2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

martedì 22 dicembre 2009

La vita è meravigliosa


Si titolava così un film di Frank Capra che va in onda ogni Natale, di cui ho il dvd e che rivedo regolarmente perché è uno dei miei top five di tutti i tempi. È il film per me in asoluto più natalizio mai prodotto, lo amo per la sua ingenuità e per il suo incrollabile ottimismo.
Voglio tenerlo a mente mentre racconto questa storia.
Tutti sapete della genialata del sindaco di Coccaglio (Brescia) che aveva promesso ai suoi concittadini un “White Christmas”, vale a dire un Natale senza gente dalla pelle di colore strano, visto che entro il 24 avrebbe provveduto a fare piazza pulita degli “irregolari” e dei “clandestini”. La cosa ha suscitato riprovazione universale (ecco qui cosa ne dice il Guardian). Su Facebook (con buona pace degli schizzinosi che si lamentano che “su Fb sono tutte cazzate”) Igiaba Scego si è mossa aprendo un gruppo che si chiama Color Xmas, con questo intento:
Siete tutti a conoscenza dell'iniziativa di Coccaglio di White Xmas. Non ne parlo perché è tra le più tristi che io abbia mai sentito. Poi siamo tutti al corrente purtroppo. Io non sono cristiana. Ma il Natale so che è una festa di accoglienza, pace e amore. Maria e Giuseppe erano migranti, Gesù figlio di migranti. Fare un White Xmas è contro il DNA del Natale.
Questo 25 Dicembre trasformiamo il Natale nella nostra festa. Non consumista, non razzista.
Ecco la mia proposta. Io vorrei organizzare un Color Xmas, un Natale a colori.
Perché non organizziamo in tutta Italia dei Natali a COLORI e poi mandiamo le nostre foto a Coccaglio e ai principali giornali nazionali? Natali in famiglia, con gli amici, con i senza fissa dimora, con i migranti, con i richiedenti asilo, con gli anziani, in ospedale, nelle carceri, a casa, per strada.
Un Natale politico e in felicità è quello che ho sempre sognato. Una festa della gente.
Aderite all'iniziativa? Uniamo le forze e i Natali?


Al gruppo si iscrivono tante persone, il sindaco di Coccaglio manda una lettera dove cerca di spiegare le sue patetiche ragioni, viene giustamente sbeffeggiato come campione mondiale di arrampicata sugli specchi, e da uno degli iscritti (ripeto, uno degli iscritti al gruppo), arriva questa lettera:

Mi sono iscritto perchè non sono razzista come la maggior parte degli Italiani, perchè siamo un popolo buono alla fine e simpatico. Forse troppo buono però a volte e troppo simpatico, sei ignorante, perchè se leggi la risposta del sindaco attentamente e avresti anche una minima cognizione di civiltà giuridica dentro di te capiresti che quello che ha detto è sensato, che in una nazione civile che vive di diritto, vanno fatti controlli, ci sono leggi da rispettare e non si può fare quello che cazzo si vuole come avviene in paesi meno sviluppati dove legge, rispetto della vita umana e razzismo si che sono una piaga. Ho risposto male perchè mi sono rotto di sentir lamentare gente che viene in Italia trovando una situazione un miliardo di volte migliore di quella che lasciano nei loro paesi di origine, ed invece di impegnarsi e rompere i coglioni ai loro govenranti, ai loro sindaci che li veramente fanno schifo e trattano la gente in modo orribile criticano le nostre istituzioni. Mettiti in testa che qui in Italia non hai niente da insegnarci, proprio nulla, rispetta questa terra e se vuoi cambiare qualcosa comincia dalla tua. Ciao.

Ecco. Non starò a infierire sull’uso improbabile della consecutio (“se avresti”) né il tono volgare del tutto. Mi dà invece da pensare l’esplosione con cui la cosa si manifesta, la sua natura violenta. Il signore in questione (di cui non riporto il nome per carità cristiana) sembra voler dire che proprio non ce la fa più, che lui pure uno sforzo l’ha fatto, ci ha messo la buona volontà di capirli, ’sti stranieri, ma loro di stare al loro posto proprio non ci riescono, lo hanno fatto veramente uscire dai gangheri con le loro petulanti richieste e le loro critiche fuori luogo.
Questo signore è un esempio di un atteggiamento sempre più diffuso, che potrei riassumere con “Ma adesso basta”. È la posizione ideologica di chi deve giustificare in qualche modo lo squallore morale che si porta dentro, e lo fa attribuendone la responsabilità all’esterno. È lo stesso atteggiamento di quello che “finalmente” sbrocca e picchia la moglie, e si giustifica proprio descrivendosi come calmo e mite, quindi “se ti ho picchiata la colpa è tua”. Si tratta del colmo del colmo dell’ideologia, come si può vedere, perché il tipo calmo e pacifico si dimostra tale proprio quando la moglie fa una cosa sbagliata (facile essere calmi e pacifici quando tutto fila liscio), e il mondo occidentale e civile e regolato e pieno di sindaci illuminati si dimostra tale proprio quando ha a che fare con il disagio sociale, con le difficoltà di inserimento, con la reciproca incomunicabilità. Facile fare i democratici quando tutti stanno al loro posto, quando tutti sono nataliziamente bianchi e accendono le lucine nelle loro casette imbiancate da poco. Questo signore, che purtroppo incarna la voce di troppi miei connazionali, temo, è la faccia dell’Italia con la quale ci tocca fare i conti sempre più spesso.

mercoledì 25 novembre 2009

Pollicino

Valeria aveva già fatto il grosso, sistemando le cose sue, quelle di Rebecca e quelle di Amanda, quando ha fatto l’ondata di freddo il mese scorso. Io me l’ero cavata ancora per un po’ con i vestiti di mezza stagione, qualche completo e un paio di maglie pesanti rimaste dalle vacanze di Erice la scorsa estate. Ma girare con lo scooter al mattino presto con i vestiti estivi non era più possibile, così sono sceso “in cantina” (in realtà lo sgabuzzino che sta a fianco del garage) e ho tirato fuori le due valigie con i miei vestiti invernali, le mie giacche e pantaloni rigorosamente di lana, quasi tutti scuri, così comodi da scegliere se devo pescare qualcosa nella cabina armadio mentre Valeria ancora dorme.
Ho portato su tutto e ho “fatto il cambio di stagione”, un rituale al quale mi sottraggo fin quando è possibile, e che poi realizzo in tempi solitamente brevi. Seleziono le cose da lavare e le metto da parte, mentre ripiego le giacche e i pantaloni puliti e li sistemo in valigia al posto di quelli che tiro fuori.
Ogni anno, due volte l’anno, l’operazione più delicata è la ripulitura delle tasche. Prima di portare le cose in lavanderia frugo nelle tasche e nei taschini, e ne tiro fuori fazzoletti usati, spiccioli, foglietti che Rebecca ha scritto per me (o che ha scritto per altri ma che trovano in me il loro ricettacolo inevitabile, tipo “me lo tieni un secondo”), sorprese mutilate degli ovetti Kinder, liste della spesa compilate sui quei fogli quadrati che si comprano a blocchi, biglietti della metro, il gettone di una sala giochi. Cose così. Quasi sempre non significano nulla, sono ancora freschi d’uso, lasciati sopire al massimo per qualche settimane. Mi ricordo di tutti loro. Ero distratto, non ci pensavo più, lo ammetto, ma ogni volta che ne rivedo uno posso ricostruirne la storia, che è sempre piuttosto breve.
Mi piace scrivere un diario, ma sono sempre stato uno scrittore infedele. Posso resistere per un mese, anche un anno di seguito, ma non sono uno che “tiene il diario”, sono uno che “tiene dei diari, ogni tanto”. Così la mia memoria (che è il vero motivo per cui tengo un diario, perché mi fa ricordare le cose dentro il mio corpo, non perché le imprigiona fuori di esso, dato che non rileggo mai i miei diari), la mia memoria è piena di alti e bassi, di buchi, come dicono sia lo spazio profondo, pieno di vuoti in mezzo ai pieni, un groviera del tempo.
Allora, quest’anno l’ho fatto apposta, visto che non sto tenendo un diario. Invece di ripulire le tasche e di portare in lavanderia tutto quello che non era perfettamente immacolato, ho deciso di portare a lavare solo quello che era decisamente sporco, e ficcare il resto (la gran parte, quindi) in valigia con un paio di tavolette antitarme. Senza ripulire le tasche. Non so, veramente non so cosa posso aver dimenticato apposta nelle tasche dei vestiti e dei pantaloni che ho messo in valigia, e che rivedrò non prima di aprile o maggio. Allora, sarà passato abbastanza tempo per rendere quelle cose meno ovvie, ma spero non abbastanza tempo da rendermele sconosciute. Quando troverà quel bigliettino di Rebecca, il mio io futuro non dirà subito “Ah, sì!”, ma dovrà aggrottare la fronte e fare uno sforzo, cercare di ricostruire i frammenti sparpagliati. Il biglietto del cinema che avrò tra le mani dovrà fare i conti con una trama che non ricordo bene, con attori vaghi e innominati, che sarà piacevole sforzarmi di ricostruire nei gesti e nelle battute.
Lo so, è un piccolo trucco per far finta che la vita abbia una continuità di senso, che le cose si succedano in qualche ordine, che possiamo ricostruire con un po’ di pazienza e un po’ di memoria.
È una piccola consolazione, lo so.
Ma so anche che la prossima primavera sarà meno tedioso fare il cambio di stagione.

martedì 24 novembre 2009

E io che pensavo che due guerre mondiali, la Shoa e la decolonizzazione c'entrassero qualcosa con la perdita di centralità dell'Occidente!

Invece, sto scrivendo un pezzo su come "la rete" ha trattato la morte di Claude Lévi-Strauss per cui mi trovo a leggere diversi post e qualche necrologio. Evito quelli pubblicati sui giornali (ci pensa già una collega a recensire quelli) ma il capolavoro di Lucetta Scaraffia, brillante storica della Sapienza, pubblicato sull'Osservatore Romano il 5 novembre scorso non può passare inosservato.
Commentando l'opera forse più famosa di Lévi-Strauss, quella che gli ha dato fama di grande scrittore, vale a dire Tristi tropici, pubblicata nel 1955, dice infatti Scaraffia (se volete, leggete anche il resto):
Grazie a questo libro, infatti, il mondo occidentale non è più la norma assoluta, ma solo una maniera fra le altre di percepire il mondo o di entrare in contatto con esso.
Si capisce poi dal senso del necrologio che "grazie a questo libro" è un eufemismo cortese al posto di "per colpa di questo libro". Devo ammettere che una tale fiducia nella forza distruttrice della scrittura umana mi pare eccessiva. L'autrice dice che l'Occidente (qualunque cosa significhi questo termine) non è più la norma assoluta, vale a dire il riferimento di tutto il mondo, il punto a cui avrebbe dovuto tendere l'umanità in quanto tale, e non solo quella parte che geograficamente vi appartiene, a causa di un libro di malinconiche memorie di un filosofo francese con l'allergia per i viaggi ma costretto a qualche anno di esilio sud- e nord-americano per via delle sue origini ebraiche che lo esponevano al rischio della morte se fosse rimasto in Francia.
Quindi, si badi bene, l'OCCIDENTE (e scriviamolo tutto maiuscolo, come merita, no?) ha perso il suo sex appeal non perché c'era una banda di pazzi nazisti (con buona parte dell'Occidente dietro) che voleva sterminare gli ebrei e i diversi, producendo quindi nei sopravvissuti orrore per quell'immagine monolitica dell'OCCIDENTE, ma perché un ebreo in fuga dai nazisti si era preso la briga di studiare come vivevano alcune sparute e inermi popolazioni indigene brasiliane.
L'OCCIDENTE è stato ferito a morte non dal delirio delle guerre nazionaliste, dalle dittature, dalla brutalità feroce del colonialismo cristiano, ma dalle miti considerazioni scettiche di un professorino francese che amava l'arte e raccontava (stupito lui per primo) di strane pratiche culturali.
L'OCCIDENTE, ovviamente, non è morto perché si è suicidato impiccandosi all'illusione fallimentare di essere la norma assoluta, trascinandosi dietro le macerie della sua protervia violenta che pretendeva di assimiliare tutto il mondo assoggettandolo al suo sistema di valori, ma è stato invece brutalmente assassinato da un libro, da pagine tristi, appunto, scritte da  un uomo schivo e un po' snob, come molti suoi connazionali.
Peccato, non ce ne eravamo accorti. Provvederemo ovviamente a rimuovere un tale pericolo pubblico dalle nostre biblioteche, soprattutto quelle rivolte alla nostra sana gioventù in formazione.
In attesa della clonazione del defunto OCCIDENTE, si intende...

Convegno

Inizia oggi (tra qualche minuto, mannaggia al mio tempismo), il Convegno
LA STORIA DOPO IL CINEMA. PERCEZIONE, SENSO, AZIONE NEL MONDO VISTO.
Qui trovate il pdf del programma completo del Convegno, che si tiene a Roma, al Cinema Sala Trevi, in via del puttarello, 25 (dietro Fontana di Trevi).
Domani mattina, alle 9.30, ci sarò anch'io, a presentare una relazione dal titolo:
La finzione nazionale. La rifrazione dell'identità cinese nel prisma della narrazione televisiva
Non conosco il cinese, tanto per chiarirci, e lavoro tutto su fonti già pubblicate, ma provo a inquadrare una mia riflessione sull'uso della fictionù, con un po' di Zizek, un po' di Althusser e un po' di teoria del nation building. Lo so, fa molto cultural studies, ma mi è venuta così.
Ecco l'abstract del mio intervento:

La narrazione per immagini ha anche in Cina un profondo impatto sulla rappresentazione delle identità collettive, ma non è solo il cinema a farsi carico di questa dimensione, dato che la produzione televisiva ha avuto fin dal suo apparire un’attenzione peculiare per la narrativa. Nella Cina del dopo Mao, il ruolo dell’indottrinamento è stato completamente sottratto agli apparati ideologi tradizionali per essere assunto quasi completamente dalla televisione e da altre forme di cultura popolare. Per lungo tempo, quindi, sono state la televisione e in generale la cultura popolare orientata dalle indicazioni dal Partito a costituire gli “apparati ideologici di Stato”, le strutture attraverso cui il sistema riproduce i rapporti di potere esistenti. In questo intervento analizzo il ruolo di alcune fiction tramesse negli anni Novanta nell'articolare una nuova immagine dell'identità nazionale cinese. In particolare, mi soffermo sulle soap operas Kewang, (Brame, 1990), Beijngren zai Niuyue (Pechinesi a New York, 1993), Eluosi gunian zai Harbin (Ragazze russe a Harbin, 1994), Yangniu zai Beijing (Ragazze straniere a Pechino, 1996).
L'analisi presentata porta a conclude che i melodrammi televisivi cinesi hanno un spessore simbolico notevole, che investe le caratteristiche sessuali e “razziali” della nazione cinese, e lo Stato nazionale sembra non essere estraneo all’orientamento del dibattito su queste tematiche attraverso l'uso delle fiction televisive.

Scusate!

Avevo disattivato la possibilità di commentare senza moderazione i post di questo blog (la cosa ovviamente non vale per chi mi legge sulle "note" di Fb, che arrivano dal blog) ma pensavo che blogger mi avvisasse via mail che c'erano stati commenti. Invece vedo che i commenti in attesa di essere visionati se ne stanno lì buoni buoni fin quando non entro per postare nuovamente, al che mi compare l'avviso che ci sono commenti da visionare. Quindi le mie scuse a quelli che hanno commentato in questi giorni e non hanno visto pubblicato il loro commento finora! Ho pubblicato i loro commenti e li ringrazio scusandomi nuovamente della mia sciatteria. D'ora in poi sarò più scrupoloso.

giovedì 19 novembre 2009

Secondi a chi?


Ieri, nella Sala del Mappamondo, della Camera dei Deputati, si è tenuta una conferenza stampa della Rete nazionale di seconde generazioni G2, per presentare la Campagna Cittadinanza G2 e il disegno di legge Sarubbi-Granata sulla possibilità di estendere la cittadinanza agli immigrati in regola residenti da almeno cinque anni e la garanzia che i figli di immigrati, nati in Italia o comunque qui cresciuti, possano accedere alla cittadinanza italiana senza particolari (e particolarmente odiose) trafile burocratiche.

Abbiamo sentito le testimonianze di Qenia (di origini brasiliane e nigeriane) e di Neva (di origini croate), italiane che non vedono riconosciuti i loro diritti, che non possono votare; che hanno forti limitazioni agli spostamenti (di fatto non possono viaggiare fuori dall’Italia mentre il loro permesso di soggiorno è in rinnovo, vale a dire per molti mesi all’anno, e spesso una volta rinnovato scade poco dopo); che non possono accedere ai concorsi pubblici anche quando ne avrebbero i titoli (perché molti concorsi sono riservati ai cittadini italiani o UE); che spesso non possono aprire una partita IVA (se la chiedono una volta esaurite le “quote”); che hanno enormi problemi a recuperare i documenti necessari per il matrimonio; che devono subire la trafila umiliante del rinnovo (spesso annuale!) del permesso di soggiorno, anche se sono nate qui come me o hanno fatto buona parte delle scuole qui, come me, che non mi sento certo in obbligo di “chiedere permesso” per restare in Italia; che quindi vivono sistematicamente come cittadini di serie B.
Ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa e lo scambio di informazioni, e propongo al dibattito queste mie riflessioni.

1. Chi vota la legge? La proposta di legge Sarubbi-Granata è sicuramente interessante (per quanto migliorabile), ma il vero rovello è un altro: chi effettivamente sarà disposto a votarla? Con questa maggioranza di Governo, tenuta in scacco dal razzismo della Lega, non vedo proprio come sia possibile un’operazione bi-partisan che sembra destinata a morire sul nascere, o a vivacchiare solo e fino a quando rimane un ballon d’essai senza alcuna velleità di effettiva realizzazione. La Rete G2, che si dichiara (giustamente!) apartitica deve fare i conti con il fatto che non solo nella società civile, ma dentro il cuore del Parlamento esistono spezzoni evidenti e consistenti del corpo politico che non hanno alcuna intenzione di lavorare in favore di una qualsivoglia integrazione dei cittadini immigrati e dei loro figli, e che anzi articolano i loro programmi politici sul razzismo, l’esclusione sociale del culturalmente o razzialmente diverso, e l’assimilazionismo più spudorato. Per quanto voglia giustamente trovare degli interlocutori istituzionali, la Rete G2 deve avere ben chiaro che nelle istituzioni alcuni sono referenti potenziali, ma altri sono chiaramente dei nemici, e come tali andrebbero trattati. Inutile farsi illusioni su questo punto, che è legato a quello successivo.

2. L’identità italiana. La Rete G2 sta chiedendo un diritto fondamentale per i propri aderenti e per tutti coloro che hanno una cultura italiana (parlano in italiano, pensano e scrivono in italiano, conoscono chi è Pippo Baudo e sanno riconoscere di chi sono i versi Sempre caro mi fu quest’ermo colle e Nel mezzo del cammin di nostra vita) ma non hanno il diritto di vedersi riconosciuti come italiani. Bisogna tuttavia avere chiaro in mente che questa loro richiesta coinvolge tutti noi italiani, anche quelli che credono di aver accesso garantito alla cittadinanza. Chiedere che si possa avere la cittadinanza italiana anche se si ha la pelle scura o gli occhi a mandorla, se si è musulmani o si crede nella reincarnazione, significa SGANCIARE una volta per tutte l’identità italiana dal colore della pelle e dalla religione. Significa che noi-che-abbiamo-la-cittadinanza-italiana-come-dato-di-fatto dobbiamo ammettere che è ora di finirla di concepire l’italianità come inevitabilmente associata a uno stereotipo fisico (la Cuccinotta?) o culturale (Padre Pio?) per riconoscere che l’identità italiana è qualcosa che costruiamo tutti insieme dibattendone. Significa ammettere che essere italiani è un processo identitario, un’appartenenza sempre in fieri, e che questi nostri connazionali dai colori “strani” ci stanno sollecitando su questo tema. Siamo disposti ad ammettere che italiani si diventa e che l’appartenenza nazionale non è un bene ereditato per via genetica o anche per via culturale direttamente parentale? Siamo pronti ad accettare il fatto che si possa essere pienamente italiani senza essere nati da genitori italiani, ma perché si è stati esposti alla cultura italiana nel processo di socializzazione?
Attenzione, il punto è cruciale: siamo disposti ad accettare il fatto che l’identità italiana NON DIPENDA DIRETTAMENTE DALLA FAMIGLIA CHE CI HA GENERATI?
Io ovviamente sono entusiasta di questa prospettiva dinamica, ma non so quanti connazionali possano al momento condividerla. Mi sembra doveroso ricordare agli amici della Rete G2 che parlando dei loro (sacrosanti) diritti stanno in effetti anche parlando dell’identità italiana di tutti gli italiani, e su questo punto è probabile che trovino le resistenze di tutti quegli italiani che (vedi punto 1) si fanno rappresentare da esponenti esplicitamente razzisti e intolleranti, che articolano invece un’ideologia dell’appartenenza completamente diversa, delegando alla famiglia di origine il diritto/dovere di inculcare l’identità nazionale. Il lavoro da fare, in questo senso, è complicatissimo, perché prevedere la possibilità che persone somaticamente e/o culturalmente eccentriche rispetto al modello steretipicamente normativo dell’identità nazionale italiana siano riconosciute come interlocutori legittimi per parlare dell’italianità e per contribuire alla sua costruzione.

3. La questione del nome. Per quanto, come si capisce, io sia del tutto in accordo con le richieste della Rete G2, trovo fuorviante il nome che si sono scelti, e mi azzardo a proporre una sua modifica. “Rete nazionale di seconde generazioni G2” lascia in sospeso a cosa si riferisca il “seconde”, producendo facilmente nella mente di chi legge o sente un effetto da “spazio bianco da riempire” con l’inevitabile etichetta “immigrate”, producendo un risultato finale “seconde generazioni di immigrati” che è errato (in quanto non parliamo di immigrati, ma di nati qui o arrivati a un’età in cui non si può proprio essere immigrati) e politicamente deleterio (dato che conferma nella mente di chi legge o ascolta “seconde generazioni” la convinzione che si tratti comunque di immigrati, di altri, mica di italiani con i quali fare i conti). Il rischio di questa denominazione, secondo me, è quindi quello di tagliare alla radice lo scandalo della condizione dei G2, che è invece quello di essere italiani non riconosciuti come tali, per essere ricondotto all’ennesima richiesta dell’ennesima lamentosa minoranza che si rivolge umilmente alla maggioranza per rivendicare qualche briciola di diritto.
No, io credo che la cosa, anche terminologicamente, andrebbe presa di petto, con un’espressione del tipo Italiani di Prima Generazione (IPG), a indicare che gli IPG sono i Primi nel susseguirsi delle Generazioni della loro famiglia, ad essere di cultura Italiana e quindi Italiani e basta. Mentre io, diciamo, sono italiano da diverse generazioni, gli IPG lo sono da una generazione (la loro), ma dato che nel nostro sistema giuridico l’appartenenza nazionale non è un sistema dinastico (dove si acquisisce prestigio tanto più quanto si allunga il pedigrée dall’antenato fondatore) ma è invece un sistema di diritti/doveri, gli IPG possono sensatamente battersi affinché la loro condizione di PG non intacchi in alcun modo i loro diritti di I(taliani).

domenica 15 novembre 2009

La miseria di Roma

Ai miei studenti di Urban & Global Rome al Trinity College Rome Campus cerco di far vedere una Roma che altrimenti non vedrebbero. Non vedrebbero se rimanessero in centro a studiare la Roma classica e papalina, o a svagarsi tra Trastevere e Campo de’ Fiori.
Per questo visitiamo Pietralata e la sua borgata storica circondata dal quartiere abusivo (dove abito anch’io). Per questo li porto a Torpignattara a conoscere gli esponenti della comunità bengalese che hanno rivitalizzato un quartiere che si andava spopolando. Per questo andiamo in visita alla Moschea e alla Sinagoga, o parliamo con i figli dei negozianti cinesi dell’Esquilino e con gli occupanti di CasaPound. In questi walking tours (qui avete le mappe del giro a Pietralata e all’Esquilino) vediamo e sentiamo tante cose, quando possiamo mangiamo anche, per provare a incorporare un po’ meglio la diversità che ci circonda.
Il “giro” più impegnativo, questo semestre, è stato però in centro. Siamo stati al Joel Nafuma Refugee Center, un centro diurno gestito dalla chiesa episcopale di San Paolo entro le mura. Se guardate la facciata della chiesa, su via Nazionale, fate caso al cancello alla sinistra. Dalle 8 alle 14 è aperto e vedrete molti stranieri entrare e uscire. Lungo il corridoio che segue il muro esterno della Chiesa, si arriva sul retro, e da lì si può scendere in quella che era la cripta della Chiesa, ora trasformata in un centro diurno di accoglienza per persone che hanno fatto domanda di asilo politico nel nostro paese.
Abbiamo conosciuto D., curdo irakeno, arrivato da quasi due mesi. Ha tutte le carte in regola dal punto di vista legale, ma dorme per strada in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo è stata accolta. Dice che non se l’aspettava, non si aspettava che non avrebbe avuto alcun sostegno dallo stato italiano, mentre un gruppo di volontari americani gli insegna un po’ di italiano, o gli passa un po’ di schiuma da barba o un tè in un bicchiere di carta e cinque biscotti. Twana, il responsabile del centro, ci racconta che hanno un budget di circa mille euro al mese per tutte le spese del centro, che viene tutto da donazioni, e quindi da quest’anno chiudono alle 14, invece che alle 16.30 com’era fino all’anno scorso.
Conosciamo I.O., dalla Nigeria, in Italia da sei anni. Dorme a Termini sperando di trovare il modo di tornare al suo paese, a coltivare cassava se qualche ONG finanzierà il suo progetto. Ci parla del razzismo degli italiani, del razzismo della polizia italiana, di come a volte non si senta neppure considerato un essere umano.
Le storie che raccolgo e che sento sono spesso dolorose, o sono storie di rabbia.
C’è però un posto dove non ho ancora avuto il coraggio di portare i miei studenti, e questo posto non esiste più da quattro giorni. È il campo irregolare di Centocelle, un accampamento rom/romeno che il Comune ha raso al suolo la mattina dell'11 novembre scorso.
Che posso dire di quel posto? Forse l’unica cosa che mi sento di dire è che i bambini del campo andavano nella stessa scuola di mia figlia Rebecca, che due bambine erano in classe con mia figlia. Le famiglie si sono trovate smembrate, qualcuno spedito a Ponte Galeria, qualcuno spinto al rimpatrio in tutta fretta. Chi è rimasto ha dormito una notte a Villa de Sanctis, lì vicino, oltre un cordone di polizia che ha impedito ai cittadini che lo volessero (ed erano in molti) di portare qualche coperta, un po’ di cibo caldo o anche solo un po’ di solidarietà. Il tentativo di occupare un dismesso stabilimento industriale in via dei Gordiani (sede di un campo regolare poco più avanti) è stato bloccato di nuovo dalle forze dell’ordine.
Io proprio non ce la faccio a pensare ai miei doveri didattici, penso solo alla bimba romena da settembre compagna di classe di Rebecca che ho visto giovedì. All’uscita è venuto a prenderla un uomo in evidente stato di stress. Aveva i vestiti luridi e sembrava preda di una profonda angoscia. Non so che fine abbia fatto la mamma di quella bambina, né se lei tornerà nella classe di Rebecca, lunedì.
Non posso portare i miei studenti americani a confrontarsi con situazioni come questa, ma credo sia arrivato il momento di ripensare seriamente cosa siamo diventati, noi italiani, e cosa vogliamo diventare. Vedevo il pulmino che portava ogni giorno a scuola i bambini da quel campo e lì li riportava, mi sembrava un passo importante di inserimento sociale. Ora non so cosa vedrò la settimana prossima, ma posso immaginare che andare a scuola, per quei bambini, non sia più una priorità, e non mi pare un passo in avanti.
O, come cittadini, apriamo gli occhi sulla miseria che attraversa questa città e cominciamo a farcene carico, oppure ogni volta che la espelliamo con la forza o la neghiamo con l’indifferenza ne verremo invasi fino in fondo al nostro animo, inaridendoci ancora di più fino a seccare completamente, come società civile (nel senso letterale dell’espressione: raggruppamento di esseri umani che non vive allo stato ferino, società civile).

domenica 8 novembre 2009

Commenti sui post

Da un paio di settimane il mio blog è infestato di commenti ai post prodotti chiaramente da qualche sistema automatico. Qualcuno sa che senso abbia questo tipo di azioni e chi le organizza?
Credo che per rimediare alla situazione dovrò disattivare i commenti per qualche giorno. Chiedo scusa a tutti. Chi vuole e ha l'account, può comunque commentare il travaso di questi post sulle note di Facebook.

venerdì 6 novembre 2009

Blasfemi 2 La vendetta

Il post di Pietro Clemente ha aperto un piccolo dibattito travasato nelle mie note su Facebook (dove vanno a finire in copia tutti i post di questo blog). Ne riporto un paio rispettosamente critici nei confronti di quel che diceva Clemente.
Angelo Romano ha commentato:
c'è una cosa che non mi condivince di fondo. Che ci siano parole degli antropologi: tradizione identità senso comune. Attraverso le parole si comunica, ci sono gli antropologi, i politici, le persone, quelle persone del cui senso comune noi con un pò di presunzione ci riteniamo esegeti.

E ha continuato Maurizio Palucci:
Angelo ha ragione! Ci manca solo che per usare una parola dobbiamo chiedere il permesso a qualcuno
Con tutta la simpatia per il prof. Clemente il fatto che nessuno conosca l'articolo della Gallini la dice lunga sulla circolazione in ambiti ridottissimi di alcune ricerche e sull'interesse generale su alcune tematiche.

Volevo rispondere direttamente nei commenti, ma mi è uscita una cosa un poco più lunga:
Non è in gioco il "diritto" di usare le parole. E' scontato che ognuno usa quelle che vuole, ci mancherebbe. Il punto è se quelle parole significano qualcosa per chi le dice o sono solo orecchiate e usate perché di moda. Gli antropologi hanno lavorato da decenni sul concetto di cultura, di tradizione e di identità, e hanno quindi imparato che sono parole difficili, dietro cui spesso si nascondono pervicaci questioni di potere. Clemente dice che manca la consapevolezza della rete semantica in cui quelle parole sono imbrigliate, che però continua a funzionare anche se non se ne rendono conto.
Quanto a Clara Gallini, non ha scritto un articolo, ma due libri interi. Eppure, andate a leggere i giornali e guardate a chi hanno chiesto un parere su questa questione: praticamente a tutti tranne che a chi se ne è occupato professionalmente. Questo è l'altro punto del post di Clemente (e leggete quel che dice Bourdieu sul ruolo dell'intellettuale se volete approfondire): il problema è che viviamo in un mondo di opinionisti, per cui se sei esperto in un campo (la botanica nucleare filiforme) ma per qualche ragione diventi noto (hai litigato in tv con Sgarbi), allora verrai interpellato anche sull'arte gotica, sulle tette in silicone e sul ruolo dei sensi unici nei centri storici. Questo è deleterio per il concetto stesso di sapere, che coincide con quello di fama, dal quale dovrebbe invece rimanere ben separato (episteme e doxa, dicevano gli antichi parlando di una questione molto simile). La comunicazione di massa è la principale artefice e vittima di questo meccanismo. Lo si vede anche con la morte di Lévi-Strauss: tutti i giornali ne hanno parlato perché Lévi-Strauss era famoso (per aver litigato con alcuni intellettuali negli anni Settanta), e quindi da famoso era trattato dai giornalisti italiani, non perché il pensiero di Lévi-Strauss fosse in qualche modo conosciuto o ritenuto importante (tant’è vero che l’hanno descritto come “il primo che ha studiato i primitivi” e scemenze del genere). Quando è morto Geertz due anni fa non se l’è cagato nessuno, anche se Geertz aveva cose molto più importanti e attuali da dire di Lévi-Strauss. La sua morte è passata inosservata perché Geertz non era famoso in Italia, non aveva fatto alcuna polemica, non aveva partecipato ai talk show, non era stato processato.
Chiaro che la battaglia per noi sembra persa in partenza: se vogliamo farci sentire sembriamo costretti a entrare nel gioco della fama, per cui non importerà più a nessuno cosa vogliamo dire, e ci limiteremo a essere famosi in quanto noti. Oppure siamo costretti alla marginalità per cui diciamo cose interessanti (a volte, almeno a volta, dai) ma non ci ascolta nessuno perché non siamo famosi (vedi i libri di Chiara Gallini).
La terza opzione è invece quella lenta, quella che più ci compete: poco alla volta, provare a scheggiare il monolite della fama e provare a lasciare un segno sulla struttura culturale: lavorare per una slow culture ecologica mi pare l’unica possibilità, e forse è per questo che rimango ottimista rispetto all’uso dei social network, dove questa dimensione ha ancora spazio.

giovedì 5 novembre 2009

Blasfemi al governo e all'opposizione

Volevo scriverlo io, questo post. Invece ci ha già pensato Pietro Clemente, che fa finta di fare il nonno ma invece è ancora bello pimpante sull'attualità.
E poi non ditemi che noi antropologi non ci occupiamo del presente. Siete voi che continuate a consultare i sociologi e i filosofi...
Il post è perfetto perché coglie il punto che tutti sottovalutano: il Potere è la posta in gioco, non la Tradizione o la Fede. POTER esporre il Crocefisso è in questo momento l'unica cosa che conta per chi si straccia le vesti per una sentenza ragionevole.
Clara Gallini ha scritto nel 2007 il libro Croce e delizia. Usi e abuso di un simbolo, ed. Bollati Boringieri, nel 2009 ha scritto Il ritorno delle croci, ed. Manifestolibri, e anche la voce Crocefisso, in "Antropologia Museale" n.22.
Ha anticipato il dibattito attuale, ma pur avendo pubblicato con editori significativi, è come se nessuno dovesse far riferimento alla sua ricerca.
Ieri se avessi avuto un blog avrei intitolato :
Blasfemi al governo e all'opposizione, infatti sia il Ministro Gelmini, sia il segretario del PD Bersani ci hanno fatto sapere che non si può togliere il Crocefisso dalle scuole perchè è una antica tradizione, e perchè costituisce l'identità italiana, e, ha aggiunto Bersani il diritto è andato contro il senso comune.Tradizione identità senso comune sono parole degli antropologi, quando le usano i politici dovrebbero essere più attenti, Bersani ha equiparato il Crocifisso a Babbo Natale e a Re Carnevale, e la Gelmini alla pizza e alla pastasciutta. Mi sembra che più blasfemi di così non si possa essere. Per negare che il Crocefisso è un simbolo della fede cristiana, che però si usa esporre nei luoghi istituzionalmente laici solo nel cattolicissmo mondo d'Italia, e che quindi privilegia una religione sulle altre, lo si fa diventare un simbolo generico. Cosa c'è di più contrario al senso comune del crocifisso? Nella narrazione cristiana la crocifissione è stato un sacrificio straordinario per il bene degli uomini, come è possibile ridurlo al senso comune, all'identità e alla tradizione.
Direi che chi rispetta quel simbolo sente che c'è sotto una questione di potere, di voti, di paura della laicità.
Leggete per piacere e fate leggere gli scritti di Clara Gallini
pietro

mercoledì 4 novembre 2009

Pensieri de-strutturati sulla morte di Claude Lévi-Strauss


Non lo sentivo da mesi, il mio amico ed ex allievo Elia Romanelli. Ma ieri mi ha chiamato per la morte di Lévi-Strauss, gli è sembrato un gesto necessario, sono stato il primo a insegnargli un po' di antropologia e Lévi-Strauss era morto, come se tra le due cose vi fosse un legame necessario ed evidente.
Non ho saputo dirgli nulla di sensato, gli ho chiesto invece di lui, del suo lavoro di regista, e gli ho raccontato delle mie ricerche, di come va la famiglia. Poi ho pensato che avrei voluto dirgli questo.
Dovrei dire qualcosa, ma non riesco a organizzare un discorso anche solo abbozzato.
Era l’antropologo più famoso al mondo, in Italia forse l’unico antropologo famoso (a parte Augé divenuto di moda più come tuttologo, mi pare), comunque l’unico antropologo che faceva debolmente luccicare l’occhio dei giornalisti delle redazioni culturali. Per me ha significato l’antropologia tout court fino alla fine degli anni Ottanta, quando ho scoperto Geertz.
Per me ha significato l’effimera illusione che “formale” coincidesse con “scientifico”.
Per me è stato l’ultimo antropologo dell’Ottocento (sua definizione) a morire curiosamente nel Terzo Millennio.
Per me è stato la verginità intellettuale, la convinzione che si potesse studiare l’Altro senza farsene sostanzialmente intaccare, ma limitandosi ad osservarlo come un insetto in formalina.
Ci ha illuso che l’antropologia potesse essere una disciplina “semplice” come l’intendeva lui, fatta di prescrizioni operative, di cose da scegliere e combinare. Ci ha illuso che la conoscenza fosse un esercizio solitario, e non un processo relazionale.
Uno dei cervelli più acuminati del Novecento, terrorizzato dal lavoro che avrebbe dovuto fare, direi. Di lui ricordo un ricordo di un amico francese, che nei primi anni Novanta ancora lo vedeva zoppicare nella biblioteca dell’Ecole. Ricordo il ricordo di Sperber, che non frequentò i suoi corsi per protesta, per poi pentirsene. E allora ricordo il ricordo/citazione di Clifford, mi pare da New York pre e post-figurativa: l’indiano con le penne in testa e la penna Parker per prendere appunti nella biblioteca di New York durante la seconda guerra mondiale, che lui, collezionista di stampe di ritratti di pellirosse, aveva frainteso come una sopravvivenza di un passato in via di sparizione, mentre era il vivissimo prodromo di un mondo meticcio di là da venire ma di cui, se avesse avuto un po’ meno paura dei suoi oggetti di studio, avrebbe dovuto cogliere i vagiti.
Per tutti, è stato il punto fermo delle nostre critiche degli ultimi trent’anni. Non siamo post-strutturalisti, siamo post-lévistraussiani, perché è sostanzialmente contro di lui che abbiamo scritto, almeno dal 1986 in avanti.
Io ero stregato dalle strutture, dall’operatore totemico che sembrava un diamante, e poi ho letto “Il cristallo e la fiamma” di Calvino, e assieme alla lettura di Geertz quel diamante mi si è sbriciolato in mano.
Mi è rimasto il gioco euristico di sparare opposizioni quando non capisco una cosa che cerco di studiare, e spesso mi vengono fuori associazioni che funzionano e mi fanno capire meglio.
Mi è rimasta tutta la mia distanza per il suo sguardo da lontano, che non capisco più, che trovo orrendamente disinteressato agli uomini vivi. Mi è rimasto lo sbigottimento per il suo elogio dell’etnocentrismo con la sua visione delle culture come vagoni di treni separati, e tutta la distanza che voglio mettere tra quell’immagine e la mia concezione delle culture e del modo di studiarle.
Mi è rimasta la voglia intellettuale di uccidere il Buddha, ogni volta che l’incontro, che è quello che spero di insegnare ai miei studenti.

mercoledì 28 ottobre 2009

Viaggio in Pakistan per capire gli italiani

Avevo voglia di scriverlo comunque, ma visto che qualcuno me l’ha chiesto esplicitamente, vorrei tornare su una questione che ho sollevato nel mio post precedente, vale a dire lo strano caso del puttaniere di destra che ottiene ancora più consensi quando si viene a sapere che è un puttaniere (per questo sono convinto che in realtà Repubblica sia di proprietà di Berlusconi) e del puttaniere di sinistra che invece si sgretola non appena gli fanno tana.
Per capire la ragione di questa divergenza di conseguenze per un comportamento in buona sostanza simile, forse è il caso di fare un po’ di antropologia comparativa. Come fanno sempre gli antropologi, faremo un giro lungo. Andiamo in Pakistan, a Nord, nella regione dello Swat, e facciamo la conoscenza con i Pathan, che in Afghanistan sono noti come Pashtun e che oggi sono nell’occhio del ciclone militare per le conseguenze del loro appoggio alla guerriglia talebana, anzi, per il fatto che è tra i Pathan che prosperano i talebani, e lo Swat è di fatto una provincia pachistana indipendente retta dai talebani. Ma non voglio parlare di questa dimensione politica recente dei Pathan (chi fosse interessato trova qui un’utile intervista sul tema). Mi importa invece tornare ai vecchi Pathan che gli antropologi hanno scoperto alla fine degli anni Cinquanta, quando Fredrik Barth scrisse una monografia sulla loro organizzazione politica. Ancora più famosi, forse, i Pathan divennero circa un decennio dopo, quando Barth comparò l’organizzazione politica dei Pathan con quella di alcuni loro vicini, i Baluch, per dimostrare che, senza che questo suscitasse un particolare scandalo, un Pathan poteva diventare Baluch nel corso della sua vita (il movimento opposto era assai più difficile, come vedremo) dando così un colpo mortale a tutte le teorie naturaliste dell’appartenenza etnica. Avvicinandomi alla domanda da cui siamo partiti, io sostengo che in Italia ci sono Pathan e Baluch, e che sempre di più sono i Pathan che diventano Baluch, e questo spiega come mai Berlusconi è sugli scudi e Marrazzo è nella polvere. Per anticipare il mio argomento, Berlusconi è percepito come un sardan, vale a dire un capo Baluch, mentre Marrazzo era visto come un khan, un capo Pathan. Ecco come stanno le cose.
I Pathan e i Baluch sono difficilmente distinguibili se uno si sofferma sui tratti “etnici” o “culturali”: entrambi i gruppi parlano sostanzialmente le stesse lingue (in un’area comunemente plurilingue), sono rigidamente patrilineari (si è parenti solo attraverso la linea maschile) e considerano loro qualità peculiari il rispetto dell’ospitalità e la protezione (vale a dire segregazione) delle donne, pratiche culturali che garantiscono il loro onore di uomini. C’è però una caratteristica che li distingue, ed è la forma dell’organizzazione politica. I Pathan si organizzano attorno ai khan, che sono dei capi considerati quasi primi tra pari, personaggi cui ci si lega in un rapporto di reciproca considerazione e senza un particolare spirito di sottomissione. Un khan può chiedere l’appoggio degli Pathan che a lui fanno riferimento, ma sa che dovrà comunque ricambiare quest’appoggio politico con una serie di favori e garanzie per i suoi accoliti, che infatti continuano a farsi vanto della loro indipendenza individuale partecipando alla jirga, l’assemblea degli uomini. I Baluch, invece, si aggregano politicamente attorno ai sardan, che sono più vicini alla figura del patrono che non a quella del principe leader. I sardan acquisiscono potere dal numero di clientes che riescono a raccogliere, e quindi sono ben disposti ad acquisire nuovi arrivi, mentre un kahn Pathan, proprio perché sa che il suo entourage è molto oneroso in termini di richieste da soddisfare e piuttosto riottoso, tende a restringere il più possibile il numero di coloro con cui si allea. Come conseguenza, un Pathan che abbia bisogno di protezione politica e che non riesca a trovare un khan disposto ad allearsi con lui potrà rivolgersi a un sardan Baluch, entrando nella sua cerchia come cliente. Con questa semplice mossa politica, però, il Pathan cesserà di essere tale e inizierà ad essere riconosciuto come Baluch: non partecipando più alla jirga pathan, e soprattutto avendo rinunciato simbolicamente alla sua indipendenza mettendosi al servizio di un sardan, l’uomo in questione cessa ipso facto di essere considerato Pathan, e diventa Baluch.
Bene, sono sempre più convinto che, al di là dell’opposizione tra destra e sinistra, quel che ha dominato la politica italiana nel secondo dopoguerra e in modo determinante negli ultimi quindici anni è stata proprio l’opposizione tra il partito Pathan e il partito Baluch. Da un lato uomini (e donne, ovviamente) convinti che la politica sia una questione di partecipazione, dall’altro la convinzione invece che la politica sia una questione di delega. Per i Pathan nostrani quel che conta veramente è trovare un capo in grado di incarnare un’idea di libertà e dal quale ottenere una forma di organizzazione del lavoro collettivo, mentre i Baluch hanno sempre cercato qualcuno che gli risolvesse le cose, che si facesse carico dei loro problemi, che li aiutasse a non avere troppi pensieri. Se i capi di questi Pathan italiani spesso hanno peccato di orgoglio e della convinzione di “essere migliori”, i capi Baluch si caratterizzano per il loro paternalismo, per la condiscendenza con cui guardano ai difetti morali dei loro “fratelli inferiori”. Specularmente, i cittadini Pathan si aspettano dal loro capo lo stesso comportamento che pretendono da se stessi, mentre gli italiani Baluch praticano quel che io chiamo il “figliolismo”, il converso del paternalismo, per cui pretendono che il loro capo sia “più” di loro sotto tutti gli aspetti (più ricco, più potente, più bello) altrimenti verrebbe meno la sua figura di protettore paterno cui affidarsi totalmente.
Questo spiega le diverse sorti di Marrazzo e Berlusconi di fronte alla messa in scena delle loro esuberanze erotiche. Marrazzo è (anzi, era) concepito da chi l’ha votato come “uno di noi”, e “uno di noi” non va a trans, su. Invece Berlusconi è concepito dai suoi elettori come un essere di fatto superiore nel senso che abbiamo indicato, e un essere superiore, ovviamente, scopa tutte le donne che vede. Quindi, mentre il priapismo di Berlusconi ha confermato presso il suo elettorato il suo ruolo di sardan Baluch, di capo cioè in grado di prendersi cura del suo gregge, Marrazzo col trans ha messo in luce agli occhi inorriditi dell’elettorato un potere che pretende impunità (vado col trans e ci vado con la macchina blu) e questo potere senza responsabilità non si addice a un kahn Pathan, che invece deve essere “solo” uno come noi, vale a dire come noi ci rappresentiamo, quindi onesto, coerente, sempre pronto a metterci la faccia e mai incline all’inguacchio. Negando il suo ruolo presso quelli che l’avevano messo lì, Marrazzo si è giocato tutta la carriera politica.
Per provare a dire qualcosa di più generale da questo triste apologo, mi pare evidente che negli ultimi anni c’è stato un progressivo travaso di Pathan verso i Baluch, vale a dire di italiani che hanno smesso di credere che il loro capo dovesse essere un loro pari, e che hanno iniziato ad ammirare un capo di gran lunga superiore alla loro quotidiana mediocrità, ma ho il forte sospetto che, non avendo fatto alcuna rivoluzione popolare che li abbia forgiati come tali, i cittadini del nostro paese siano sempre stati, in maggioranza, dei Baluch.
Con l’aggravante che l’agguerrita minoranza Pathan, invece di fare i conti con questo fatto squisitamente politico e di approntare le mosse culturali che potrebbero un giorno farla diventare maggioranza, ha preso da diverso tempo ad accusare i Baluch del loro paese di non essere “veramente” italiani, di essere insomma qualcosa di cui un vero italiano (che non può che essere un Pathan, in quest’ottica) non può che vergognarsi e non può che rifuggire.
La triste morale di questa storia è che il paese reale (che è uno spazio geografico dove legittimamente convivono Pathan e Baluch) è quindi fratturato tra una maggioranza che accetta serenamente che la politica sia delegare al capo-padre le questioni importanti (tanto ci penserà lui, finalmente) e un’amareggiata minoranza che accusa la maggioranza di non far parte del paese.
Io, è appena il caso di chiarirlo, mi sento un Pathan, ma credo che i Baluch che votano il loro sardan Berlusconi siano italiani quanto me, non marziani venuti dallo spazio, o da Arcore, e vorrei che questo paese costruisse una sua fiera anima Pathan senza bisogno di demonizzare i Baluch. Viceversa, vorrei che il capo dei Baluch, ossessionato dal consenso e dai sondaggi, si rendesse conto una volta per tutte che può essere un buon capo-padre dei suoi senza per questo che i Pathan che gli si oppongono siano tutti una massa di gente in malafede: più semplicemente, si tratta di persone che hanno una concezione della politica molto diversa (e un filo più nobile, direi) della sua.

lunedì 26 ottobre 2009

Vita privata e politica 2.0


Al di là delle considerazioni specifiche (per esempio, qualcuno si è accorto che andare a puttane da destra porta ulteriori consensi, mentre andarci da sinistra porta alla fine della carriera politica? Qualcosa vorrà pur dire, sulla differenza antropologica tra queste due anime del paese, no?) non mi pare si sia ancora discussa la rilevanza del dato tecnico cui stiamo assistendo. Che si tratti del “lettone di Putin” o di quel che Natalie faceva con Marrazzo, il punto è che nessuno di questi scandali sarebbe potuto accadere in questa forma solo cinque anni fa, perché non c'erano le condizioni tecnologiche. Solo le spie di professione andavano in giro con registratori o telecamere miniaturizzati (ricordate James Bond che negli anni Sessanta e Settanta - ma anche Ottanta e Novanta - faceva foto o riprese con telecamere nascoste negli occhiali, o in una penna?) e quindi l’atto “imbarazzante”, lo scandalo aveva spesso rara documentazione. Ora praticamente tutti siamo in grado di documentare le piastrelle dei cessi e le strisciate di coca, la lanugine sotto il letto e il rumore dei peti notturni. Siamo tutti sputtanabili perché abbiamo tutti la tecnologia per sputtanare.
Naturalmente, i mass media hanno da molto tempo “trasformato la visibilità” come dice John B. Thompson, e il rapporto tra visibilità e politica ne ha pagato immediatamente le conseguenze. Prima dei media (vale a dire prima della stampa da un lato, che ha consentito la condivisione di eventi altrimenti invisibili; e prima della tele-visione che ha reso visibili anche gli eventi condivisi da lontano, che i giornali potevano solo raccontare) il potere era sostanzialmente invisibile, e i potenti “solo di fronte alla cerchia relativamente ristretta dell’assemblea e della corte erano costretti a controllare il loro modo di apparire” (John B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, il Mulino, 1998, p. 169. Ed. or. 1995). Il pubblico senza luogo della stampa e poi della televisione modifica alla radice il rapporto tra potere e visibilità: “Quando i re, i principi o i signori si mostravano ai propri sudditi, lo facevano per affermare pubblicamente (visibilmente) il loro potere, non per rendere pubblici (visibili) i fondamenti delle loro decisioni politiche” (p. 175), e si guardavano (!) bene dal rendere visibili gli arcana imperii, che tali dovevano rimanere.
Possiamo ripensare alla storia della televisione (intesa come tele-visione, visione a distanza, non come tele-visore, apparecchio unico che la consente) come alla storia del controllo della visibilità, con una progressiva erosione del potere da parte della tele-visione. Pensate alla lottizzazione della Rai come a un disperato tentativo di controllare l'allora unica fonte di tele-visione, vale a dire i tele-visori, che ha preso la sua forma compiuta (alla fine degli anni Settanta, un pezzo alla DC, uno a PSI e uno al PCI, “bocón a mi, bocón a ti, bocón al can, aaahm!” dicevano dalle mie parti per far mangiare i bimbi) proprio mentre la tecnologia cominciava a rendere la tele-visione disponibile fuori dai tele-visori di stato, prima come televisioni private, poi come prossimo-visioni di Vhs, e poi ancora come tele-visioni della Rete. In questo passaggio, il potere ha compreso solo limitatamente che esporsi non era solo un modo per ottenere consenso, e ha invece ceduto al narcisismo più sfrenato, ribaltando l’idea del Panopticon rielaborata da Foucault: la visibilità assoluta non è dei molti sottomessi, oggetto dello sguardo del potere, ma è invece dei pochi potenti, di coloro che riescono ad essere sempre visibili.
Il problema è che i potenti si illudono sempre (i nostri sono tutti cresciuti nell’epoca della tele-visione confinata nel tele-visore) di poter controllare quella visibilità con qualche CdA Rai, mentre dovrebbe essere evidente da tempo che di quella costante, pervasiva tele-visione nessuno è più veramente in grado di tenere a bada le tracimazioni:
Le gaffe e l’eccesso, l’intervento a un programma televisivo che fallisce il suo scopo, la fuga di notizie e lo scandalo: tali situazioni dimostrano tutte che, a prescindere dalle energie investite, gli individui non sono in grado di controllare completamente la loro visibilità attraverso i media, e che dunque nulla li protegge dai nuovi rischi prodotti dalla natura a doppio taglio della visibilità mediata. Una delle ragioni che spiega tale impotenza è la vera e propria proliferazione dei mezzi di produzione e trasmissione dei messaggi mediati che caratterizza il mondo di oggi (sempre Thompson, p. 206).
Si noti che Thompson scriveva queste pagine nel 1995, vale a dire quando su internet molti di noi andavano a 144 kb, e molto prima del 2.0 inteso come autoproduzione mediatica. Lui parlava delle videocamere (avete presente i cassoni a spalla di quegli anni?) ma aveva certamente già intuito la direzione in cui stavamo andando. L’integrazione mediatica è tale che a me è venuto in mente un paio di volte di registrare contesti potenzialmente dannosi per me utilizzando il mio lettore mp3, che infatti è anche un ottimo registratore, e anche se non l’ho fatto resta la potenziale disponibilità del mezzo tecnologico.
La politica è entrata in una fase completamente nuova, e Marrazzo e Berlusconi (o il leghista Salvini cioccato mentre cantava cori anti-terroni in qualche festa padana e di fatto costretto a dimettersi dalla carica di assessore a Milano) sono solo gli avamposti di un processo che ci sta travolgendo tutti, di cui è difficile prevedere gli sviluppi ma che deve renderci consapevoli che siamo entrati in un modo completamente nuovo di gestire la cosa pubblica e il nostro rapporto con i suoi amministratori, un modo che francamente non mi piace per nulla, dato che le attuali condizioni di visibilità assoluta di tutti da parte di tutti
…è anche possibile che preparino il terreno per la nascita di un nuovo tipo di demagogia: la repentina ascesa al potere di un personaggio apparentemente non toccato né dagli scandali né dai loschi affari dei politici di professione e delle loro clientele, e il cui fascino trae nutrimento, in parte, dal generale malcontento e senso di sfiducia (p. 207).
Aspettiamoci quindi dimissioni per flatulenze rumorose, linciaggi pubblici per oltraggi alla madre del genere umano, scomuniche per bestemmie sommesse ma comunque documentate. Chiunque abbia un pezzo qualunque di potere pensi alla sua vita come una costante messa in scena, a un visibilio senza tregua, a un’esposizione all’incrocio dei venti. Forse il pensiero farà ritrarre i più impresentabili, ma non allontanerà di certo i vanitosi. Per tutti, comunque deve valere una regola aurea, che Berlusconi, Marrazzo e Salvini non hanno evidentemente ancora imparato: "Lo vogliano o no, i leader politici di oggi devono essere pronti ad adeguare le loro attività a un tipo di visibilità del tutto nuovo e di dimensioni incomparabili. Se la ignorano, lo fanno a loro rischio e pericolo" (pp. 169-170).

lunedì 19 ottobre 2009

Leggere per credere

L'antropologia italiana è meno noiosa di quanto potreste pensare. Intanto c'è da registrare che la proposta ministeriale di fare sparire la figura dell'antropologo culturale dalle qualifiche dirigenziali sta scatenando un putiferio da parte di tutti i settori dell'antropologia: università, associazioni e musei, per una volta uniti, stanno bombardando il Mibac di lettere in cui contestano l'assurdità di questa ipotesi di assorbimento degli antropologi da parte degli storici dell'arte. Anzi, vi invito a firmare la petizione online, sperando di essere veramente in tanti.
Ma la cosa bella, per me, è che comincia ad emergere il valore profondamente politico della nostra disciplina, il che dovrebbe (il condizionale è d'obbligo visti i tempi e vista la callosità della categoria) attrarre l'attenzione del mondo giornalistico.
Riporto una lettera bellissima, che riassume la rabbia della frustrazione che viviamo incastonandola dentro la rilevanza contemporanea della nostra disciplina. Fabio Mugnaini è uno che si incazza, ma come potete vedere si incazza con una precisione da far invidia. Leggete, soprattutto se non siete antropologi, per capire quanto vale quello che facciamo. (Il fatto che la lettera sia rivolta al "Signor Lerner" per me è il segno più commovente di quanto siamo proprio fuori dai giochi della comunicazione "che conta"). Insomma, se sei un giornalista e leggi qui sotto, non fare finta di non aver capito cosa TI stiamo chiedendo!
NB: Le enfasi nel testo che segue sono mie, pv

Signor Lerner,
buongiorno, non so se sia questo l'indirizzo giusto, ma provo, così come ho fatto in altri casi, a farle pervenire il rumore di una tempesta che sta montando in un settore della formazione scientifica e della politica culturale del nostro paese. Non sarà questione con cui riempire piazze, o prime pagine di giornali, ma non è irrilevante né senza effetti durevoli.
L'antropologia è uno dei settori della formazione universitaria cui il nostro paese dovrebbe attingere per comprendere e gestire i fenomeni più scottanti su cui si agitano politici e si inquietano i cittadini. Dalle questioni del multiculturalismo, alla vocazione multietnica della nazione italiana, al peso dei dialetti e delle culture locali nella formazione di base, al ripristino di corretti rapporti politico economici con i paesi in via di sviluppo, alla necessità di politiche della riproduzione assistita e di tutela alle varie forme di famiglia, ai rapporti tra medicina, salute e benessere individuale o sociale, ai patrimoni culturali costituiti dalle tradizioni popolari: non sto facendo un elenco a vanvera, sto solo citando a memoria alcuni dei programmi d'esame, degli argomenti di tesi di laurea e di dottorato, e di libri e saggi prodotti dagli antropologi "maturi", di cui si sostanzia un settore delle scienze sociali che dovrebbe godere in questo momento storico di sostegni e di considerazione adeguati al carattere di "urgenza" della questioni che lo sostanziano. Ed invece, come spesso succede, in un tempo di tagli come questo, i segnali vanno in direzione contraria.
Richiamo la sua attenzione solo su tre fatti, distanziati nel tempo, ma sulla stessa linea.
1) Non ancora due anni fa, il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari - vetusta istituzione vivacizzata negli ultimi decenni da un team di funzionari antropologicamente formati, che sosteneva una direzione affidata a un funzionario ministeriale storico dell'arte, viene trasformato in Istituto Centrale per la Demo-etnoantropologia; operazione da grandeur istituzionale che, però, per garantire la continuità alla direttrice, consegna a norma di statuto, la direzione dell'Istituto (vago sentore coloniale) ad uno "storico dell'arte". Come a dire che chiunque volesse in futuro aspirare a dirigere un istituto che gestirà fondi e iniziative di ricerca in materia di etno-antropologia, dovrà sapere di tutt'altro e potrà anche essere ignorante in materia di museologia, di storia delle tradizioni popolari, di antropologie regionali, tematiche, ecc..
2) Qualche mese fa comincia a circolare una bozza dei nuovi licei promessi o sognati dal ministro Gelmini; ce n'è uno che fa riferimento alle scienze sociali e nel nostro panorama di materie umanistiche fermo alla riforma Gentile o quasi, entrano due materie: scienze sociali e scienze sociali e metodologie della ricerca sociale; se si va a vedere quali sono le competenze che si richiedono ai futuri insegnanti, si scopre che la bozza identifica solamente filosofi e pedagogisti, come se nel nostro paese l'antropologia e la sociologia non fossero conosciute né insegnate. I nostri studenti, che intravedono nello sbocco dell'insegnamento pubblico un fine - e non solamente una sistemazione - altrettanto gratificante degli orizzonti alternativi della ricerca e dell'intervento nella cooperazione e nelle politiche sociali, si preoccupano ma la bozza scompare nelle sabbie mobili dei lavori preparatori del decreto che non arriva, e quindi tutto torna a tacere.
3) Di pochi giorni fa, invece, la notizia che il Ministero dei Beni culturali, che da anni ha aggiunto i beni "demo-etnoantropologici" al patrimonio dei beni culturali da tutelare, sta proponendo ai propri addetti una bozza di riorganizzazione interna, dove, per risparmiare su qualche profilo, si propone che le figure dei "funzionari storici dell'arte" e dei "funzionari demo-etnoantropologi" confluiscano in una unica categoria, che si chiama, ovviamente, " funzionario storico dell'arte". Ovvero sarà di nuovo un esperto di grafica o di preraffaelliti a dover decidere di politiche di tutela di musei del lavoro e della cultura locale, di patrimoni di musica popolare, di teatro popolare, di biografie e archivi di storie di vita, di musei dell'emigrazione, di mercati, di processioni e rituali da documentare e tutelare anche dalle storpiature di una industria aggressiva come quella del turismo...
Gli operatori delle centinaia di musei della cultura popolare attivi (e non solo aperti) nel nostro paese, vedono mortificata una professionalità desiderata, coltivata e ampiamente convalidata anche alla luce della comparazione con esperienze internazionali. Se la bozza diventa norma e se l'esempio centrale si diffonde nelle periferie, nessuno spazio di lavoro istituzionalmente riconoscoiuto sarà disponibile per gli antropologi; mentre gli storici dell'arte - in buona parte nobilmente schierati con noi e contro questa assurda equiparazione - si vedranno mortificati in una supplenza non sostenuta da competenze scientifiche e professionali.
In questo momento la bozza non è ancora stata adottata formalmente, ma i nostri studenti sono particolarmente allarmati - e gran parte della comunità di studiosi con loro - perché vedono in questo un temibilissimo precedente per la cancellazione di qualunque progresso nel riconoscimento pubblico di una professione che è premiata in modo inversamente proporzionale alla sua utilità.
Dagli studenti dei nostri corsi di laurea (diverse decine in tutta Italia), dai pochi dottorati di ricerca sopravvissuti ai tagli ed a creative mutazioni epistemologiche, dalla prima Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici che è stata varata lo scorso anno a Perugia, con il viatico e la tutela del Ministero e della direttrice dell'Istituto Centrale per la demoetnoantropologia, stanno giungendo lettere e documenti che troveranno molte difficoltà a penetrare la parete della stampa.
Io mi auguro che questo suo spazio di forum pubblico possa almeno dare la notizia di quanto sta succedendo: il governo che d'estate blatera di competenze in materie di culture locali, dialetti e tradizioni come "requisito" per l'accesso alla docenza nelle scuole pubbliche, il governo che affida ad un ministero specifico la promozione del turismo alimentato in larga parte dai patrimoni della cultura locale popolare, feste, cibo e musica in primo luogo, è poi lo stesso che autorizza il suo ministro per i Beni culturali ad assumere decisioni che strangolano l'unico settore in cui ricerca universitaria, formazione universitaria, politiche locali, industria della cultura e del turismo sostenibile, avrebbero potuto e dovuto confluire sinergicamente, come altri amerebbero dire. Spero anche che si possa dire come a me e a molti di noi, docenti e studenti del settore antropologico, appare chiaramente che tutti i mancati riconoscimenti, o i disconoscimenti sostanziali come quelli che ho elencato sopra, sono motivati dal fatto che l'antropologia italiana si è qualificata come una disciplina che produce un sapere critico, sempre più frontalmente opposto a politiche sociali e culturali di segno autoritario, razzista, neonazionalista e volgarmente mercantilista, e che anche quando da antropologi, ci si occupa di temi apparentemente neutrali come la ricetta della ribollita, non si può tacere il fatto che la conoscenza delle culture dei nostri "altri", sia che vengono da lontano sia che vengano dal nostro passato recente, semina dubbi e alimenta alternative alla deriva che ci viene proposta come futuro.
Se crede di poter sintetizzare quanto esposto, ne faccia l'uso che crede; se vuole approfondire il tema posso mandarle in copia i testi dei documenti che stanno partendo per il Ministero e alcuni link ai siti di associazioni di settore: non lo faccio adesso per non riempire una cassetta di posta di cui ho già ampiamente abusato.
La ringrazio, intanto, per l'attenzione
Fabio Mugnaini
Corso di Laurea Specialistica in
Antropologia Culturale ed Etnologia dell'Università di Siena

giovedì 15 ottobre 2009

Demoché?

Pare che così (Demoché?) abbia risposto l’allora onorevole (forse era ministro, non so, non sono mai riuscito a seguirne le gesta) Vittorio Sgarbi quando gli chiesero qualcosa a proposito delle sorti della demoetnoantropologia. Ora, son d’accordo, il nome è orrendo, se non assurdo, ma è un retaggio di un’epoca in cui toccava trovare equilibri con il bilancino e la tripartizione demo- etno- antro- era necessaria per evitare affossamenti di cattedre. Ora, che con la ex riforma le cattedre non esistono più (non dovrebbero esistere più, diciamo) si potrebbe soprassedere e ammettere che stiamo parlando dell’antropologia culturale italiana, e del lavoro degli antropologi culturali in Italia.
Ho già raccontato qui le curiose vicende dell’ICDE, l’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (volevo mettere un link al sito, ma viene fuori questo), inopinatamente affidato da regolamento alla direzione di uno storico dell’arte, e su Facebook avevamo fatto un po’ di casino fino a vincere quella battaglia.
Pensavamo che la soppressione della figura del funzionario antropologo allora fosse stata una questione ad personam, ma evidentemente ci sbagliavamo.
Il Ministero dei Beni Culturali (Mibac) ha siglato un accordo di intesa con i sindacati per razionalizzare i suoi profili professionali. È successo che per la terza area (non chiedetemi di preciso cosa sia, ma ha a che fare con la funzione di “capo”) sono stati individuati i seguenti profili:

1. FUNZIONARIO ARCHEOLOGO
2. FUNZIONARIO ARCHITETTO
3. FUNZIONARIO ARCHIVISTA
4. FUNZIONARIO BIBLIOTECARIO
5. FUNZIONARIO INGEGNERE
6. FUNZIONARIO STORICO DELL’ARTE
7. FUNZIONARIO RESTAURATORE
8. FUNZIONARIO INFORMATICO
9. FUNZIONARIO DIAGNOSTA
10. FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO
11. FUNZIONARIO PER LE TECNOLOGIE
12. FUNZIONARIO COMUNICATORE E PER LA DIDATTICA
13. FUNZIONARIO SCIENTIFICO

Oibò! dentro il Ministero per i Beni e le Attività Culturali NON c’è posto per gli antropologi culturali, mentre ce ne sarà per gli ingegneri, gli architetti e i funzionari scientifici! Che cervelloni al Ministero! Come se al ministero per la Difesa ci fossero Funzionari Pizzaioli (del resto anche i soldati mangiano pizza) ma non ci fosse il Funzionario Militare.
In pratica, i vecchi “profili” esistenti sono stati convertiti in “funzionario x”, tranne che il vecchio profilo di demoetnoantropologo che è stato letteralmente assorbito da quello di “funzionario storico dell’arte”.
La situazione è tanto più paradossale in quanto proprio un anno fa era partita la prima Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, che sarebbe dovuta servire proprio per formare quella figura di “funzionario antropologo” che invece non è mai stata fatta nascere, cannibalizzata dagli storici dell’arte.
Eppure, così, a spanne, tutti dovrebbero aver chiara la differenza tra un bene artistico e un bene culturale, tra un quadro e una festa religiosa, tra una statua e una processione, tra un mosaico e una filastrocca, tra un coro gregoriano e un canto popolare, tra un arazzo e un vestito tradizionale. Niente, non riesce proprio a entrargli in testa, a quelli del Ministero, che i beni artistici sono una cosa (e hanno bisogno di storici dell’arte) e i beni culturali sono un’altra (e hanno bisogno di antropologi).
Potete immaginare come si sentano gli antropologi in generale e in particolare gli studenti della Scuola di Specializzazione di Perugia, che infatti hanno scritto una lettera aperta al Ministro che pubblico volentieri, come piccolo segno della mia solidarietà nei loro confronti. Poco più di un anno fa avevo consigliato a una mia brava laureata di iscriversi alla Scuola, che sapevo seria e che vedevo un’ottima opportunità di formazione per una figura amministrativa emergente. Ecco, forse sono io che proprio porto sfiga, o forse al Ministero qualche solerte funzionario che stila i regolamenti e le bozze di accordo sindacale deve essere stato bocciato più volte all’esame di antropologia culturale, per avercela così tanto e così insensatamente con noi.
Forza ragazzi. Io dico che è una scemenza, e come quella dell’ICDE dovrà rientrare. In cambio, sarebbe ora che pensassimo a cambiare nome ufficiale, lasciando alla storia lo scioglilingua demoetnoantropologi e accettando di chiamarci come ci chiamano tutti: antropologi culturali.

Roma, 13 ottobre 2009
Lettera aperta al Ministro per i Beni e la Attività Culturali Sen. Sandro Bondi
Chi Le scrive sono i ventidue iscritti alla Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici istituita dall’Università degli Studi di Perugia nell’anno accademico 2008/2009 in collaborazione con le Università di Siena e di Firenze sulla base di un decreto del Ministero dell’Università (Decreto Ministeriale 31 gennaio 2006 "Riassetto delle Scuole di specializzazione nel settore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale"). La Scuola, la prima in Italia, oltre a rappresentare un percorso di altra formazione è stata attivata nella prospettiva di un inserimento degli antropologi specialisti del patrimonio nel campo della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale demoetnoantropologico al quale fa riferimento il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, un documento molto ispirato dall’antropologia culturale sui temi delle identità, della pluralità dei soggetti e del ruolo delle popolazioni nella definizione del patrimonio e del paesaggio).
Abbiamo studiato per un anno, svolgendo attività di laboratorio, ricerche e tirocini su temi che vanno dalla musica popolare all’expografia, dalla legislazione al management dei beni culturali. Abbiamo elaborato dossier di ricerca, riflettuto sul dibattito internazionale che si è sviluppato attorno al tema del patrimonio culturale, incontrato Soprintendenti, e abbiamo avuto netta la percezione del fatto che ci sia bisogno nelle regioni, nei comuni, nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali delle competenze per le quali ci stiamo formando.
Competenze quanto mai specifiche e preziose perché legate alla vita della gente, alla varietà delle culture ancora viva nell’Italia moderna, adeguate e fruttuose nello studio delle nuove migrazioni, che rivestono una forte utilità sociale sul piano dell’integrazione, e infine che possono favorire nuovi modi di fruizione del territorio.
Nessuno di noi è giovanissimo. Molti hanno alle spalle un curriculum di studi molto ricco, fatto di dottorati di ricerca e di master. Alcuni hanno già fatto esperienze di musei, di attività culturale nella società civile e nel servizio pubblico. Se ci siamo iscritti a questo corso è perché pensavamo che lo Stato avesse bisogno del sapere di cui siamo portatori e soprattutto del nostro lavoro. I nostri docenti, e anche la direttrice dell’Istituto Centrale per le Demoetnoantropologia, ci hanno ricordato che rappresentiamo una esperienza nuova e avanzata di tutela del patrimonio, originale anche rispetto agli altri paesi dell’Occidente. Nelle lezioni è stato evidenziato inoltre il ruolo nuovo dell’UNESCO e dei patrimoni immateriali, temi sui quali è anche nata una nuova legislazione regionale (aperta dalla Regione Lombardia).
Non c’era dunque motivo di credere che la professionalità dei demoetnantropologi potesse essere messa in forse: a noi sembrava confermata dalle realtà del territorio, dotata di forte spessore nel passato, di competenze plurali legate anche ai temi del turismo e della pluralità culturale, al nuovo ruolo educativo dei musei. Malgrado la continua svalutazione al quale il nostro profilo scientifico è sottoposto, rimaniamo fermi nella convinzione che ci sia effettiva domanda sociale del nostro lavoro, che l’antropologo possa svolgere un ruolo determinante all’interno delle dinamiche e delle problematiche della società contemporanea (come nel caso della mediazione culturale).
Ciononostante leggiamo ora, all’interno di documenti ancora non del tutto deliberati presso il MIBAC, che una parte dell’amministrazione pubblica (che consideravamo il nostro punto di riferimento e la nostra potenziale casa futura), è in procinto di annullare questa evidenza e sovverte, con un gesto di pesante dequalificazione, la prospettiva di nuova professionalità in futura disoccupazione. A seguito di una formazione specifica, accademicamente valida tanto quella degli storici dell’arte e degli archeologi, a noi sarebbero ancora una volta preclusi campi di occupazione a loro lasciati aperti, ma di cui siamo noi a detenere competenze e professionalità.
Con la presente desideriamo, quindi, testimoniarLe le ragioni per cui siamo convinti che il nostro profilo demoetnoantropologico non può essere abolito, né collocato sotto l’egida della storia dell’arte e ribadire le motivazioni per cui l’Italia, lo Stato e il Ministero hanno bisogno di noi.
Consapevoli del forte spirito di servizio con il quale partecipiamo al corso di specializzazione (a costo di pesanti sacrifici in denaro, tempo e spostamenti da tutta l’Italia) possiamo rendere evidente anche grazie a questo anno di ricerche in varie parti del territorio nazionale, l’errore che si rischia di fare. A danno del Paese, e non solo nostro.
Chiediamo dunque che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali si adoperi per il definitivo annullamento della ingiusta riorganizzazione che cancella il nostro profilo professionale dall’organigramma del MIBAC accorpandolo a quello degli storici dell’arte.

giovedì 8 ottobre 2009

Il poeta rivale (Poesia di Billy Collins)




Non tutti siamo poeti, ma tutti abbiamo un rivale (leggere i giornali per credere). E poi la Cindy finale è strepitosa. Come da tradizione, la versione originale e poi la mia traduzione.


The Rival Poet

The column of your book titles,
always introducing your latest one,
looms over me like Roman architecture.

It is longer than the name
of an Italian countess, longer
than this poem will probably be.

Etched on the head of a pin,
my own production would leave room for
The Lord's Prayer and many dancing angels.
No matter.

In my revenge daydream I am the one
poised on the marble staircase
high above the crowded ballroom.

A retainer in livery announces me
and the Contessa Maria Teresa Isabella
Veronica Multalire Eleganza de Bella Ferrari.

You are the one below
fidgeting in your rented tux
with some local Cindy hanging all over you.

Il poeta rivale

La pila dei tuoi titoli
che annuncia sempre l’ultimo in uscita
incombe su di me come un palazzo di Roma.

È più lunga del nome
di una contessa italiana, più lunga
di quanto mai potrà esserlo questa poesia.

Se incidessi su una capocchia di spillo
la mia opera omnia rimarrebbe ancora spazio
per il Paternostro e molti angeli danzanti.
Non importa.

Quando sogno a occhi aperti la vendetta, io sono quello
sospeso sulla scalinata di marmo
ben al di sopra del salone affollato.
Un valletto in livrea annuncia me
E la Contessa Maria Teresa Isabella
Veronica Multalire Eleganza de Bella Ferrari.

Tu sei quello lì sotto
sulle spine, nel tuo smoking in affitto
con una Cindy qualsiasi appiccicata addosso.

lunedì 5 ottobre 2009

Pubblicità comparativa

Ordino con una certa regolarità libri su Amazon.co.uk, con questa procedura:
1. faccio l’ordine online
2. Dopo qualche giorno (mediamente una settimana dal momento in cui ho fatto clik su “place your order”) prendo nella mia cassetta della posta (o appoggiato sopra la cassetta, data la voluminosità dei plichi che non entrano nella buca) i libri che ho ordinato, che mi vengono consegnati dal postino come la posta ordinaria.

Una volta o due all’anno ordino qualcosa anche alla Feltrinelli. Ecco com’è andata l’ultima procedura:
1. Faccio l’ordine online il 22 settembre
2. Il primo ottobre mi arriva un sms dalla mia banca che mi hanno addebitato la spesa
3. Il 3 ottobre ricevo una mail da Feltrinelli che recita:
Il corriere espresso SDA. , al quale abbiamo affidato la spedizione del tuo ordine, ci comunica di non essere riuscito a concludere la consegna a causa dell’assenza del destinatario.
Contatta cortesemente SDA al numero 199.11.33.66 (0.14 €/min da rete fissa senza scatto alla risposta) per concordare una nuova data di consegna.

In alternativa puoi telefonare anche al servizio clienti al numero 02.95.103.370
4. Chiamo allora SDA al numero a pagamento. Resto in attesa ascoltando musichette almeno un paio di minuti, spiego a chi mi risponde qual è il problema e lei mi chiede il numero del vettore per sbloccare l’ordine. Credo si tratti del numero di ordine della Feltrinelli (ricevuto in una mail il giorno del mio ordine il 22 settembre), lo cerco al volo tra le email mentre sono al telefono con l’operatrice SDA ma mi dice che non è quello. Le dico che lo cercherò e le farò sapere.
5. Chiamo la Feltrinelli, al servizio clienti a Milano. Ci vogliono circa dieci minuti a trovare la linea libera. Spiego qual è il problema, che mi manca il numero di vettore. Me lo dà. A quel punto le faccio due domande. A. Come mai quel numero (che mi serve quando devo chiamare SDA) non è stato incluso nella mail che mi hanno mandato per avvisarmi che SDA non ha potuto consegnare? B. Faccio notare che il postino di Poste Italiane mi consegna normalmente i libri che mi vengono spediti dal Regno Unito o dagli Stati Uniti o dalla Germania, e mi chiedo come mai Feltrinelli non utilizzi il normale servizio pubblico delle Poste Italiane invece di affidarsi a un servizio privato che sicuramente costa di più e rende molto di meno per i clienti. Non ottengo risposta.
6. Chiamo SDA e, finalmente con il numero del vettore in mano, posso essere informato che il mio plico “è in consegna oggi”. Non pretendo di sapere l’ora, ma chiedo umilmente se sanno almeno se sarà di mattina o pomeriggio, cioè prima o dopo mezzogiorno. Non lo sanno.
7. Oggi, 5 ottobre 2009, tre settimane dopo aver ordinato i libri, dopo aver buttato via quasi un’ora questa mattina, sono ancora qui che spero che tutto vada bene e che io sia casualmente a casa quando arriverà il corriere.
Amazon vende in tutto il mondo con enorme successo perché fa in modo che i libri partano prestissimo, e si impegna a farli consegnare tramite gli ordinari sistemi nazionali di consegna della posta. Feltrinelli non riesce a consegnare in tempi decenti a Roma perché paga (immagino salatamente) un corriere privato. Immagino che i manager della Feltrinelli siano troppo impegnati a organizzare la prossima “campagna di comunicazione” e quindi non abbiano tempo di migliorare una bazzecola come la consegna a casa degli acquisti online. Bene, bravi, complimenti per la lungimiranza.