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lunedì 5 marzo 2007

Devoti e basta (altro che atei)

Giuliano Ferrara, come gli capita regolarmente, “la ga strassada”, dicono dalle parti mie.
“Strassarla” significa portare una qualunque posizione all’estremo, tanto da renderla stucchevole e insopportabile anche agli originari sostenitori. “La strassa”, tipicamente, chi insiste con un tormentone che per un po’ era stato divertente, o chi continua a ribadire un concetto anche quando è chiaro a tutti che è chiaro a tutti.
Ho letto con una certa regolarità il Foglio per circa quattro anni. Non che avessi all’inizio particolare propensione per la parte politica che evidentemente ne esprimeva la linea editoriale, per così dire, ma trovavo veramente irresistibile l’intelligenza che sprizzava da quelle quattro pagine fitte. E poi c’era la “Piccola posta” di Adriano Sofri (che ancora resiste, per fortuna) e le questioni americane le spiegava già allora Christian Rocca (per me l’incarnazione dello spirito originario del giornale, in lui, vivaddio, rimasto immutato: posizioni anche dure, ma mai banali, sempre documentatissime, sempre aggiornatissime, comunque intelligenti e che sollecitano una presa di posizione argomentata da parte di chi legge) e poi ci scriveva il mio vero, grande, assoluto amore, cioè Guia Soncini, che quando ho iniziato a leggere il Foglio scriveva una fulminante rubrica quotidiana (“La deficiente”) sulla televisione, per poi diventare una specie di anima inquieta e sempre più critica del giornale, fino ad andarsene.
Non sopportavo, all’epoca, il modo pateticamente tendenzioso secondo cui veniva riproposta la storia di Tangentopoli nel decennale degli eventi ripercorsi da Mattia Feltri in un pezzullo quasi quotidiano (“Mattia nel Terrore”) ma non potevo perdermi altre parti del giornale, come le geniali prese per il culo della colonna dedicata a Repubblica. Insomma, personalmente, il Foglio, agli inizi degli anni Duemila, aveva – per quanto possa sembrare paradossale o scandaloso a molti benpensanti degli schieramenti chiari e distinti – la stessa funzione che aveva avuto il manifesto negli anni Ottanta: una palestra di pensiero critico, con il quale spesso ero in disaccordo ma che comunque mi consentiva (diversamente dal resto della stampa mainstream) di ripensare la realtà politica e sociale con categorie che, da solo, non sarei stato in grado di elaborare.
Il caso Terry Schiavo è stato un esempio perfetto dello “stile-Foglio”: senza voglia preconcetta di stupire, ma solo con il rigore intelligente (illuminista, scriverei, se non fosse ormai un’offesa da quelle parti) di provare a capire che cosa stesse succedendo con la nuova disponibilità tecnologica che pone inedite questioni di etica e morale. Nessun altro mezzo di comunicazione, tutti in preda al conformismo del luogocomunismo, aveva avuto il coraggio di raccontare per intero una semplice verità, e cioè che il marito di Terry Schiavo, contro il parere e la volontà dei genitori della donna in stato vegetativo, aveva deciso di farla morire di fame e di sete. Una creatura sicuramente indifesa si vedeva sottrarre da un giudice, cioè dalla legge (da qualcosa di esterno alle relazioni private tra esseri umani, si vorrebbe) l’umanissimo diritto a essere accudita, protetta, vegliata. Non c’erano macchine a tener in vita “artificialmente” Terry, ma solo l’affetto dei suoi cari, che la lavavano e la nutrivano. I genitori di Terry avevano detto che volevano prendersi cura di lei, ma l’ex marito (nel frattempo risposatosi) ha imposto la sua volontà omicida, incassando l’assicurazione sulla vita della ex moglie. A me, grazie al resoconto che ne diede il Foglio, apparve ovvio che eravamo di fronte all’omicidio spaventoso (far morire una persona di fame e di sete è comunque orribile) di una persona totalmente innocente, compiuto da un uomo non contro la legge, ma con l’esplicito sostegno di questa.
All’epoca avevo parlato con diverse persone, e mi ero reso conto che nessuna di loro aveva capito dai mass media quello che stava succedendo, dato che tutti pensavano che si trattasse semplicemente di risolvere in modo indolore le sofferenze di una poveretta tenuta in vita da qualche macchina crudele, quando la questione era esattamente opposta: infliggere un dolore inaudito a una poveretta che non stava soffrendo e che aveva l’unica colpa di essere l’ostacolo materiale tra un uomo e una polizza assicurativa. Quando ho raccontato a quelle persone come stavano le cose, ho visto che cominciavano a pensare all’intera questione in modo diverso. Grazie al Foglio.
Poi c’è stato il referendum sulla procreazione assistita, e anche in quel caso ho apprezzato la volontà del giornale di non schierarsi preventivamente su posizioni preconfezionate (i cattolici contro, i laici a favore). Certo, durante la campagna referendaria mi sembrava che i toni andassero inasprendosi e la puzza di crociata si faceva sentire (la Soncini litigò mirabilmente con Ferrara, con un pezzo generoso che credo le sia costato la volontà di rimanere in redazione) ma noi lettori avemmo modo di complicarci un bel po’ le idee sulla genitorialità come diritto e come desiderio, e sul rapporto generale tra politica, desiderio e diritti.
Ecco, credo che il verbo giusto sia stato questo, per il Foglio: complicare. Fregarsene bellamente delle scatole preordinate dell’appartenenza (solo chi non l’ha mai letto può credere che il giornale di proprietà di Veronica Lario sia stato appiattito su posizioni ciecamente filoberlusconiane, dato che non sa nulla delle feroci polemiche che Ferrara ha aperto con quello che ironicamente chiamano “l’amor nostro”) per provare a scompaginare il quadro in nome della verità articolata e frammentata di ogni reale. Per uno che di professione fa l’antropologo questo atteggiamento non poteva non essere affascinante, molto affascinante.
Ma dal referendum in poi è stato un crescendo progressivo di semplificazione. Prima il dibattito sull’uso delle tecnologie genetiche, poi il modo battagliero di porsi sull’eutanasia, la sterile polemica antidarwiniana in nome di un creazionismo patetico, poi ancora i Dico e il matrimonio come espressione della famiglia “naturale”, il Foglio si è schierato così nitidamente sulle posizioni delle gerarchie più retrive e potenti del Vaticano da diventare più filopapista dell’Osservatore Romano, e soprattutto da non riuscire più a sorprendermi, a darmi da pensare. Nel numero rosa di questa mattina Ferrara riesce a prendersela pure con l’auletta multireligiosa della Camera. E spiega: “Non era questo che intendevamo quando abbiamo sposato la battaglia per affermare laicamente un ruolo pubblico della fede”. L’incompreso Ferrara si trova costretto a puntualizzare: la saletta multireligiosa no, il cardinal Ruini sì. Bush newborn Christian sì, Ahmaddinejad newborn Muslim no.
Il problema, quando ci si mette su questa china, è che non si capisce in che modo si possa ancora parlare “laicamente”, se poi il ruolo pubblico della fede dovrebbe essere un bene solo se la fede è cristiana e una male se invece è altra, e solo se il luogo di quell’espressione pubblica è l’Occidente e un male se è altrove. Perché questo sembra sostenere il Foglio da qualche settimana: che sarebbe ora che il Cristianesimo riprendesse piede nella politica dei paesi occidentali (soprattutto in Europa, ché in USA se la cava già mica male come lobby politica) mentre sarebbe ora che la fede rientri nell’alveo del privato nel resto del mondo, per togliere spazio al fondamentalismo e a qualunque legittimazione “dall’alto” della violenza.
Ora, riconoscere che la religione stia recuperando, su scala planetaria, un ruolo politico impensabile fino a un paio di decenni fa è sicuramente un segno di intelligenza analitica. Ma prendere automaticamente come un bene questa nuova tracimazione del religioso nel politico (sapendo dalla storia con quanta fatica proprio l’Occidente si è costituito in quanto tale anche provvedendo a porre una rigida distinzione tra i due) è un segno di insipienza storica o di calcolata spregiudicatezza in nome di una parte, nella fattispecie quella religiosa.
Che differenza ci sia tra questa posizione espressa “laicamente” e qualunque posizione religiosa con aspirazioni egemoniche non mi è dato di capire. Non riesco cioè a comprendere su quali basi non fideistiche sul Foglio si sostengano contemporaneamente due posizioni antitetiche e inconciliabili per qualunque laico e cioè:
a) l’incompatibilità sostanziale dell’Islam (si badi, di tutto l’Islam, non solo di quello radicale) con l’Occidente per il fatto che l’Islam non è ancora riuscito a porre una chiara distinzione tra sfera della politica e sfera della religione (insomma, manca al mondo islamico una suo illuminismo compiuto) e
b) la necessità per l’Occidente di recuperare il ruolo politico della religione (“il ruolo pubblico della fede”, come dice Ferrara), che equivale a dire che va superata la distinzione illuminista tra sfera politica e sfera religiosa.
E questo dubbio è l’unico che mi rimane, oramai, leggendo il Foglio. Per il resto, si capisce tutto, è tutto chiaro, tutto semplice. Troppo semplice per essere ancora interessante per lettori come me, ormai ex lettori orfani, alla ricerca di altre spiagge dove fare i terzisti.