Il modo in cui il Governo e le autorità preposte alla
gestione della crisi del Covid-19 stanno gestendo l’organizzazione della
fase
2 è degno di un’analisi
simbolica. È la mia fissa: continuo a dire
che questa crisi deve renderci consapevoli che
l’utilità è l’ultima
delle
motivazioni dell’agire umano se si pensa che l’utilità delle
azioni sia
razionalmente, o
oggettivamente o, peggio,
naturalmente
fondata, dato che le culture
stabiliscono ciò che è utile, e una volta che
l’hanno deciso con
procedure culturali (non economicamente, non
politicamente, non biologicamente) iniziano a
perseguirlo tutte tronfie
della loro
presunta razionalità (motivo per cui chi fa proposte
diverse
da quelle che noi propugniamo come
ovvie, giuste e ragionevoli, o è un
ignorante,
o è uno
stupido, o è un
manigoldo, con tutto quel che ne consegue
sulla tenuta politica delle società in cui domina questa concezione della
practical
reason).
Giovedì 23 aprile il presidente dell’ISS,
Franco Locatelli
e membro del
Comitato tecnico-scientifico che consiglia il governo per
la fase 2, ha spiegato la
ragionevolezza della decisione, unica in
Europa, di non riaprire le scuole
almeno fino a settembre, perché altrimenti
l’indice di R zero
salirebbe oltre l’1 per cento. È non solo utile, ma
addirittura
necessario, contenere l’indice R zero
sotto l’uno per
rallentare la diffusione del contagio e
impedire il
collasso del
sistema sanitario. Circola da un paio di settimane un video della
Cancelliera Merkel che spiega, con la
precisione
che il suo invidiabilissimo
dottorato in chimica quantistica le garantisce,
quanto sia utile tenere l’indice R zero inferiore a 1: a seconda della
percentuale
di superamento di quella soglia, si può
prevedere con una precisione quasi
assoluta il momento in cui il sistema sanitario verrebbe
saturato.
Dovrebbe però far riflettere sul concetto di “utilità” il
fatto che in Germania la fase due, iniziata già da una settimana, ha previsto
anche
l’apertura (parziale, modulata, ricca di precauzioni) delle
scuole.
Evidentemente, direbbe uno strenuo difensore
dell’oggettività dei
numeri, da noi non ci sono le
condizioni per poter pensare a una riapertura
delle scuole, anche se la gran parte dei paesi europei colpiti dal virus hanno
programmato la riapertura (oppure non
avevano
mai chiuso le scuole).
Ci sono però due differenze oggettive tra la
condizione italiana e quella di tutti gli altri paesi europei.
1. Diversamente che nel resto d’Europa (tranne Spagna e
Regno Unito, dove comunque si sollevano
dubbi sulle direttive governative)
non c’è alcuna progettazione
in vista. Siamo all’
aspetta e spera.
Da padre, la prima reazione di fronte a un tale
livello di odioso paternalismo è stata “ma come te ne esci?”. Ma da antropologo
mi pare un sintomo interessante, una di quelle crepe del Reale
attraverso cui traspare la sua strutturazione simbolica.
La totale mancanza di alcuna progettazione su quando
e come apriranno le scuole sembra la delega allo spazio
domestico del problema della riproduzione sociale, mentre si è
deciso di affrontare la soluzione del problema della produzione
economica, come se le due fossero separabili. Soprattutto, si delega la riproduzione
sociale per intero alla sfera privata, dentro lo spazio domestico,
mentre ci si organizza praticamente nello spazio pubblico su come
ripartirà la produzione.
Come ho già
detto,
la concezione di
fondo
è quella che contrappone uno spazio
privato,
domestico,
sostanzialmente
sicuro, a uno spazio
pubblico invece
pericoloso
in sé, nonostante i dati del mese di aprile pubblicati dalla
Fondazione
Bruno Kessler pongano la
casa (con il 24%) al secondo posto (dopo le
RSA, cioè altre case, che hanno il 44%) per
numero
di persone contagiate. Se cioè si mettono assieme le case di riposo, gli spazi
domestici e gli ospedali (quasi l’11%),
quattro casi su cinque di contagio
nel mese di aprile si sono avuti negli
spazi chiusi che
presuntivamente
avrebbero dovuto essere quelli
più sicuri.
Incuranti del dato di fatto, si continua quindi a
progettare quel che “utile” simbolicamente (la separazione tra spazio privato
della cura e spazio pubblico della produzione) e pur di confermare
la legittimazione morale di quella contrapposizione sociale si traduce la
produzione di cittadinanza (ché questo è il lavoro dell’educazione
scolastica) in cura privata dei corpi fanciulli (“teneteveli a
casa e scordatevi alternative”).
Lo so che non è un concetto semplice e che spesso il gergo
delle scienze sociali diventa incomprensibile, ma voglio provare a essere chiaro,
in modo che chiunque faccia un po’ di sforzo possa comprendere la vera natura
di quel che sta succedendo.
Quando Locatelli dice “scordatevi i centri estivi e gli oratori”
sta dicendo: dovete continuare a tenervi i figli minori a casa e a non
far loro condividere spazi pubblici con altri bambini.
Dice questo mentre dice anche: dovete pensare a tornare al lavoro,
abbiamo bisogno di far ripartire l’economia, lo faremo con tutte le cautele
ma lo faremo, lo stiamo facendo.
Per quanto riguarda invece l’educazione, la vita
sociale dei vostri figli, non stiamo facendo nulla e anzi vi
facciamo notare che il nostro piano è che ve li cucchiate voi, ancora a
lungo. Senza alcuna indicazione del progetto, dato che progetto non c’è
né ci può essere in questa condizione.
Perché data questa condizione (non abbiamo idea se ci
sia immunità, né quanto duri, né abbiamo all’orizzonte un vaccino
o una cura per la malattia conclamata) non ci sarà mai la
possibilità di pensare al ritorno della socialità pubblica per i bambini,
quindi la riapertura di scuole e oratori, dato che non ci sarà mai
un tempo (nella condizione attuale) secondo cui i bambini potranno
relazionarsi da vicino, giocare, interagire e, ma guarda un po’, contaminarsi
anche con virus e batteri, come sempre hanno fatto i bambini.
Siamo di fatto paralizzati
in questa concezione dello spazio: se tutto il pubblico è pericoloso, si
privatizza quel che si può, riconducendolo alla presunta sicurezza
della sfera domestica, addomesticandolo letteralmente. “Scordatevi gli
oratori e i centri estivi”, con il tono irritante del patrigno di fronte
ai figliastri riottosi, significa solo che mentre la produzione non
regge più di tanto alla sua riduzione al domestico, e tocca tornare
nei “posti deputati”; l’educazione dei nostri figli, la loro socializzazione
come cittadini che condividono lo spazio pubblico (la scuola, l’oratorio,
il centro estivo, il parco, il campo sportivo) si può posporre a piacere
o, meglio, a dovere, perché “non ci sono alternative” e dobbiamo essere pratici,
mica possiamo perder tempo a far filosofia sulla bellezza dell’educazione
e sulla funzione socializzante del gioco.
Basterebbe prendere sul serio
i dati sui contagi di aprile e impostare una strategia consona, per ribaltare
tutta la prospettiva. Poniamo che il nostro sistema culturale avesse posto come
primariamente utile il trasferimento intergenerazionale dei
valori, quella che chiamiamo appunto educazione, e non il contenimento
dei contagi. Poniamo eh! Il mio vuole essere solo un esperimento mentale.
Se quel che conta è il trasferimento
delle conoscenze attraverso le generazioni e non, poniamo, la “solidità
del nucleo domestico”, come ministro dell’istruzione il mio obiettivo sarebbe
stato antitetico a quello che si è finora praticato. Qui abbiamo ridotto
l’educazione a una rogna che devono sbrigare i genitori a casa
(senza ottenere alcuna esenzione dai doveri lavorativi, se non a caro
prezzo) con il risultato che ci si infetta tra parenti conviventi a forza di stare
assieme. In un altro contesto valoriale si sarebbero tenute le scuole
aperte, si sarebbero controllati regolarmente tutti gli
adulti del settore educativo (come si sarebbe dovuto fare, e nei casi di successo
si è fatto, con il personale medico e paramedico degli ospedali) e si sarebbero
imposte forme di controllo dentro la famiglia, per evitare che le giovani
generazioni infettassero genitori e nonni coi virus presi a scuola,
che i figli e i nipoti venissero infettati dai virus portati a
casa dalle RSA o che i genitori infettassero nonni conviventi
e figli con i virus presi sul posto di lavoro.
In questo strano mondo, le
lezioni e i compiti i ragazzi li avrebbero fatti a scuola, così come a
scuola, al parco e all’oratorio avrebbero potuto giocare e infettarsi;
mentre le norme di prevenzione i parenti conviventi le avrebbero fatte
rispettare dentro casa: mascherina, distanza di sicurezza, lavaggi
frequenti, evitazione del contatto fisico.
Vedo già lo sguardo perplesso del
familismo italiano: ma come, e ogni scarrafone? E i piezz’e
core? E le mamme che imbiancano? Io non ho nulla contro questo
sistema di valori, ma mi basta che si riconosca pubblicamente che “l’utilità”
della chiusura delle scuole dipende da questa primazia morale
dell’immagine della famiglia come sistema sociale protetto che occupa
uno spazio fisico protettivo, la casa. Un’immagine che io
chiamo culturale, ma che qualcuno potrebbe serenamente dire ideologica. Non
sto dicendo che paesi come la Danimarca o la Corea del Sud siano “meno
ideologici”, ma piuttosto che hanno messo in atto un’altra ideologia,
una gerarchia di valori diversa dalla nostra.
Non siamo condannati a
tenere le scuole chiuse, non è vero che l’indice R zero si alzerebbe necessariamente
se le scuole riaprissero domani. Si alzerebbe (e si alzerà comunque,
quando le scuole apriranno) perché pensiamo pregiudizialmente che le
strade siano insicure e che le case siano sicure, e quindi non
facciamo abbastanza per tenere il virus sotto controllo dentro le mura
domestiche. Che lo spazio privato della casa sia sicuro è una favola. Neppure
molto bella se aggiungiamo i dati della violenza domestica. E credere
alle favole è parte essenziale della nostra condizione umana. Non dimentichiamoci,
però, che possiamo ancora scegliere che favole vogliamo raccontarci,
e quella alle quali vogliamo credere.