla natura
stessa della scienza, invece che agli ambiti pseudoscientifici della
parapsicologia e del paranormale. Il programma di Piero Angela venne
ritrasmesso nel 1989 con un nuovo titolo: Indagine critica
sulla parapsicologia e la novità dell’aggettivo sarebbe diventata il motivo
chiave delle scienze sociali di lì in avanti. Piero Angela cioè applicava
il metodo critico dalla cittadella razionale della scienza verso
il mondo irrazionale e ciarlatanesco da cui era circondata, senza
indentificarvisi, mentre le scienze sociali, sempre più, applicano il metodo
critico alla scienza stessa, in nome di un rifiuto categorico della
razionalità come strumento oggettivo. Mentre per Piero Angela l’impegno critico
era l’applicazione del rigore scientifico a qualunque oggetto (e questo
in gran parte è ancora l’impegno delle scienze “dure”), le scienze sociali sono
diventate via via uno spazio di applicazione del pensiero magico-associativo
al mondo in generale, contestando il valore di verità del metodo scientifico.
Un sintomo evidente di questa spaccatura è nell’uso del
termine “potere”. Per Piero Angela (e per il pensiero scientifico
classico che la sua prospettiva tipicamente incarna) Scienza e Potere
sono due ambiti scollegati: se si parla di medicina, di tecnologia
o di biologia, il SuperQuark di Angela si disinteressa bellamente
di politica internazionale o di economia, e si concentra invece sulle
“scoperte”, sulle “invenzioni”. L’unico potere che semmai può affacciarsi in
questo tipo di riflessione è il potere militare associato agli armamenti, in
particolare al nucleare, ma sono sempre “gli scienziati” che dialogano
(anche criticamente) con “i militari” ad essere rappresentati. Altrimenti, il
potere dei politici viene rappresentato come un sistema che contraddice
la logica della scoperta scientifica, un sistema retorico che cerca di
sviare in nome della propaganda quel che la scienza dice oggettivamente
sulle differenze reali tra esseri umani.
Insomma, non c’è spazio nel mondo di Piero Angela per il
pensiero estremista e paranoide come disvelamento delle vere ragioni
che imporrebbero il progresso tecno-scientifico: le politiche sociali
sull’immigrazione non stanno favorendo la “sostituzione etnica”; la
medicina non è sotto il controllo di Big
Pharma; l’innovazione tecnologica non risponde sempre e solo al sistema
neo-coloniale del neoliberismo
capitalista; la comunicazione elettronica non serve solo ai Poteri Forti per
controllare i poveri cittadini-vittime che hanno bisogno di essere “svegliati”.
Più prosaicamente, più laicamente e più pragmaticamente, nella sua concezione la
Scienza è un sistema di pensiero e di azione che può essere dirottato
per interessi politici o economici, ma mantiene un nucleo solido di
garanzia di verità, di impegno al progresso, di ambizione al miglioramento
della vita degli umani.
Questo, io credo, è il vero cordoglio degli
italiani per la morte di Piero Angela. Si piange la scomparsa di uno strenuo
paladino del pensiero razionale, di un solidissimo difensore della
necessità che la scienza sia resa popolare non solo nei suoi contenuti
(le innovazioni, le scoperte comunicate al grande pubblico) ma ancor più
nell’atteggiamento, nella mentalità che Angela provava a diffondere come
stile di vita comune.
Le scienze sociali (non solo e per fortuna non
tanto quelle italiane) stanno smarrendo questa strada, e pur di
schierarsi politicamente in modo non ambiguo dalla parte degli oppressi
e dei subalterni (variamente intesi) sono disposte perfino a contestare la necessità
dell’argomentazione razionale, arrivando a negare la limpidezza del
metodo scientifico, spesso presentato farsescamente come strategia retorica
volta a perpetuare l’oppressione che invece fingerebbero di
rappresentare oggettivamente.
Questo non significa negare il fatto che le scienze
sociali, in particolar modo l’antropologia, debbano fare i conti con una doppia
soggettività: quella di chi realizza la ricerca e quella dell’oggetto di
studio. Anzi, chiunque comprenda bene questo aspetto della disciplina sa che
lottare sempre e ad ogni costo parteggiando per i più deboli annulla di
fatto ogni tentativo di collocarsi sul bordo delle cose — schierarsi dalla parte dell’oppresso è comunque schierarsi,
che non equivale esattamente a collocarsi —
e basta leggere un autore come Giorgio Agamben per ammettere quanto
questa ossessione per il potere stia puntando dritta alla paranoia.
Il rischio è quello di avere una scienza sociale che non
faccia altro che inciampare su sé stessa, piuttosto che cercare di dire
qualcosa sul mondo.
Abbiamo avuto antropologi, sociologi, pedagogisti e
filosofi che sono passati per molti canali pubblici di comunicazione, tutti
sempre ben intenzionati a difendere i più deboli, eppure raramente in grado di
suscitare l’attenzione e l’interesse che le sintesi popolari di Piero
Angela hanno sollevato. Forse perché Piero Angela era un divulgatore
banalizzante e riduttivo? O forse perché le scienze sociali fanno sempre
più fatica a proporsi come portatrici di una riflessione oggettiva e razionale
sul reale e sulle sue cause?
Non avevo ancora vent’anni (quindi erano i primissimi
anni Ottanta) quando sentii Alberto Angela in televisione raccontare che la crescita
demografica del Maghreb e dell’Africa subsahariana era tale che di lì a una
quindicina d’anni la pressione migratoria sul Mediterraneo si sarebbe
fatta sentire, e avremmo dovuto presto farci i conti, come paese meta
inevitabile di quei flussi che stavano montando. È vero che l’università
italiana cominciò presto a riflettere in modo sensibile sulle migrazioni dal
Sud del mondo, ma perché io non ricordo unə
sociologə o unə antropologə ma un giornalista piemontese informarmi per primo
su questa notizia che, oggi lo sappiamo, avrebbe trasformato le
vite di tutti e tutte noi e condizionato la politica nazionale fino ad oggi?
Ecco, se le scienze sociali non proveranno a rispondere
seriamente a questa domanda credo che il profondo, spontaneo e diffuso
cordoglio nazionale per la scomparsa di Piero Angela dovrà suonare come un monito
grave, per chi ancora crede che il sapere delle scienze sociali debba
impegnarsi ad essere scientifico, e non solo presa di posizione
politica ormai archiviabile come benpensante.
POSTILLA. Avevo pensato di scrivere queste righe mettendo mentalmente a confronto l’evidente lutto collettivo per la morte di Piero Angela sui media canonici e sui social con i sopraccigli arcuati di alcuni colleghi, concettosamente consapevoli delle limitazioni che la divulgazione scientifica comporta. Avevo ipotizzato, dentro questa comparazione mentale, che ci dovesse essere una correlazione inversa tra “estremismo epistemologico-politico” e cordoglio per la morte di Angela, ma non avevo avuto tempo di sondare empiricamente la mia ipotesi. Ci ha pensato il professor Andrea Zhok, noto proprio per le sue posizioni politiche non esattamente moderate o pragmatiche che, con un post su Facebook, ha riassunto in modo chiaro quel che io ipotizzavo molti benpensanti woke avessero pensato alla morte del giornalista: uno che propalava “il più ingenuo paradigma positivista”, occultando “tutta la complessità metodologica delle singole scienze”, al fine di spacciare “una nuova mitologia, una nuova dogmatica, una nuova verità rivelata”. Naturalmente, il valore pedagogico di chi si è impegnato a veicolare un poco di pensiero consequenziale razionale viene completamente negato, in questa lettura pretenziosa, in nome della preoccupata consapevolezza di quanto “gli ipnotizzati dagli stilemi pseudoscientifici che si sono imposti in occidente negli ultimi settant’anni” non siano neppure lontanamente in grado di comprendere il livello delle “falsificazioni di cui sono caduti vittime nel nome della ‘scienza’”. Posizioni come queste, che non si preoccupano affatto di indagare un fenomeno sociale (Piero Angela era, a tutto gli effetti, un fenomeno sociale riconoscibile e durevole) ma sono prima di tutto preoccupate di dimostrare la loro distinzione illuminata, la loro autorevole consapevolezza, sono assieme la moda e il nadir delle scienze sociali. Fin quando fare bella figura, dimostrare di saperla lunga, pontificare a metà strada tra Pinocchio e il Grillo parlante, costituirà il malcelato obiettivo della presa pubblica della parola, ben più che impegnarsi a spiegare quel che davvero conta per le persone macchiettisticamente liquidate come vittime della loro stessa ingenuità, le scienze sociali saranno condannate all’irrilevanza in cui ristagnano. Dovremmo, piuttosto, provare a capire non solo la stolida ingenuità dei divulgatori scientifici, ma anche la loro presa, l’attenzione che la loro posizione sollecita nelle “persone normali”, cosa quell’attenzione significa, e confrontarla con il silenzio tombale che troppo spesso circonda la profondità delle nostre teorie sociali. Piero Angela, con tutte le sue ingenuità e mitologie, aveva milioni di persone reali disponibili ad ascoltarlo, e noi scienziati sociali, con la nostra raffinatezza, facciamo fatica a farci leggere o ascoltare appena fuori della ristretta cerchia dei sodali di disciplina. Attribuire questo scarto all’ennesima versione del popolo bue non ci porterà da nessuna parte, se non a commiserarci ancor di più mentre lanciamo irritati moralismi francofortesi dalla nostra sempre più ristretta torre d’avorio.