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lunedì 1 novembre 2010

Ma che colpa abbiamo noi?

Da quando ne è diventato direttore Gianni Riotta, anche l’inserto domenicale del Sole24ore ha preso “il web” a capro espiatorio di qualunque malefatta e nel numero di ieri (domenica 31 ottobre 2010) c’è una doppietta in fila indiana che merita un momento ulteriore di riflessione, anche per la sua natura paradossale.
In prima pagina il direttore in persona recensisce l’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, che ha per oggetto il falso e la sua proliferazione nel mondo degli uomini attraverso la vita fittizia del protagonista, spia e falsario, immaginato, tra l’altro, come autore del famigerato Protocollo dei Savi di Sion, un falso su cui ha campato (e in parte ancora campa) per un secolo l’antisemitismo internazionale.
Il romanzo si svolge nell’arco di tempo che va dal 1830 al 1898 (testuali parole di Umberto Eco ieri intervistato a Fabio Fazio), ma questa precisa collocazione temporale decisamente pre-elettronica non impedisce a Riotta di partire subito a questo modo: “Secondo le “teorie della cospirazione”, sul web, tutto quel che crediamo di sapere è falso...” e poi via elencando la consueta sfilza di scemenze sulle Torri Gemelle o sulla religione di Obama. Sul web? Perché sul web come se prima non ci fosse alcuna teoria della cospirazione, come se prima del web il mondo fosse cristallino nel trasmetterci informazioni pure? Il libro di Eco (e come dimenticare Il pendolo di Foucault) sta lì a ricordarci che l’ossessione paranoide, il gusto di produrre notizie a vanvera per spargere panico o sperare di orientare le masse di qui o di là, la pretesa di individuare un senso nella pratica politica, che spesso è banalmente insensata, insomma “le teorie della cospirazione” ci sono da ben prima del web. Avrò avuto una decina d’anni quando dalla parrucchiera di mia mamma (dove mi portavano a farmi i capelli dato che il barbiere di nonno aveva una visione piuttosto spartana del taglio maschile) rimasi impressionato dalle foto sgranate e in bianco e nero riportate in un settimanale che strillava la notizia che “John Kennedy non è morto!”. Eravamo una ventina d’anni prima del web, ma il mondo era già pieno di scemenze veicolate dal mondo dell’informazione.
Alla pagina successiva dello stesso numero del Domenicale un articolo di Sergio Luzzatto parte da un libro di Michele Battini (Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino, Bollati Borighieri) per estendere di molto il discorso al “rapporto che la società di oggi intrattiene con il vero e con il falso”, per finire però con il collegarsi idealmente al modello di Riotta, che vede “sul web” annidarsi la peggior strumentazione della propaganda e della falsificazione. Si parla cioè ancora dei Protocolli (un documento russo della fine dell’Ottocento) per arrivare alla fatidica conclusione: “Come pensare che le fortune odierne del negazionismo non incrocino le fortune della fabbricazione di bufale in rete?”. Di nuovo: perché in rete? Prima le bufale non si producevano? I Protocolli sono una strana eccezione? E’ proprio Luzzatto a ricordare (senza citarlo per esteso) il saggio di March Bloch dedicato alla costruzione di false notizie durante la prima guerra mondiale (La guerra e le false notizie, Roma, Donzelli, 1994; ed. or. 1921: ma non vi fidate, ho trovato questo riferimento bibliografico “sul web”, per cui sicuramente è falso) e io potrei aggiungere il quadro generale degli studi di storia sociale e di storia della mentalità, in cui il tema della costruzione dell’immaginario collettivo è stata studiata fin dai primi del Novecento (tutti conosceranno almeno per sentito dire il famosissimo La grande paura di Georges Lefebvre, pubblicato nel 1932 e riferito all’episodio di panico collettivo del 1789, qualche tempo prima delle bufale in rete).
Insomma, perché “Il web” dovrebbe essere la sentina di tutti i mali della comunicazione quando è accertato storicamente che la falsificazione e l’ideologia complottarda e paranoica veleggiavano tra gli esseri umani da sempre?
La risposta a questa mia domanda retorica si trova nello stesso articolo di Luzzatto. Il web sarebbe la fonte del falso perché non produrrebbe alcuna coscienza critica in senso filologico:

Oggi, chiunque sia insegnante - dalle scuole medie all’università - sa che i ragazzi hanno un unico criterio di verità: “L’ho trovato su internet!”. Oggi, il digital divide non separa soltanto chi ha l’accesso a internet d chi non ce l’ha: separa una generazione (la nostra) che ancora si è formata, bene o male, sulla forma-libro e sulla critica dei testi, da una generazione (quella dei nostri figli) il cui nativismo digitale significa un’impreparazione spesso totale rispetto alle insidie conoscitive della rete...

Insegno all’università dall’anno accademico 1999/2000, ma devo ammettere che non mi ero mai accorto dell’unico criterio di verità giovanile individuato da Luzzatto. Dev’essere una mia mancanza, non so. I miei studenti rubacchiano dalla rete quando pensano di poterlo fare (infatti smettono non appena li sgamo e faccio vedere loro che quando si tratta di reperire fonti in internet sono ancora più bravo di molti di loro), esattamente come come molti di noi rubacchiavano da studenti prendendo pezzi interi da libri che speravano il professore non conoscesse. Del resto è lo stesso Eco che, da qualche parte in Come si fa una tesi di laurea, suggerisce agli svogliati di trovarsi una tesi sul loro argomento in qualche ateneo lontano da casa e copiarla, sel’unico loro problema è quello di risolvere la pratica burocratica detta tesi di laurea.
E, per ribaltare l’argomento, ricordo lo sgomento stuporoso, misto a timor panico, con cui qualche compagno di liceo mi sussurrava che il nuovo prof di filosofia “ha fatto un libro! Ti rendi conto, ha fatto un libro!”, come se avesse camminato sulle acque o fosse risuscitato dai morti.
Insomma, quando noi “genitori” eravamo studenti, non eravamo, mediamente, più istruiti nelle raffinatezze della “critica dei testi” di quanto i nostri figli non lo siano oggi nella “critica delle fonti su internet”. La gran parte di noi e di loro si è arrabattata con timore reverenziale di fronte alla Cultura, perpecita come un luogo distante e ostile di preservazione del sapere, dove andare a saccheggiare qualcosa per la propria vita. Alcuni di noi, pochi, hanno invece elaborato (allora e oggi) un’idea della cultura come spazio di produzione del sapere, e quindi hanno allora imparato a maneggiare criticamente i libri e il loro contenuto come oggi maneggiano criticamente i siti e quel che dentro contengono.
La rete ha certo bisogno di guide, di punti di riferimento, ma non perché di suo sia più infida di una biblioteca, e la bliblioteca ha bisogno di essere approcciata criticamente non per consentire a chi la frequenta di sentirsi migliore dei poveri fessi connessi, ma perché la biblioteca è un luogo terribile, pieno di menzogne e paranoie, sempre più pieno anzi di pagine vuote di qualunque cosa che non sia l’ego malato di chi li ha scritte.
Resto comunque stupefatto dal paradosso che questo approccio impone: cercando di dimostrare come il passato ha inventato un capro espiatorio, un ebreo adatto per qualunque colpa, si riproduce curiosamente lo stesso meccanismo di discriminazione, adattandolo al contesto odierno: se prima era “il sionismo” il nemico della verità, non vorrei che tra qualche tempo ci toccasse di difendere “il web” da attacchi ancora più violenti, parimenti frutto di paranoie del tutto preconcette.