2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 22 dicembre 2008

Pensieri mentre Facebook mi fa cagare

I fan di Tiziano Scarpa avranno colto il riferimento a un suo storico racconto (mi pare su Amore marchio registrato, ma su qualche rivista era uscita una prima versione dal titolo addomesticato: "Pensieri per Mariagrazia") e il legame con un racconto che intreccia speculazioni anche filosofiche a una pratica sessuale così entusiasmante come la fellatio non è del tutto casuale.
Sto cercando di ragionare sulle motivazioni per cui le reazioni a 
Facebook sembrano fortemente emotive non solo da parte della stampa sensanzionalistica ma anche da parte degli utenti. Se infatti per cosiddetti fenomeni come Second Life  i media tradizionali avevano riempito pagine vergognose di nuovi luoghi comuni (Luca Sofri è da sempre uno storico cacciatore di bufale spacciate sulla stampa italiota sui vari pedofili e mostri che abitano la Rete), la reazione degli utenti al cosiddetto web 2.0 o social networking è stata molto più pragmatica e smaliziata: si va, ci si fa un giro, si vede a cosa serve, se serve, e si decide se usare il servizio.

A me è capitato così con 
MySpaceTwitter (il blog non lo conto, per me non è social networking, è lavoro in solitaria, come sarà chiaro tra poco). Sul primo ho aperto un account (mi dice la mail di conferma) il 5 marzo 2007 ma dato che non faccio musica e le mie foto le metto su Picasa, non ci ho fatto granché. Oggi ci vado a cercarmi i pezzi di qualche gruppo o cantante poco noto, che mi hanno segnalato o che ho incrociato per altre vie.

Twitter invece mi ha visto entrare il 27 luglio del 2007, e ai primi di settembre avevo finito l'esperimento, trovandolo una pratica di
esibizionismo masturbatorio che non mi interessava, e sul quale ho già avuto modo di dire la mia.

Con Facebook (account aperto 27/07/07 ore 17.58), pare che le cose vadano in maniera diversa. Forse dipende dalle
dimensioni che ha assunto il fenomeno stesso (MySpace e Twitter sono comunque rimasti fenomeni limitati a fasce "alte" di utenza, mentre su Facebook, da quest'estate, pare proprio ci siano "tutti", e già questo è un aspetto interessante della questione) ma fatto sta che le entrate e le uscite dal Fb non sono eventi pacifici o anche solo incruenti, e si configurano spesso come prospettive simboliche, prefigurazioni di scelte di vita o di campo.

Se qualcuno ancora non lo sa, su Fb si possono mandare brevi messaggi agli "amici" sul proprio
stato (come Twitter), si  possono inviare mail, come un client di posta, si possono caricare video (come YouTube), taggare le foto (come Flckr), e anche importare nelle note il proprio blog: in pratica, la sua natura open lo sta rendendo di fatto un ambiente operativo più che un software online, una macchina per aggregare gadget e strumenti software, da "manda un regalo a un amico" a "iscriviti alla causa". 

Bene, detto così sembrerebbe il massimo della pacchia, un servizio a ventaglio al quale gli utenti possono accedere con
diversi livelli di complessità o di partecipazione: c'è quello a cui basta aggiornare lo status una volta ogni tre giorni, e quello che invece posta video, foto taggate, commenti, note, regali, cause, inviti ad eventi e mille altre cose ancora.

Un servizio apparentemente democratico nel senso che il termine sta aquisendo in Rete, vale a dire partecipativo ma anche poco intruppato.

Eppure, se guardo nella sezione della posta del mio account di Fb, le ultime due mail che ho ricevuto sono di questo  tenore (per ovvie ragioni cancello i riferimenti reali alle persone che hanno scritto i messaggi):

1. subject: un saluto
Ciao a tutti gli amici, i conoscenti e gli sconosciuti che in questi tre mesi su facebook sono comparsi nella mia lista.Per molte ragioni ho deciso di disiscrivermi da facebook, e me lo faccio come regalo di Natale, a conclusione del bilancio annuale e di promesse per il nuovo anno. Ritengo però che, per quanto questo non luogo mi abbia "sconvolto", dietro ogni scheda ci sia una persona e, in rispetto a questo, mi fa piacere andarmene salutando. [...]
2. subject: Importante: me ne vado
Ciao. Per tutta una serie di motivi (i principali li puoi andare a leggere, se ti interessa, nei link che ho postato sul mio profilo, nell’”evento” di pari oggetto, per i motivi che trovi in calce al mio messaggio) ho deciso di disiscrivermi da Facebook: il mio bilancio nei confronti di questo (anti)social network è decisamente negativo.
Perciò se ti cancello dagli “amici” non è per un rifiuto della tua “amicizia”, ma per un rifiuto di Facebook. [...]

I due "amici" di Fb ci hanno poi tenuto a lasciarmi il loro "vero" indirizzo di email (li ho infatti entrambi conosciuti su Fb e non avevo altri loro recapiti se non i loro accunt su Fb) se volessi tenermi in contatto con loro.

Qualche giorno prima, si era accesa (non ricordo più in qualche applicazione di Fb) una lunghissima discussione se si dovesse o meno
uscire da Fb, discussione che ha coinvolto animatamente decine di utenti. 

Il 9 novembre scorso, sull'inserto domenicale del
Sole 24 Ore è uscito un pezzo di Andrea Bajani titolato "Prigioniero di Facebook" che inizia con queste parole:

Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera.


Certo, un'iperbole, ma dice molto sullo stato emotivo degli utenti di Fb.
Fb poi tende a dare vita a
leggende urbane, come quella che una volta iscritti non ci si può più cancellare (falso) o che i propri dati rimangano per molto tempo dopo che ci si è cancellati (altrettanto falso). 

Sono circolati in rete testi bellissimi per intensità e profondità di analisi, come quelli di 
Mariasole Ariot su Nazione Indiana, di Sergio Baratto su Ilprimoamore, e di Andrea Tarabbia, sempre su Ilprimoamore. Si tratta però sempre di testi carichi emotivamente, che sembrano "avercela" con Facebook. Mariasole Ariot dice:
Facebook in effetti, non dice niente.
Più che buco della serratura da cui spiare l’altro, un dito nel buco del mondo che del mondo vuole vedere solo il culo.


Per quanto
icastica, questa non è una descrizione accurata di quel che succede in Fb. 

Lo
sciopero in Egitto del 6 aprile 2008, che ha scosso almeno in superficie il granitico controllo politico di Mubarak, è stato organizzato anche e soprattutto attraverso Facebook, e sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo. 

Esraa Abdul Fattah
, una delle fondatrici del gruppo "6 aprile, il giorno della sciopero" è stata arrestata e trattenuta in carcere per diciotto giorni proprio con l'accusa di aver sobillato la folla, dato che il gruppo al momento dello sciopero aveva più di 70.000 iscritti. La storia del ruolo di Facebook in Egitto (e del timore che il regime ha manifestato per questo sito) è stata raccontata con dovizia di dettagli. Qui c'è un video che racconta in dettaglio l'uso politico di Facebook in Egitto. E' forse il caso più famoso, ma certo non è l'unico e ricordo che in Birmania nell'agosto 2007 la "rivoluzione zafferano" si è appoggiata su un gruppo di Facebook che ha aggregato 440.000 utenti, L'uso politico di Facebook è diventato comune, e se da noi si fanno campagne casarecce sulla Gelmini consenza palle, appena si esce un poco dal guscio domestico (internet dovrebbe essere lì anche per quello, no?) si vede le l'attivismo è cosa seria, e Facebook sta diventando un suo strumento, soprattutto in paesi dove il controllo dei media da parte del potere istituzionale è forte.
Quindi non si può dire che Fb non dice niente, semplicemente perché non è vero, e quel che dice Fb dipende da cosa gli facciamo dire noi, come per qualunque altra applicazione.
Facebook ha la capacità di
aggregare rapidamente un numero altissimo di persone, e questa, secondo me, è la ragione principale del risentimento che solleva. Facebook è cafone.

Sergio Baratto
, nel suo post su Ilprimoamore, ha detto tutto nel primo paragrafo:

All'improvviso ho capito perché c'è molto meno movimento intorno ai blog: si stanno buttando tutti su Facebook. Sono quasi tutti emigrati lì, verso forme meno raffinate e impegnative di cazzeggio. Vorrai mica paragonare lo sforzo di inventarsi un post di X righe a quello di scrivere una frasetta di quattro o cinque parole alla terza persona singolare?


Baratto pone
un'opposizione tra blogger e utente di Facebook: mentre il primo deve articolare la sua posizione in un "post di X righe" (vedete: non può neppure specificare quante, dato che, tanto per citare uno dei blog Italiani più seguiti, Wittgenstein di Luca Sofri spesso carica dei post di una riga), l'utente di Fb scrive "una frasetta di quattro o cinque parole", dimenticando così che su Fb si possono postare "note" della lunghezza che si vuole (e anche importare interi blog, come già detto).

La tesi di Baratto è assunta in pieno da
Andrea Tarabbia:

Facebook è il network che vince perché è il vuoto fatto grafica. Non tutti possono avere un blog, perché non tutti hanno una sintassi di cui non si vergognano e, soprattutto, non tutti hanno qualcosa da dire con una vaga regolarità. Non tutti posso avere una libreria on line perché esiste anche il diritto di non leggere. Non tutti hanno MySpace perché non tutti hanno voglia di passare le giornate a caricare foto e video. È però evidente che tutti – chi più chi meno – hanno niente da dire con cadenza più o meno regolare o negli intervalli delle cose che si dicono, per cui Facebook è in grado di soddisfare le esigenze di chiunque. 


Ho l'impressione che questo
insistere sulla dimensione simil-Twitter di Facebook, che non è necessariamente la sua principale, serva all'argomentazione distintiva: noi che abbiamo qualcosa da dire (e sappiamo anche come dirla) ci troviamo in imbarazzo in un ambiente a cui possono accedere anche quanti non solo non hanno nulla da dire, ma per di più non maneggiano neppure con scioltezza le strutture per dirlo.

Andarsene da Facebook, allora, diventa un modo per dichiarare la propria
distanza dalla folla, che invece non ha nulla da dire e prova a dirlo comunque, per di più male.

La folla cafona è arrivata su Internet: questo il grido di dolore che fa da bordone ai lamenti su Facebook (per evitare malintesi: sto parlando anche e prima di tutto dei MIEI lamenti, del mio terrore di essere confuso con la folla).

Noi, che abbiamo sudato sui sistemi operativi del
DOS, che ci siamo iscritti alle BBS prima che arrivasse Internet, che abbiamo provato a trafficare con le copie piratate di Dreamweaver perché volevamo farci il sito nostro  (o perché, come me, lavoravamo per case editrici che volevano ci occupassimo di aggiornare i contenuti del sito). Oppure noi che quando è arrivato splinder ci si è aperto un mondo e abbiamo capito che finalmente non avevamo bisogno di elemosinare una colonna nel giornale di provincia, che non dovevamo più fare la fila dall'editore, e che potevamo coltivare il sano, estetico, profondo bisogno di comunicare i nostri profondi pensieri al mondo intero con IL NOSTRO BLOG. E questo blog era la migliore garanzia della nostra assoluta unicità, del nostro essere, in fondo, dei figaccioni incredibili, e potevamo anche fare finta di non esserlo e potevamo giocare a fare i modesti, gli impegnati (tanto c'era il blog a garantire la nostra assoluta figaggionitudine). Eccoci qua, noi, distinti, separati, finalmente e chiaramente riconosciuti anche grazie al generoso incrocio tra competenza tecnologica e volontà di esprimerci, nell'arco di sei mesi ci troviamo sommersi, annichiliti in una folla di buzzurri, geometri del Cepu, sciampiste di Scaltenigo, panettieri lucani, svogliati studenti di Scienze della comunicazione, che porca puttana scrivono sul loro loculo su Facebook che sono diventati fan di Gigi D'Alessio (o membri del gruppo "Aboliamo Gigi D'Alessio") e hanno un numero di lettori che è dieci o venti volte superiore al numero di contatti medio del nostro blog!

In questa folla pacchiana che ci stiamo a fare? Ci siamo entrati come si entrava in un circolo comunque ristretto, e ci siamo ritrovati con la massa, ma
massa vera. Non si può fare, così non va.

Io credo che dovremmo fare lo sforzo di spostare la prospettiva di analisi, e mettere un poco da parte il nostro orgoglio ferito.
Facebook, così com'è, sta alla comunicazione come il punk stava alla musica negli anni Settanta. Il punk non aveva bisogno di essere carino nei contenuti e, soprattutto, non aveva bisogno di alcuna vera competenza musicale. Bastavano quattro accordi e potevi urlare quel che avevi da dire (o anche urlare che non avevi nulla da dire). Non ti servivano sussiegosi percorsi di apprendistato, nessuno a cui rendere conto, al massimo qualche altro strippato come te che ti seguiva a ruota quando partivi con l'assolo. Pensateci, è esattamente quel che sta succedendo con Facebook. E noi, noi che abbiamo studiato nei conservatori della cultura, noi che abbiamo le lauree e facciamo i giornalisti free lance o gli scrittori (o addirittura facciamo laboratori di scrittura creativa) stiamo sformando perché ci stanno sottraendo anche quel microscopico spazio di comunicazione che sentivamo finalmente di avere il diritto di tenere sotto il nostro controllo.

Le masse di liceali fankazzisti, impiegati fannulloni, commesse a progetto che diventano fan di Braccobaldo o di
Max Gazzè possono farci anche orrore, ma non è che smettono di esistere se noi usciamo da Facebook: continuano ad esserci, a vivere la loro vita ogni giorno (e probabilmente a votare in modo che a noi dà fastidio). Solo che dentro Facebook si rendono visibili anche al nostro sguardo, e vanno a occupare uno spazio di visibilità per il quale pretendiamo di avere la precedenza, e cioè la visibilità degli happy few che accedono alla Rete.

Pensateci un momento: siamo ormai dentro una società in cui l'esistenza stessa dei soggetti è garantita non dal
fare, e neppure più dal sentire, ma dalla possibilità di essere riconosciuti dagli altri. Da questo punto di vista, la partecipazione all'Isola dei Famosi (o a qualunque altro reality televisivo) è l'unico evento REALE (e infatti come tale è vissuto da chi vi partecipa) perché è l'unica forma di evento che esiste come atto costitutivo di messa in vista (è insomma un "evento mediatico" in senso tecnico). Ma se l'Isola dei Famosi è la versione plebea della messa in vista, noi happy few avevamo finora goduto del sex appeal selettivo della Rete: i nostri blog, i nostri MySpace, erano la versione certo più elitaria di una comparsata al Grande Fratello, ma con lo stesso obiettivo: esistere in quanto riconosciuti dagli altri.

Ora, con Facebook, vediamo le folle dei fan di
Simona Ventura e Maria De Filippi entrare a occupare spazi che pensavamo nostri, e la cosa semplicemente ci "fa vomitare".

Ecco, ci fa vomitare che Internet sia diventata profondamente, paradossalmente, vergognosamente democratica. Che sia diventata di tutti, anche di quelli che, secondo noi (che siamo colti e raffinati) non se la meritano.

lunedì 15 dicembre 2008

Facebook fa schifo (ma lo uso sempre di più)

Fa schifo perché non sai mai dove stanno le cose importanti, ti trovi la bacheca piena di cazzate di gente che conosci appena, o che non conosci affatto, commenti di perfetti sconosciuti di "status" di amici, e poi non sai dove andare a cercare il commento che un amico "vero" ti ha detto via mail o via telefono di aver postato per una tua iniziativa importante. C'è sempre qualcuno che ti offre una "birra virtuale", che ti manda un "regalo da Milano" o che "has just answered some questions about you" e se gli stai dietro ti accorgi che invece è un cavolo di spam o peggio un virus.
Tende a farti credere che parli in privato con il "botta e risposta" e invece ti stai sputtanando in pubblico.
E' esattamente come una piazza di paese, perdi un sacco di tempo per nulla, e ci dovresti andare solo se hai veramente tempo da perdere.
Per chi lavora cercando di rimanere organizzato è un vero disastro: ho lanciato la "causa" per un antropologo alla direzione dell'ICDE e non sono sicuro di aver risposto a tutti quelli che hanno provato a comunicarmi qualcosa: ci sono messaggi sulla mia bacheca, altri sulla pagina della causa (ma alcuni sono nascosti e li ho trovati dopo due giorni), sulla pagina della nota che parla della causa. E le "notifiche" in basso a destra, invece di informarmi su quel che mi interessa, continuano a dirmi che "Shakira has answered this question: Is Piero sexy?" See what she thinks!". In certi momenti non ci si capisce nulla, veramente.
Eppure, se vuoi aggregare persone probabilmente non esiste oggi uno strumento più potente al mondo: sei letteralmente in piazza con milioni di altri, e puoi trovare il modo di farti sentire. In tre giorni oltre 500 persone si sono unite alla causa, un numero spropositato per una cosa così piccola.
Certo, si può dire, unirsi alla causa su Facebook non costa molto (basta un click, in sostanza) ma adesso che vogliamo passare a una petizione online (per poi organizzare un incontro in carne e ossa e cartelloni di protesta) abbiamo una base di partenza strutturata.
Ci vuole pazienza, con questo strumento caotico, ma se non ci si fa risucchiare da "diventa anche tu fan della carta da imballaggio con le palline che scoppiano" è uno strumento di aggregazione formidabile.

venerdì 12 dicembre 2008

Se volete sapere com'è che una storica dell'arte controlla i beni antropologici

Pietro Clemente, che da anni insegna a Firenze dopo essere stato a Cagliari, Siena e Roma, ed è uno dei massimi esperti italiani di antropologia museale, ha scritto a nome del Direttivo della Società Italiana per i musei e i beni demoetnoantropologici SIMBDEA un bel pezzo per raccontarmi la storia dell'ex Museo di Arti e Tradizioni Popolari, diventato Istituto Centrale dei beni Demoetnoantropologi, ma che rimane misteriosamente diretto per regolamento da una storica dell'arte.

Questi comunisti...


A SOSTEGNO DELLA CULTURA POPOLARE

Sabato 13 dicembre si terrà la

II Giornata Nazionale della Rete Italiana di Cultura Popolare

con eventi in contemporanea in tutta Italia

Io sostengo la Cultura Popolare” sarà il filo conduttore dell’imponente manifestazione, promossa ed organizzata dal Comitato Festival delle Province – Rete Italiana di Cultura Popolare, che coinvolgerà in contemporanea la maggior parte delle Regioni, Province, Comuni d’Italia, lanciando un forte messaggio per la tutela e la valorizzazione di una componente fondamentale del nostro patrimonio culturale: la Cultura Popolare e i beni immateriali.

La Rete di Cultura Popolare, creata dal Comitato Festival delle Province e riconosciuta ufficialmente dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il 13 dicembre darà vita ad una giornata-evento a cui parteciperanno centinaia di artisti, comunità, feste e riti, ma anche associazioni, musei, biblioteche e scuole.

Il programma dettagliato della giornata, disponibile sul sito del Comitato Festival delle Province, verrà costantemente aggiornato fino a venerdì 12 dicembre, visitalo su: www.festivaldelleprovince.it.

La II Giornata Nazionale della Rete Italiana di Cultura Popolare è organizzata in collaborazione con UPI (Unione Province Italiane), ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici).

Il 13 dicembre, attraverso un’unione ideale tra le città italiane che raccolga e sistematizzi la cultura orale e immateriale, i riti e l’identità territoriale, il Comitato ed il pubblico in piazza, al grido di “Io sostengo la Cultura Popolare”, ne rivendicheranno il ruolo di “bene di interesse nazionale” e richiameranno l’attenzione sulla necessità di un sostegno specifico attraverso progetti, iniziative e proposte concrete per diffonderla, tutelarla e valorizzarla.

giovedì 11 dicembre 2008

Piccolo epistolario sulla nazione

Care amiche, cari amici,

con alcuni amici scrittori, artisti e operatori culturali si è deciso di marciare assieme domani. Fra questi, vi saranno gli aderenti a quello che abbiamo chiamato "Sciopero dell'autore", ma anche altri che si sono detti contrari a questa forma di protesta. L'appuntamento è per le 9.30 davanti al ristorante Asahi in via Santa Croce in Gerusalemme, 1. Mi farebbe piacere vedervi. Fate girare?

Vostro,
Vincenzo


Caro Vincenzo,
per diverse ragioni, non intendo partecipare allo sciopero di domani. Sono settimane che ci penso se e come dare forma scritta a questo mio pensiero, che ha iniziato a manifestarsi proprio con la tua proposta di Sciopero dell'autore che ho seguito su fb. In realtà ci penso da quest'estate, quando volevo postare sul blog una cosa sul "figliolismo", che nelle mie intenzioni è la ragione del paternalismo e di molte cose che succedono in Italia.
Senza che ti riassumo una fila di pensieri che non sono sicuro andassero in una direzione precisa, il tuo sciopero mi ha fatto pensare a una sorta di sciopero dell'identità nazionale, più che a una forma di dissenso politico. Contestare l'esistenza di giunte/governi di centrodestra è, per come la vedo io, da "professionista" dello studio delle identità nazionali, il tentativo di sostenere un'identità collettiva alternativa. Scioperare non contro questo fatto o contro quest'altro, ma contro l'esistenza di amministrazioni berlusconiane in Italia mi sembra un rituale apotropaico. Ma il problema, io credo, non è certo Berlusconi, né il suo conflitto di interessi, né la sua protervia, né i suoi evidenti limiti intellettuali, né il suo preconcetto e patetico "anticomunismo", né le sue bandane, le corna e i bu!, né i trapianti, né le lampade, né il perenne cattivo gusto.
Di uomini così, cafoni con il gusto della battutaccia, arricchiti con la smania di mettersi al passo con i ricchi storici, che temono e disprezzano assieme, è pieno il mondo da tremila anni. Quindi il problema non è Berlusconi. Tantomeno "le giunte" locali dove il berlusconismo si ingrassa.
Il problema sono i dieci e passa milioni di italiani che lo amano, lo votano, lo considerano un modello, un punto di riferimento. Sono queste persone quelle contro cui volete fare sciopero? Scusate, a che pro? Volete convincervi che l'Italia è un'altra cosa, che gli italiani sono diversi? Be', lo sapete che non è vero, che quei dieci milioni di elettori sono italiani quanto me e quanto te, non hanno passaporti stranieri, sono italiani a tutti gli effetti, purtroppo. Sono mio padre, e il mio vicino di casa. Sono l'autista dell'autobus che ho preso ieri e il professore che ha lo studio a fianco del mio all'università. Sono la studentessa che ha preso trenta e quella che preso 18. Sono in giro, non sono isolabili come un virus, non hanno segni di riconoscimento. Se prendi cento italiani a caso e li metti in una stanza, più della metà sono dalla parte di Berlusconi, e non c'è verso di distinguerli dagli "altri", che non sono più normali dei primi.
Il dramma della nostra identità è questo, che siamo profondamente divisi, proprio radicalmente, sulle cose di fondo, e non riusciamo a trovare un accordo. Ma fare uno sciopero, credo, potrebbe forse, per l'ennesima volta, farci sentire "migliori", ma non credo proprio che farebbe migliore questo paese.
Con immutato affetto e stima, un abbraccio,
pv
PS Dato che il tema mi pare travalichi il mio e il tuo interesse personale, non avertene a male se posto questa lettera sul mio blog.

mercoledì 10 dicembre 2008

Uniti nella lotta

Nella foga del post sull'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia, mi sono dimenticato di segnalare che uno degli attori più dinamici che sta combattendo affinché sia un antropologo a guidare l'ICDE è SIMBDEA,la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici. Sull'homepage del sito trovate un'altra versione di questa storia allucinante, che getta nel ridicolo l'idea stessa di "demoetnoantropologia" italiana.

auspici

Questo si vedeva un'ora fa dal balcone della camera da letto. Valeria voleva cercare la pentola con le monete d'oro...

Una storia semplice

Immaginate che un’importante squadra di calcio, per qualche misteriosa ragione, sia stata affidata a un allenatore che non ha esperienza di calcio, ma che invece ne sa di pallacanestro. Strano, no? Ma siamo in Italia e non dovremmo stupirci di persone che stanno in posti di comando senza che sia chiaro come ci sono arrivate.

Immaginate però, ora, che quella squadra sia stata promossa dal Ministero dello sport a rappresentativa nazionale ufficiale, e che nel regolamento che la riguarda sia indicato esplicitamente che d’ora in poi quella squadra deve essere allenata da un esperto di pallacanestro anche se, ripeto, è una squadra di calcio. Non vi sembrerebbe una scelta assurda? Dato l’andazzo, passi un caso singolo, una squadra locale affidata a un allenatore che non ha competenze specifiche (ripeto, siamo in Italia…) ma perché mai il regolamento della squadra nazionale di calcio dovrebbe porre tra le sue norme l’obbligo autolesionista di scegliere sempre e solo un allenatore di basket?

Sembra una storia idiota, e certo lo è. Peccato che, mutatis mutandis, sia vera. Esisteva infatti a Roma un Museo
delle arti e tradizioni popolari (MATP)
, istituito nel 1911 dopo la prima Mostra di Etnografia Italiana sotto la coordinazione di Lamberto Loria, un grande esploratore ed etnografo. Negli ultimi anni il Museo era diretto da Stefania Massari, una storica dell’arte, e già questo è strano: perché mai una storica dell’arte è stata messa a dirigere un museo da sempre antropologico? Forse non ci sono antropologi in grado di farlo? Ma fino a questo punto si era ancora alla piccola bega italianuccia per la direzione di un museo locale (per quanto di gran lunga il più importante del paese, quanto a tradizioni popolari).

Ma il passo veramente assurdo, veramente senza alcun senso, si è compiuto lo scorso ottobre. Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha emanato in data 8/10/08 un decreto che trasforma il MATP in un nuovissimo Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (ICDE). Si tratta di un’operazione interessante, che intende valorizzare l’istituzione assegnandole compiti ulteriori di ricerca e valorizzazione dei beni antropologici italiani, che probabilmente va nella direzione giusta. Al Museo romano si è data una dignità nazionale, e gli si è attribuito il compito di lavorare e produrre sapere a nome di tutto il paese. Una mossa quindi interessante, e credo condivisibile. Con un unico punto critico: Il comma 2 dell’articolo 3 del decreto dice: “l’ICDE è diretto da un dirigente storico dell’arte, di seguito indicato come Direttore…”. Perché? La risposta è troppo facile, e parlare di “decreto ad personam” mi pare evidente.

Possiamo accettare una cosa del genere, che getta nel ridicolo non solo l’antropologia italiana, ma il modo stesso in cui lo Stato concepisce le sue rappresentanze culturali? L’ICOM,
vale a dire l’organismo associato all’Unesco (quindi alle Nazioni Unite) che riunisce i professionisti museali, ha già detto il 30 novembre scorso che questa scelta del Ministero è assurda e penalizza la professionalità degli antropologi italiani, trattati come minorati incapaci di gestire il loro sapere.

Anche se non siete antropologi, vi domando quindi di unirvi in questa piccola battaglia di civiltà, per fare in modo che l’ICDE sia diretto da un professionista del settore antropologico, e non da qualche esperto di altri settori. Vi chiedo quindi di unirvi all’appello e di sottoscrivere la causa su Facebook. Vi prego inoltre non di inoltrare questo messaggio, o non solo, ma di raccontare personalmente questa storia a una sola persona, convincendola a sottoscrivere, chiedendole poi di fare altrettanto. Vogliamo essere in tanti, più di quelli “direttamente coinvolti”, perché crediamo che oltre a questa piccola battaglia, sia in corso una guerra più generale per il senso della cultura in questo paese, e non vogliamo perderla.
Grazie dell’attenzione

venerdì 5 dicembre 2008

Comunicazione di servizio per gli studenti di Tor Vergata


Ho messo sul sito della didattica di Tor Vergata i programmi dei moduli di Antropologia culturale che partono il prossimo semestre. Dato che sul sito non ho potuto caricare testo in html, per chi fosse appassionato di corsivi e grassetti qui c'è quello della laurea triennale e qui quello della laurea magistrale. Lascio il link sempre disponibile nella colonna a destra.

giovedì 4 dicembre 2008

Il delirio da Truman Show


Traduco al volo alcune note che Mark Deuze ha segnalato durante un seminario online alla lista di discussione Medianthro, dedicata a tematiche di antropologia dei media. Mi pare estremamente interessante.
Gli psichiatri Joel e Ian Gold hanno di recente ipotizzato che l'incrociarsi tra onnipresenza dei media, classiche sindromi come il narcisismo e la paranoia, e una crescente cultura mediatica in cui i confini tra mondo fisico e mondo virtuale si stanno confondendo, produce un nuovo tipo di psicosi, documentato in alcuni casi clinici, vale a dire il "Delirio da Truman Show" (DTS).

Il DTS prende il nome dal film "The Truman Show" (1998) in cui l'attore Jim Carrey interpreta un uomo che non sa che tutta la sua vita è null'altro che un enorme reality show televisivo, visto da milioni di spettatori in tutto il mondo. Le persone che soffrono di DTS sono più o meno convinte che tutto quello che le circonda sia un set organizzato, che le persone attorno a loro siano attori e che tutto quel che fanno sia monitorato e registrato.
Ian Gold, che lavora alla McGill University, in un'intervista al quotidiano canandese "The National Post", attribuisce il DTS "a inusitati stimoli culturali che potrebbero spiegare il fenomeno: la pressione di viviere in un'ampia comunità connessa può far emergere il lato più instabile delle persone fragili [...] I nuovi media stanno aprendo vasti spazi sociali che potrebbero interagire con i processi psicologici" (19 luglio 2008, p. A1).
In un pezzo dell'International Herald Tribune, diversi esperti confermano l'esistenza del DTS e in modo interessante suggeriscono che "un modo di guardare ai deliri e alle allucinazioni dei malati di mente è considerarli forme estreme dei timori che assillano la popolazione normale o mediamente nevrotica" (30 agosto 2008, p. 7).
Ci sono diversi pareri sull'esistenza di questa forma di malattia mentale. Ma mi pare comunque il caso di pensarci un poco. Fossero anche solo un paio di mattacchioni che si sono inventati tutto. Già a inventarsi una simile forma di delirio, significa che viviamo un'epoca nuova.




mercoledì 3 dicembre 2008

Cucina creativa

Rebecca non ama le novità in cucina, e io non ne posso più, al mercoledì, di farle wurstel e patate ripassate in padella. Così, dopo una serie di facce elaborate sul piatto, la settimana scorsa si è mangiata un'astronave, e oggi le sono toccati funghi e maiale. Mi aspetto qualche consiglio per mercoledì prossimo.

martedì 2 dicembre 2008

Se non ora, quando?

Mi unisco all'appello di Meltemi e gli do spazio sperando che qualcuno voglia aderire, come abbiamo già fatto numerosi.


La Meltemi attraversa da mesi una crisi tanto profonda da renderne incerto il futuro. Piuttosto che tacere e scomparire in silenzio, abbiamo scelto di lanciarvi un appello per tenere in vita la nostra (e la vostra) casa editrice. Vi chiediamo semplicemente di acquistare i nostri libri, per voi stessi o donandoli a una biblioteca, entro il 31 dicembre. Aiutateci! Se non ora, quando?

venerdì 28 novembre 2008

Mignolo (con l'acca al centro 5/5)

Con il mignolo si suonano gli accordi di settima sulla chitarra e ci si toglie il cerume dalle orecchie: la sua ambiguità morale sta tutta racchiusa in questa contrapposizione, uno strano oscillare tra cura preziosa per il dettaglio e sbadata noncuranza.
Il mignolo è analogo nella funzione alle sue dimensioni: con il mignolo ci si occupa delle cose piccole, o delle minuzie, o delle banalità, il che non è esattamente lo stesso.
Molte delle cose che diciamo e che scriviamo (e che leggiamo e che ascoltiamo, ovviamente) sono cose “piccole” non per le loro dimensioni, ma per la pochezza del nostro impegno in esse. A tutti è capitato di dover dire qualcosa per forza, di “aprire la bocca e dargli fiato”, o di mettersi alla tastiera del computer e dover riempire una cartella a tutti i costi. Molte volte, quel che ne è uscito è un pastone un po’ indigesto, figlio soprattutto della fretta di liberarsi di una scocciatura, proprio come si getta con noncuranza la pallina di cerume che il mignolo ha raccolto in fondo all’orecchio.
Ma quando lavoriamo con attenzione, quando usiamo la cura amorevole per il dettaglio, quando il pezzo viene letto e riletto, limato e sistemato perché comunichi veramente il nostro pensiero, allora ci serve la cura del mignolo per scovare quel piccolo difetto nell’angolo, e ci serve la sua precisione per andare al punto, come sulla tastiera della chitarra quel piccolo dito ci dà il sapore finale di un accordo.
Scusate se, alla fine di questo vocabolario, torno ancora alla mia disciplina, l’antropologia culturale, ma credo che sia un buon esempio di applicazione della morale del mignolo. Non mancano i testi di antropologia scritti con quella che io chiamo “la fretta da concorso” e lo si vede nelle pagine gonfie di banalità. Ma se vi capita tra le mani un buon saggio di antropologia, allora potrete assaporare fino in fondo cosa significhi prendersi cura del dettaglio in apparenza inessenziale, nel tentativo di restituire a chi legge la ricchezza dell’esperienza etnografica.
L’antropologia culturale è, nel bene e nel male, il dito mignolo delle scienze sociali, in grado di perdere tempo con minuzie poco rilevanti ma anche capace di colpire al cuore della realtà, cogliendone i nervi scoperti, per quanto ben occultati.
Come consigli finali di lettura, vi propongo quindi due libri di antropologia che secondo me incarnano al meglio questa attenzione per la cura delle piccole cose senza mai cadere nella verbosità del dettaglio inutile. Il primo è Antropologia interpretativa di Clifford Geertz, pubblicato dal Mulino, un libro che con l’idea di “descrizione densa”, e con il racconto di un combattimento clandestino di galli, ha posto le basi per una nuova dignità della ricerca etnografica, che nel frattempo è divenuta un approccio metodologico condiviso da molte scienze umane. Il secondo libro invece è Sentimenti velati di Lila Abu-Lughod, pubblicato da Le Nuove Muse, un libro che racconta con grazia e attenzione il ruolo della poesia in una società beduina. Vedete, combattimenti di galli, poesie improvvisate tra un gruppo di beduini dell’Egitto: si tratta di piccoli temi, di argomenti veramente “minuscoli”, ma presentati con tale cura per il dettaglio che riescono a dirci molte cose anche su di noi, sulla nostra concezione della persona, dell’amore e dell’onore.
A questo punto, concluso il nostro viaggio assieme, come si fa alle stazioni o nei porti, quando si è ormai lontani dalla persona che si sta per salutare e le parole non servono più a molto, raccolgo le cinque dita di cui vi ho parlato, agito la mia mano nell’aria e vi saluto.

giovedì 27 novembre 2008

Anulare (con l'acca al centro 4/5)

L’anulare è il dito di cui più facilmente scorgiamo la faccia simbolica. Come tutti sappiamo, gli antichi credevano che una vena giungesse lì direttamente dal cuore, per cui è divenuto il dito che riceve l’anello, il legame dell’amore. Quando parliamo di anulare, allora, dobbiamo parlare dei legami, vale a dire delle relazioni tra gli esseri umani.
Non esiste probabilmente una parola che meglio di “legame” incarni quel che sto cercando di dire in questi giorni, cioè l’intima ambiguità morale delle parole. Legame è assieme la scelta e la condanna, il massimo della libertà e il massimo della costrizione.
L’anello che poniamo al dito è perfettamente rotondo, e in questa sua forma (ovviamente funzionale) incarna anche l’annullamento del tempo (che non dovrebbe consumare l’intensità del sentimento) e la simmetria che si vuole regga il rapporto: le due persone legate dall’anello sono parimenti impegnate, parimenti coinvolte. In realtà, sappiamo che l’anulare, con il suo prezioso fardello, serve proprio a illuderci di questa simmetria, che in fondo sentiamo sfuggirci sistematicamente. I legami tra gli uomini sono quasi sempre asimmetrici, non solo per lo scarto di potere che li caratterizza, ma anche, ed è quello che mi interessa, per l’intensità relativa che vi proiettiamo.
Pensate al classico caso della persona che vi tormenta, che vi chiama a casa nei momenti più importuni, perché lui vi considera il suo migliore amico, mentre voi lo ritenete uno scocciatore del quale non riuscite a liberarvi: non c’è nulla di simmetrico in quel rapporto, e l’anello simbolico che lui porta amorevolmente al dito per segnalare il suo legame nel caso vostro si trasforma in una palla al piede.
Il fatto è che non possiamo stare nel cuore delle persone, come non stiamo nelle loro teste, e dobbiamo limitarci a immaginare e sperare che la rilevanza che alcuni hanno per noi sia effettivamente ricambiata. Anche da qui, da questa intrinseca fragilità del legame affettivo, deriva il recente successo del social networking: con twitter, myspace o facebook possiamo letteralmente collezionare “amici” e fingere che la qualità del rapporto dipenda esclusivamente da noi, e non anche dal tempo, dal caso, dalle contingenze.
Mentre le dita che abbiamo visto finora devono la loro ambivalenza alla posizione che occupano nello spazio (il pollice su o giù, l’indice puntato verso le cose o contro le persone, il medio sollevato o disteso), l’anulare non ha posizioni da occupare, ed è il tempo a dargli una direzione etica. Ci sono persone che dopo poco sono colpite da allergie, eritemi, gonfiori, sentono l’anello al dito come il primo segno della schiavitù, e non resistono dal liberarsene, mentre altre trovano in quel legame un conforto profondo, e carezzano l’anello mentre parlano, quasi volessero carezzare la persona che gliel’ha posto al dito. In alcuni casi, quando restano sole per la morte del partner, queste persone ne indossano l’anello, e i due cerchi, che sono stati paradossalmente separati tutta la vita, sono ora avvicinati dalla morte, quasi a ribadire di fronte a tutti l’indissolubilità di quel legame. Per sempre.
Sui legami che gli uomini creano e sul loro significato sociale non posso che rinviare alla lettura di un classico della mia disciplina, vale a dire Le strutture elementari della parentela, pubblicato dal Saggiatore, testo fondamentale di Claude Lévi-Strauss, che proprio domani compirà cent’anni e al quale rivolgo un affettuoso augurio. Che estendo a tutti voi, sperando di incontrarvi nuovamente domani.

mercoledì 26 novembre 2008

Medio (con l'acca al centro 3/5)

Dopo il pollice (inflessibile ma negoziatore) e l’indice (premuroso ma prepotente) il medio alterna posture volgari e austero equilibrio. Dal mondo anglosassone abbiamo di recente recuperato alle glorie della cronaca anche politica il senso di un gestaccio (il medio sollevato) che ha antichi paralleli italici nelle fiche che il blasfemo Vanni Fucci rivolge contro Dio nel canto XXV dell’Inferno. Il medio alzato è l’improperio, l’insulto, la volgarità incarnata, o incarnita visto che parliamo di dita…
Avrete notato che un gesto formalizzato accompagna molto più facilmente l’insulto che non l’elogio. A una persona si può dire che è buona praticamente rimanendo immobili, ma se gli si vuole dire che è cattiva si accompagnerà la parola con qualche forma codificata di gesto, il gestaccio, appunto. Come se le parole non ce la facessero a contenere tutto il male che si vuole comunicare, e questo esondasse dalla gola al resto del corpo, schizzando fuori come un veleno di scorpione da qualche estremità improbabile, come le dita, l’incavo del braccio, i genitali. Il medio allora ci ricorda che per arrivare all’animo di qualcuno, a volte, è necessario tracimare da noi stessi, esagerare, letteralmente “spararla grossa”, oltre le parole.
Ma se, posto a svettare tra le altre dita, il medio ha questa tendenza grossolanamente esagerata, non appena si pone a riposo tra le sue dita sorelle torna ad essere colui che sta in mezzo, il punto d’equilibrio, l’acconcia misura che non eccede. Il medio è allora l’aurea mediocritas dei latini, la virtus che stava, appunto, in medio.
In questa posizione di mediazione, se si sforza di non essere egocentrico, il dito medio mi ricorda il lavoro dell’antropologo, costretto per sua scelta a starsene a cavallo tra differenze, e cocciutamente proteso a comunicare agli uni la diversità degli altri. L’antropologo, da buon medio mediatore, deve evitare di farsi notare, di svettare come un energumeno, e più modestamente prova a dare una forma armonica al quadro che lo include. Senza medio la mano sarebbe paradossalmente più simmetrica, ma decisamente più brutta. Mi piace pensare che nel suo ruolo di mediatore tra culture l’antropologo abbia anche questo compito estetico, di tenere assieme la bellezza delle diversità.
Il medio quindi oscilla tra due diversi dei che lo tutelano. È vicino alla razionalità di Apollo quando sta al pari con le altre dita, e come Apollo ama la misura, ma si trasforma in un Dioniso incontrollabile non appena si erge separato, e come lui pretende che si esageri, che non ci si ponga limiti.
Per chi fosse interessato al rapporto tra gesto e linguaggio suggerisco il saggio di Michael Corballis, Dalla mano alla bocca, di recente tradotto da Raffaello Cortina. Per chi invece volesse approfondire il ruolo dell’antropologo nel suo lavoro di difficile mediazione, allora consiglio la lettura del bellissimo libro di Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, pubblicato da Laterza.

martedì 25 novembre 2008

Indice (con l'acca al centro 2/5)

Dicevamo ieri che il pollice è stato il primo strumento dell’uomo. L’indice allora è la sua prima parola. Se con il pollice le cose si prendono e si trasformano, con l’indice si dicono prima ancora di avere in bocca suoni articolati. Lo stesso bimbo che ieri abbiamo visto succhiarsi il pollice, ora lo vediamo mentre indica di volta in volta stupefatto, impaurito o divertito le cose con quella minuscola freccia che gli spunta dal pugno chiuso. L’indice è allora la voglia di uscire da noi stessi, lo sforzo per forare il sacco amniotico che ci contiene nella nostra solitudine, per andare verso il mondo delle cose. Sì, perché “non si indicano mai le persone”, ci insegnavano le zie di buona famiglia, ma le cose sì che si indicano.

L’indice impone da subito un triangolo sociale: io, l’oggetto indicato, e la persona cui lo segnalo. Io che vedo questa cosa che tu, distratto, non cogli, te ne faccio dono e l’indice è il pacco regalo, il contenitore del mio gesto di attenzione per te. Guarda, non solo ho visto una cosa, non solo quella cosa mi attrae, ma mentre la guardo penso a te che mi sei vicino e non te ne sei accorto, e allora te la segnalo, te la indico, te la regalo. Perché voglio che tu condivida quello che sento. Certo, a volte ti posso segnalare una cosa brutta o
pericolosa (attento, non pestarla! Fa’ attenzione al gradino!) ma la mia
intenzione è sempre la stessa: mi prendo cura di te, le cose intorno in realtà mi ricordano di te, non mi isolano. Pensate a un genitore al parco con il bimbo in passeggino: buona parte della comunicazione sarà di questo tipo, indessicale dicono i linguisti, per dire una comunicazione che “indica” i suoi oggetti, e quindi dipende tutta dal contesto in cui avviene: “questo”, “quello”, “qui”, “lì” sono tutti deittici che non significano nulla se non c’è il dito indice ad
accompagnarli. L’indice è un dito premuroso, allora, si prende cura delle persone attorno a noi.
Ma se contravveniamo alle norme di buona educazione delle zie, e lo rivolgiamo contro le persone, allora l’indice diventa tutt’altro. È la messa all’indice, è il ludibrio, e la freccia segnalatrice diventa quasi una spada con cui vorremmo trapassare l’individuo che puntiamo. Penso a certi discorsi degli uomini infervorati che sanno perfettamente quali siano i loro nemici. Anche se quasi mai quei nemici esistono nella realtà, e anzi sono solo fantasmi e incubi delle loro infanzie dolorose in cui venivano forse puniti per il vizio di ficcarsi l’indice nel naso, quegli uomini pieni di zelo segnalano costantemente i loro mortali avversari sguainando l’indice e sciabolando nell’aria come spadaccini ubriachi. Penso a come usiamo noi mentalmente l’indice in questo modo, ogni volta che qualcuno non si adegua alle nostre aspettative: “Tu!, Come osi?!” e non finiamo neppure la frase perché la chiusa sarebbe “come osi ESSERE così?” Perché l’indice sa essere prepotente, a volte sogna di essere una bacchetta magica, o almeno la bacchetta di un direttore d’orchestra, per trasformare la realtà a nostro piacimento o almeno metterla in riga, imponendole il nostro ritmo.
L’indice dunque, è sempre sospeso tra dono generoso e rigido moralismo, tra offerta all’altro del nostro sguardo e chiusura all’altro di cui non accettiamo alcuna differenza, alcuna deviazione dalla norma che abbiamo tabilito.
Per chi volesse continuare a ragionare sul dono e le sue implicazioni antropologiche consiglio la lettura dei testi che parlano del Saggio sul dono di Marcel Mauss, raccolti da Matteo Aria e Fabio Dei nel volume Culture del dono, pubblicato da Meltemi. Se volete invece seguire i percorsi amari dell’isolamento e dell’esclusione potete leggere Lo spazio del razzismo di Michel Wieviorka, edito da Il Saggiatore.

Pollice (con l'acca al centro 1/5)

Questo è il testo su cui mi sono basato per il mio intervento a Faherenheit ieri. Oggi toccherà all'indice. Il testo lo metto online stasera.


Pollice
Quando sono stato invitato a compilare per questa settimana il “vocabolario” di Fahreneit, ho pensato che una delle voci che ci volevo mettere avrebbe dovuto essere “mano”. Cercavo parole “vere”, vicine all’esperienza della vita quotidiana, e “mano” certamente lo è. Soprattutto è una parola che non ha paura della sua ambigua connotazione morale, di incarnare cioè il bene o il male a seconda di come viene usata. Si sa che la stessa mano con cui carezziamo può subito dopo schiaffeggiare o tirare un pugno: questo è quello che mi attrae delle parole, e questo vorrei raccontare con il mio “vocabolario”, che non ce la fanno mai a stare buone da una parte sola, e dipende da noi dare loro una prospettiva etica.
Poi mi sono detto che, in tre minuti, della parola “mano” sarei riuscito a dire poco o nulla, e che forse valeva la pena si dividerla in parti: dita, palmo, dorso, nocche, falangi, unghie. Ma così una settimana a Fahreneit non sarebbe bastata.
Ecco allora la scelta delle dita: sono cinque, costituiscono la parte più rimarchevole della mano, eppure ognuna di loro ha il suo stile, le sue qualità.
Il pollice, dunque. Nel suo lato più cupo il pollice è l’aut aut dell’imperatore romano, la vita o la morte, senza soluzioni intermedie. Il pollice è tenuto alto da chi vince, e rivolto in basso segna la condanna. In questa funzione, non consente mediazioni, non tollera il compromesso, è decisamente austero. Me lo vedo, il pollice giudice che non guarda in faccia a nessuno, che non ascolta pareri alternativi. Forse oggi questo pollice incarna una certa furia nel prendere posizione, nello schierarsi pregiudizialmente, nel sapere sempre con sospettosa fiducia da che parte stare. Come ogni sicurezza conclamata, è probabilmente figlio della paura. È il nodo gordiano che viene tagliato di netto per paura di perdersi nei suoi meandri, o anche solo per impazienza, uno dei sentimenti più fragili e purtroppo più determinanti del nostro animo.
Ma il pollice, mi insegna l’antropologia fisica, è il primo strumento di lavoro dell’essere umano, uno dei cardini stessi dell’umanità, assieme alla postura eretta. Siamo diventati uomini perché abbiamo iniziato a manipolare gli oggetti intorno a noi, e l’abbiamo potuto fare perché abbiamo il pollice “opponibile”. Mi piace questa parola, “opponibile”, perché dà l’idea di una disposizione senza essere una petizione di principio. Il pollice funziona quindi perché sa opporsi, e questo ci dice due cose, credo. La prima è che per afferrare la realtà non basta un’unica prospettiva, ci vuole qualcosa che a quella prospettiva faccia opposizione. La seconda è che quell’opposizione deve essere disponibile, per così dire, ad opporsi a se stessa, a sapere quando agire con più vigore e quando invece poggiarsi morbidamente.
Trovo bella e interessante, allora, questa duplicità del pollice, fiero enunciatore di giudizi definitivi ma anche oppositore intelligente, capace di afferrare il mondo facendo gioco di squadra con l’altra parte.
Mi piace pensare che con il pollice posso girare il mondo in autostop, mentre i bambini si succhiano il pollice per rintanarsi nella sicurezza della loro nanna.
Per continuare a riflettere sull’antitesi tra rigidità e flessibilità, consiglio per oggi la lettura di Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, di Adriano Sofri, pubblicato da Sellerio.

sabato 22 novembre 2008

PieHro H VerHeni (con l'acca al centro)


Visto che come ufficio stampa di me stesso sono solitamente un disastro, questa volta gioco d'anticipo. Da lunedì prossimo 24 novembre e per tutta la settimana, sarò a Faherenheit  su Radio3 a presentare il mio "vocabolario", la rubrica che va in onda nel corso del programma, all'incirca alle 15.45 (qui  potete sentire i vocabolari delle ultime settimane). Mi farà molto piacere se avrete voglia di ascoltarmi, magari facendomi sapere che ne pensate. Ho scelto le mie cinque parole partendo da molto, molto vicino, per andare a finire anche un poco lontano. Ogni giorno posterò su questo blog il testo della parola che avrò scelto nella puntata corrispondente.


martedì 18 novembre 2008

Scheda di "identità catodiche"

Nella sezione cosmotaxi del sito di Armando Adolgiso c'è una breve presentazione del mio ultimo libro. Rispondo perfino a un paio di domande!

venerdì 14 novembre 2008

Università e sapere

Come annunciato, la settimana scorsa sono stato a Milano a presentare l'ultimo numero di Achab. Rivista di antropologia. E' stato un incontro per me particolarmente interessante e stimolante. Oltre a conoscere un gruppo affiatato di dottorandi che lavorano decisamente bene, c'è stato spazio per discussioni ulteriori, e un po' di quello spazio è stato impegnato per parlare dello stato attuale dell'Università italiana, della cosiddetta "riforma", della protesta e insomma delle cose di cui discuto qui da qualche settimana. Visto che dimostravo interesse per il tema, Michele Parodi, uno dei responsabili della redazione, mi ha dato una copia del numero 7/2006 di Achab, che conteneva un dossier su "Università e Sapere" che conteneva un breve ma interessantissimo saggio dedicato al concetto di "Seminario" e scritto nel 1977 da Michel de Certeau. Il saggio era corredato da diversi interventi di commento, che ho letto e che mi hanno dato molti spunti su cui riflettere. Ne è venuto fuori un pezzo di nove cartelle che non posto direttamente qui, ma che potete scaricare in pdf se vi interessa seguire la discussione. Seguite il link qui sotto (non preoccupatevi se la finestra dice che non vi può mostrare il file perché è criptato, basta che eseguiate il download con il pulsante e il file è visibile con Acrobat Reader).
Università e sapere
Università e saper...
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giovedì 13 novembre 2008

Parlando di "Identità catodiche"


Ho già parlato di Gianluca Nicoletti e del suo Melog. Con il tempismo che da sempre caratterizza questo blog, vi informo che giovedì scorso sono stato ospite del suo programma, assieme al divino Tommaso Labranca e alla somma Barbara Alberti. Ne è uscita una chiacchierata telefonatica sull'universo mondo televisivo. Un po' di pubblicità per il mio libro...
Se vi siete persi il programma, ecco qui l'mp3.

domenica 9 novembre 2008

Come scegliere i commissari

Bisogna distinguere, come sempre, tra quello che è possibile fare, quello che vorremmo ma sappiamo che è impossibile, e quello che forse vorremmo, ma è probabile che sia una scemenza anche solo pensarlo.
La recente protesta degli atenei italiani contro la cosiddetta "riforma Gelmini" (in realtà contro la 133, vale a dire la finanziaria 2009, che include anche i tagli previsti per la scuola e l'università) segnala, io credo, due distinti problemi. Da un lato ci sono gli studenti, che giustamente reclamano un'università migliore (quale che sia, è sempre migliorabile, e la nostra lo è di molto). D'altro canto c'è una parte non piccola del personale universitario che mi pare fortemente arroccata su posizioni conservatrici, e che vorrebbe semplicemente che non si facesse nulla. Come esempio riporto un pezzo che circola in rete (a me è arrivato su Facebook):

UNIVERSITA' Parla la politologa Nadia Urbinati docente di teoria politica alla Columbia University di New York: «Il modello Usa? Non in Italia»
Teresa Pullano
[dal manifesto del 31/10/08]
Il governo dice di ispirarsi al modello americano e usa l'argomento della meritocrazia contro la «casta» universitaria.
Il modello americano si regge su un'etica che in Italia è un bene scarso. Negli Usa un caso come quello del figlio di Bossi (bocciato all'esame di maturità e poi riammesso dal Tar, ndr) oppure come quello della stessa Gelmini che, per avere l'abilitazione da avvocato, da Brescia è scesa a Reggio Calabria, finirebbero sotto inchiesta e a entrambi verrebbe chiesto di dimettersi. Sono episodi che denotano tutto fuorché il valore del merito, ma in Italia non destano nemmeno scandalo. Senza controllo censorio non c'è meritocrazia possibile. L'università italiana non ha bisogno di nessuna riforma, ne sono già state fatte troppe


Questo pezzo è interessante per le due cose che dice. Per prima cosa, il solito "eccezionalismo mediterraneo": quello che fanno gli anglosassoni per noi non va bene perché loro hanno un'etica, noi no. A parte che per sostenere questa tesi si sottovaluta il peso che hanno avuto le critiche al caso "figlio di Bossi" e al caso "abilitazione della Gelmini", che invece sono stati ampiamente dibattuti dai media, è un argomento al limite del razzismo, e immaginatevelo usato da qualche italiano parlando di albanesi o egiziani o senegalesi: suonerebbe vergognoso. Eppure il gioco di autodenigrazione nazionale può invece proseguire imperterrito, senza tener conto del fatto (storico) che l'etica si costruisce nella prassi (è un modo di fare le cose, non un programma genetico), e che al Regno Unito sono bastati 10 anni di riforma per passare da un sistema universitario bolso e clientelare come il nostro a un modello che attrae cervelli e produce ricchezza materiale e intellettuale.
La seconda cosa, ovviamente, è che "L'unversità italiano non ha bisogno di nessuna riforma", frase che certamente suonerà come musica alle orecchie di chi organizza i concorsi, di chi non ha mai tempo per la didatica, di chi investe il suo tempo nello studio professionale e non nella ricerca.
Del resto, bisogna anche evitare il gioco speculare del benaltrismo, per cui le proposte della Gelmini sarebbero inutili, visto che il vero modo di risolvere la questione è, appunto ben altro.
Il professor Guido Martinotti, ordinario all'Istituto di Scienze Umane di Firenze, scrive oggi sul Corriere della Sera che la recente decisione del ministero di procedere alla formazione delle commissioni d'esame estraendo a sorte tra un pool di docenti votati di estensione tripla a quello dell'effetiva commissione, è in realtà un espediente inutile, dato che, comunque, ogni docente ha i suoi "da portare in cattedra" e non farà altro che quello ai concorsi, qualunque sia il modo in cui è finito in commissione. L'argomento è specioso dato che non è vero che tutti hanno allievi da sistemare di una certa qualità da poter difendere in una commissione parzialmente "casuale",  in cui ci può essere finito qualche "nemico". Un conto è organizzare una commisione compattamente fedele, un altro fare i conti con avversari che hanno i loro pupilli. Io dico che così sarà certo più difficile "portare in cattedra" persone impresentabili, e questo mi pare un merito.
Si noti, en passant, che Martinotti sostiene che in fine dei conti il sistema fin qui non era male, dato che "i docenti hanno sviluppato pratiche di accordi preventivi di massima che tendono a ridurre i danni del sistema, soprattutto che entri in commissione il docente marginale con un candidato imprensentabile", e forse questo è vero per il suo settore scientifico disciplinare, ma per altri sicuramente la situazione è proprio l'opposta: docenti non certo marginali che si consorziano per far passare candidati a volte "impresentabili", mentre i docenti "marginali", anche se hanno qualche allievo più che decente, in commissione non ci arrivano mai perché non ci sono le cordate che li votano.
La proposta del professor Martinotti è però interessante, e spero che i nostri rappresentanti ne tengano conto nella discussione parlamentare:

Basta una norma che dica che, nei prossimo concorsi da ricercatore (sono migliaia), nessuno possa candidarsi nell'Ateneo in cui ha conseguito la laurea o il dottorato di ricerca (o ha avuto assegni di ricerca), che non possa ritornarci per almeno cinque anni e che il suo "maestro" non possa entrare in alcuna commissione che lo esaminerà.

Benissimo, mi piace, basta che non si prenda, ora, questa proposta  come la panacea. Il prof potrebbe infatti (come è già avvenuto in molti casi) procedere a nepotismo letterale: invece di sponsorizzare il pupillo in un concorso da lui presieduto, lo impone a un professore (di un altro ateneo) che lui "ha messo in cattedra" e che comunque gli deve la carriera: illo tempore ho sistemato te, ora tu sistemi lui. Questo permetterebbe a baroni di lungo corso di continuare a pilotare concorsi anche se il candidato non ha fatto il dottorato nella sede di concorso.
Unendo invece le due proposte (sorteggio e divieto di candidarsi "in casa") i rischi di inghippi clamorosi verrebbero ridotti moltissimo, che è quello che bisogna fare, senza cercare la soluzione perfetta.

venerdì 7 novembre 2008

Fa sul serio

E' arrivata fresca fresca la comunicazione del Direttore Generale del Ministero che informa che sono sospese le tornate elettorali per la costituzione delle commissioni di concorso previste per la prossima settimana:

Oggetto: Consiglio dei Ministri del 6 novembre 2008 - Decreto legge recante misure urgenti per leUniversità e gli Enti di ricerca.

Comunicasi che il Consiglio dei ministri del giorno 6 novembre u.s. ha approvato un decreto legge recante misure urgenti per l'Università e gli enti di ricerca, tra le quali, nuove modalità per la costituzione delle commissioni di valutazione comparativa per i posti di professore di I e II fascia, e di ricercatori. Tali disposizioni si applicano, con effetto immediato, anche alle procedure in corso per la costituzione delle predette commissioni, già programmate nei giorni 10-19 novembre p.v. Tali procedure sono, pertanto, sospese con effetto immediato. Tale decreto, comunque, non blocca i concorsi e non inficia la validità dei bandi già adottati dagli atenei. Questa Direzione Generale provvederà a comunicare nei prossimi giorni le nuove date per la costituzione delle commissioni, secondo la nuova disciplina, le cui procedure si terranno nel più breve tempo possibile e comunque prevedibilmente non oltre il prossimo mese di gennaio 2009.
IL DIRETTORE GENERALE (Dott. Antonello Masia)

Significa che la Ministra Gelmini ha mandato a scatafascio un bel giro di telefonate di accordi preliminari per individuare i candidati da votare compattamente secondo le varie cordate. Ci sarà da ridere. E io dico che qualcuno a questo punto farà saltare qualche concorso, dato che non è più sicuro di poterlo pilotare fino in fondo. Si accettano scommesse.

Invito

La signoria vostra è invitata a partecipare a "Happy Achab", festa per celebrare i cinque anni della rivista milanese di antropologia.
Domenica 9
alle 18.30
via Frisi, 3, Milano

Ci sarò anch'io per provare a dire la mia sull'ultimo numero (dedicato al "genere") e sul rapporto tra media e divulgazione.

giovedì 6 novembre 2008

Il patriottismo e i suoi futuri


Nel 1993 (molto, molto prima dell'11 settembre) Arjun Appadurai, un antropologo indiano che ho citato già su questo blog, scrisse un saggio sul "patriottismo e i suoi futuri". Ho insegnato quel saggio per diversi anni, ma solo dopo l'11 settembre, e mi sembrava irrimediabilmente datato, il segno di un'utopia perduta, come rileggere i giornali scritti prima di una partita importante che la tua squadra ha perso: vedi solo tanta speranza buttata al vento, perché tu, vedendo le cose da dopo sai che non è andata come si sperava. In quell'articolo Appadurai parlava di un'America potenzialmente in grado di diventare uno snodo delle identità senza ridursi al loro luogo d'arrivo, un transito positivo di rielaborazione, che la chiusura consenguente al trauma delle Torri Gemelle sembrava aver vanificato. L'America, soprattutto, come punto di riferimento per altri parti del mondo, che a lei guardano. Dopo l'elezione di Obama sento che quelle parole possono riprendere vita. Ecco le parole di Appadurai (pp. 227-228):
Per gli Stati Uniti, cominciare ad assumere un ruolo di primo piano nella politica culturale di un mondo postnazionale ha complesse implicazioni sul piano domestico. Può voler dire creare nuovi spazi per la legittimazione dei diritti culturali, diritto cioè (garantiti e protetti) al perseguimento della differenza culturale. Può significare la difficile rottura con una concezione dell'economia americana ancora fondamentalmente fordista e incentrata sulla produzione di beni, per imparare a diventare intermediari globali di informazione, fornitori di servizi, insegnanti di stile. Può significare accogliere come parte del nostro vissuto quello che finora abbiamo confinato nel mondo di Broadway, Hollywood e Disneyland: l'importazione di esperimenti, la produzione di fantasie, la fabbricazione di identità, l'esportazione di stili, la lavorazione delle pluralità. Può significare infine distinguere il nostro amore per l'America dalla disponibilità a morire per gli Stati Uniti. Quest'ultima idea concorda con la proposta di Lauren Berlant (The Anatomy of National Fantasy, 1991, p. 217): "Il soggetto che voglia evitare quella melanconica pazzia dell'autoastrazione che chiamiamo cittadinanza, e resistere alla lusinga di poter sconfiggere da solo il materiale contesto politico in cui vive, deve sviluppare una tattica per rifiutare l'intreccio, vecchio di quattrocento anni, tra gli Stati Uniti e l'America, tra la nazione e l'utopia".


Obama sembra avere questa capacità, di fornire un senso di appartenenza più emotivamente saldo della frigida "cittadinanza", eppure abbastanza vasto da sconfiggere il rischio (non solo americano, oggi) del "noi contro tutti": una cittadinanza profonda e sentita, che dia nuovo spessore morale alla parola "patriottismo", che non ha più bisogno di ancorarsi ai confini degli stati nazionali. Questo, credo, potrebbe essere il compito di Obama: aprire lo spazio per un patriottismo postnazionale, dentro cui non serva dire "siamo tutti americani" ma "Obama è il mio presidente, anche se io non sono americano".

mercoledì 5 novembre 2008

L'America e gli Stati Uniti

Ho appena ascoltato il discorso di Obama vincitore. Ora che è andata, posso dire di essere molto felice che abbia vinto lui. E' la vittoria dell'America sugli Stati Uniti, del sogno sul cinismo, della speranza sulla necessità.

Obama è un grandissimo retore, ha parlato per 17 minuti senza buttare un occhio agli appunti, come stesse improvvisando. E poi ha una qualità che non riesco a trovare in nessun politico italiano. Anzi, che nessun politico italiano prova mai a perseguire (a parte Veltroni e Bertinotti, con alterni risultati direi), vale a dire la capacità di commuovere i suoi interlocutori. Ascoltando il discorso di Obama mi sono dovuto asciugare un paio di volte gli occhi. Da noi regna il cinismo, la voglia di sparlare dell'avversario più che di far sognare chi ascolta. Avete sentito le parole che Obama ha detto di McCain? E quelle dello sconfitto nei confronti del nuovo Presidente? Nessuno in Italia potrebbe mai proporre un simile rispetto per l'avversario. Ma forse è proprio questa la differenza tra noi e loro: sanno ancora sognare, sanno ancora crederci.

Per questo non ho mai capito gli antiamericani di professione, si perdono il pezzo migliore del genere umano (l'America) per paura di quello peggiore (gli Usa), e non riescono ad accettare che i due convivano nello stesso identico posto.

martedì 4 novembre 2008

Mercato delle vacche


Ha scritto ieri, sul Corriere della Sera, il solito utilissimo Francesco Giavazzi:
Il problema più urgente è la pioggia di concorsi universitari già banditi: un totale di 4-5 mila posti che, tranni casi rari, non apriranno le porte delle università ai giovani, ma promuoveranno docenti e ricercatori che già lavorano nell'università e spesso vi sono entrati senza alcun vaglio (...) Inoltre, nel caso dei 1.800 posti di professore, i vincitori non saranno 1.800, ma 3.600. Infatti le commissioni nominano 1.800 professori per i quali il posto non c'è!

Visto che chi non frequenta i concorsi e non è interno all'università difficilmente può sapere a cosa si riferisce il professor Giavazzi, credo sia il caso di chiarire le cose per gli esterni, dato che l'informazione è un bene tanto prezioso. Da circa un quindicennio gli Atenei possono bandire concorsi per il personale docente in autonomia. Non c'è quindi un concorso nazionale ma ogni ateneo chiama i posti che gli servono. Per diversi anni i posti da professore sono stati banditi in forma curiosa: io, Ateneo, ho bisogno di un posto poniamo di associato, che mi serve per "promuovere" il mio ricercatore che è ricercatore da tanti anni e che poverino è ora che faccia uno scatto di carriera (non importa se ha i titoli e le pubblicazioni, spesso il criterio è stato l'anzianità o la protezione clientelare). Bene, la commissione è composta da un "membro interno" nominato dalla Facoltà presso cui si bandisce il concorso, e da un numero (variabile a seconda del tipo di concorso, da ricercatore, associato o ordinario) di membri eletti democraticamente tra tutti gli eleggibili indicati sul sito del Ministero. Ovviamente il "membro interno" sa chi è il candidato che dovrebbe vincere il posto in quella sede e normalmente lo sa anche tutta la Facoltà, che può infatti predisporre (nel testo del bando) un "profilo" del tipo di docente che gli serve. Così, se il candidato che si vuole che vinca il concorso ha pubblicato qualcosa su "pippologia applicata e teorica" e conosce molto bene l'esperanto, nel profilo accluso nel bando si specificherà che la Facoltà ha bisogno di un docente esperto di pippologia che parli bene l'esperanto, perché è esattamente questo che può servire al bene della Facoltà.

Fin qui, tutto abbastanza semplice. Ma la vera raffinatezza si raggiunge con il sistema delle "idoneità", il vero meccanismo che consente le alleanze tra Atenei di gestire il mercato delle vacche. Per ogni posto che viene effettivamente bandito (per ogni posto per cui si apre una partita stipendiale presso l'Ateneo che lo ha bandito) fino a quattro anni fa era possibile indicare TRE "idonei". In pratica, la commissione indicava tre nomi che avevano meritato l'idoneità a quel posto, tra cui la Facoltà "liberamente" ne "sceglieva" uno, guarda caso conforme al "profilo" previsto dal bando. Il bando cioè specificava che i candicati non venivano giudicati dalla Commissione in base al profilo, dato che la Commissione giudicava insindacabilmente sui titoli, sulle pubblicazioni e sulla prova d'esame (quando prevista, cioè per i concorsi da ricercatore e associato), e spettava alla Facoltà chiamare tra i tre "idonei" quello con il curriculum più consono al profilo richiesto dalla Facoltà. Visto che nella terna di idonei, com'è, come non è, capitava sempre un candidato (guarda caso già dipendente di quell'univesità) che corrispondeva al profilo, la Facoltà lo chiamava di buon grado.

E gli altri due idonei, ciccia?

No, calma. Il punto è tutto qui. Torniamo alla Commissione. Come ho spiegato, solo un membro è nominato dalla Facoltà che bandisce il concorso, mentre gli altri sono eletti. Per essere eletti bisogna ovviamente prendere i voti dei colleghi, e per prenderli bisogna fare campagna elettorale. Il gioco è questo: il membro interno inizia a fare un giro di telefonate per verificare chi si sia candidato a quel concorso. Chiama i colleghi cui fanno riferimento alcuni candicati e inizia la trattativa: io voglio far passare Tizio, il mio candidato, e non ho problemi a far passare Caio, il tuo candidato. Perché non mettiamo assieme il mio voto, il tuo, e quelli delle nostre rispettive cordate per eleggere il Commisario Tal dei Tali che sarà favorevole al mio Tizio e al tuo Caio? Per chiarire, le "cordate" sono le diverse "scuole", per cui un professore ordinario chiama gli associati e i ricercatori cui ha fatto vincere il concorso e dice loro: a questa tornata votate per il Tale dei Tali, in modo che il nostro candidato Tizio possa vincere il concorso. Stesso discorso per l'altro candidato, Sempronio. Il suo professore di riferimento, il Tal Altro, viene contattato dal membro interno, con lo stesso discorso: io, il Tale (che ho già contattato ed è d'accordo) e tu, Tal Altro, abbiamo tutti e tre dei candidati in questo concorso. Se uniamo le forze, possiamo far assegnare l'idoneità ai nostri tre candidati. Poi, la mia Facoltà chiamerà subito il mio, perché il posto è bandito nella mia Facoltà e il profilo corrisponde. Ma con un po' di calma e un po' di trattativa politica (le idoneità sono valide tre anni) anche voi due riuscirete a convincere i presidi delle vostre facoltà (di altri Atenei, non dimentichiamo) a chiamare i vostri idonei, tanto tutti ne hanno da guadagnare. Infatti un preside si vede avvicinare dal Tal Altro che gli dice: guarda, il ricercatore Sempronio della Nostra Università ha vinto l'idoneità al concorso bandito dall'Altra Università. Ora, un ricercatore ti costa Tot, e se lo chiamiamo come associato ci costa un Tot+50 percento. Ma tu, Preside, dove cavolo li troveresti i soldi per bandire una partita stipendiale ex novo da associato su questo settore? Meglio che fai un piccolo sforzo e chiami Sempronio, che così si trova di fatto "promosso" da ricercatore ad associato. La nostra Facoltà così avrà un associato in più, senza nemmeno correre il rischio di bandire un concorso che Sempronio avrebbe potuto anche perdere.

Così, con il sistema delle idoneità e l'incrocio di alleanze, per molti anni si sono banditi x posti ma si sono poi piazzati 3x candidati, intasando le facoltà spesso di personale non esattamente alla massima altezza delle qualificazioni.

Sia chiaro: NON C'E' NULLA DI ILLEGALE IN TUTTO QUESTO. E' pura democrazia rappresentativa. Ma il risultato è stato per molti anni che vincevano i concorsi non i candidati più capaci, ma quelli agganciati alle cordate più dinamiche, più in grado di sfruttare alleanze incrociate.

Letizia Moratti, consapevole di questo sconcio, aveva abolito il sistema delle idoneità quando era ministro dell'Università e per qualche anno ci sono stati "strani" concorsi in cui c'era un posto solo, senza idoneità "aggiunte", vale a dire molto meno appetibili per le cordate incrociate (vuoi che faccio passare il tuo candidato, ma io cosa ci ricavo in cambio?).

La legge 244 del 24 dicembre 2007, vale a dire la "FINANZIARIA 2008", con uno strano emendamento (chiedetevi chi l'ha fatto passare, e perché) ha reintrodotto il sistema delle idoneità fino al 30 giugno 2008, riducendole a due. Vale a dire che le Facoltà si sono letteralmente buttate a pesce per bandire l'ultima tornata concorsuale con il sistema delle idoneità, che garantisce il mercato delle vacche e lo scambio dei voti sui condidati. E' a questo che si riferisce il professor Giavazzi quando dice che "le commissioni nominano 1.800 professori per i quali il posto non c'è!". Dato che siamo in epoca di ristrettezze, e che un nuovo posto viene bandito se altri cinque vanno in pensione, significa che, a parte i 1.800 che vinceranno, gli altri 1.800 "idonei" prenoteranno tutti i posti da associato e ordinario sicuramente per i prossimi tre anni, ma io sono sicuro che, dato che tre anni non saranno sufficienti per mandare in cattedra tutti gli "idonei", la CRUI o qualche altro organismo di pezzi grossi dell'Università chiederà una proroga della validità delle idoneità, per cui i posti saranno prenotati per i prossimi cinque anni minimo. In barba al merito. Perché chi non ha cordate di riferimento, chi ha vinto il concorso da ricercatore in condizioni "strane" (perché la commissione non è riuscita a trovare un accordo preventivo sui vincitori o perché, per diversi motivi, la commissione è stata eletta senza cordate) non ha alcuna speranza di vincere uno dei prossimo 1.800 concorsi, non importa un fico secco quali siano le sue credenziali.

La ministra Gelmini potrebbe semplicemente diramare una circolare e dire che i concorsi banditi non avranno idoneità e le Facoltà non dovranno chiamare in base ai "profili". Con questo semplice gesto molte delle cordate che si stanno organizzando non avrebbero più ragione d'essere, o si troverebbero di molto complicato il raggiungimento dei loro obiettivi, dato che se vengono cancellate le idoneità, l'unico modo per accordarsi è scambiarsi i commissiari compiacenti su DUE concorsi (io vengo a promuovere il tuo in quel concorso, tu vieni al mio in quell'altro) ma per fare questo ci vogliono cordate molto corpose, dato che le commissioni da eleggere sono due, vale a dire il doppio dei voti.

Morale della favola: per dare dignità all'università italiana basterebbero poche azioni mirate. E basterebbe cominciare a chiedersi seriamente non solo cosa vuole fare la ministra Gelmini, ma anche chi ha pensato bene di reintrodurre il principio delle idoneità nell'ultima finanziaria votata dal Governo Prodi, e per quali fini è stato rimesso in piedi un meccanismo così smaccatamente clientelare.