Sul New York Times di oggi, David Brooks racconta
come le pandemie, diversamente dalle guerre, che spingono i popoli a unirsi
al loro interno mentre i loro eserciti si combattono, portino a un indebolimento
della compassione, a una rarefazione quindi che è morale
oltre che sociale. Si sta alla larga per non infettarsi ma questo stare
alla larga assume un valore metaforico, è un prendere le distanze, è un
fregarsene relativamente.
Ancora più impressionante sembra essere la conseguenza culturale
di questo atteggiamento sul ricordo collettivo, sulla capacità cioè di elaborare
insieme quel che è successo. Racconta Brooks, per esempio, che a seguito
dell’influenza Spagnola morirono negli Stati Uniti circa 675 mila
persone, dodici volte di più dei 53 mila soldati morti durante la Grande
Guerra. Eppure, mentre della prima guerra mondiale si parlò a lungo, raccontando
vicende personali e collettive, la Spagnola non ha lasciato praticamente traccia
nella memoria collettiva americana. Io credo che questo dipenda anche dalla forma
del nemico, che nella guerra è sempre più narrabile in quanto antropomorfo,
e quindi più facilmente inscrivibile in forme narrative, ma Brooks insiste
sulla motivazione morale di questo silenzio del ricordo: non ci
piace ricordare i periodi in cui siamo stati “più cattivi”, vale a dire più
egoisti, meno sociali, più “rarefatti” come si dice ora. E sicuramente una
pandemia come quella che stiamo vivendo induce a questo atteggiamento di distacco
che è morale in quanto assume una forma fisica precisa, quella della “distanza”.
Il dramma che sicuramente stiamo vivendo è quindi insieme simbolico
e medico, e insisterei che sia chiaro che il simbolico è la forma
che per noi umani assume la questione medica, non è un di più spalmato sopra la
dura determinazione del reale, ma è proprio il modo comprensibile che il
reale prende per noi in questo periodo. Come esseri umani, stiamo vivendo
la trasformazione tecnologica dell’ultimo secolo come una progressiva (e
angosciante) perdita del “senso
del luogo” che ci ha trasportato in una virtualità sicuramente fascinosa (che
ci spinge a credere alla possibilità di avere un “io” senza corpo, ad
esempio, vale a dire “un’anima”) ma non di meno destabilizzante, dato
che come animali abbiamo costanti feedback organici che ci
riporterebbero lì, alle informazioni che raccogliamo con i nostri sensi
più ferini (la vista, certo, ma il tatto? E l’olfatto? Qualcuno
ha sentito parlare dell’olfatto nella comunicazione mediatica dopo il simpatico
ma fallimentare tentativo di Odorama di Polyester?).
È come se, per paradosso, il coronavirus fosse un alleato
di instagram che ci spinge a rifugiarci ancor più nel virtuale lontano dai
corpi, lontano dal contatto fisico, dagli odori che sono umori, dagli
umori che sono insieme stati d’animo e afflati letterali, fumenti vaporosi
del corpo dell’altro. Il mio amico Lorenzo D’Orsi, tra gli altri, ha
fatto notare come il Presidente del Consiglio abbia citato nella sua
perorazione alla nazione il sociologo Norbert Elias, cioè la sua
impressionante ricerca sul processo di
civilizzazione, che ci racconta che la modernità è stata in buona parte una
progressiva delimitazione dall’esterno dell’individuo, un contenere,
appunto, i suoi umori, gli sgocciolamenti, le perdite, le commistioni.
Tutto quello da cui oggi ci dobbiamo tenere lontano per il bene di tutti.
La mia amica Ornella Barbieri, commentando il mio post
precedente, mi faceva giustamente notare che dentro la famiglia non c’è
solo la sicurezza atavica del legame biologico, ma c’è anche la
possibilità di recuperare il sedimento prezioso di un sapere pratico e etico
che la rarefazione del virtuale rischia di sbriciolare per sempre. Le
facevo notare che probabilmente quel sapere tradizionale trasmesso nella
storia delle famiglie deve oggi (e con oggi intendo da quando abbiamo
cominciato a pensarci come moderni) per forza essere integrato con un sapere
inedito che dobbiamo costruirci a fatica, ma raccolgo con favore il punto di
discussione, che cioè dentro i legami sociali fatti di umanità fisica
ravvicinata non c’è solo la forza politica della manipolazione del
mondo, ma anche la forza morale della sua comprensione, almeno parziale.
Insomma, dentro la rarefazione ci costituiamo facilmente
come soggetti, individui isolati, e questo da un lato ci rafforza
perché ci illude di essere autonomi, dall’altro ci indebolisce
perché la parte biologica del nostro io continua a ricordarci che siamo
autonomi per nulla, che abbiamo bisogno come animali di cura,
contatto, protezione, relazione fatta di mani, sguardi, e anche incivili(zzate)
goccioline di saliva.
Allora penso a novembre scorso, alle piazze
improvvisamente piene di Sardine che non sapevano bene che ci stavano a
fare e se glielo andavi a chiedere ti guardavano spesso un po’ stupite. Forse
la folla aveva anticipato la situazione, ci mettevamo stretti stretti
ad annusarci, ci guardavamo negli occhi invece che negli schermi, ci contagiavamo
di un umore che era ancora solo uno stato d’animo, il bisogno di stare assieme.
Era un “insieme” che allora reagiva al “da soli” della politica urlata e vergognosa
che sembrava così facilmente vincente.
Avevamo capito che il sovranismo
avrebbe preso di lì a poco strade nuove, inaspettate, e non ci piaceva,
provavamo di nuovo a mettere in gioco i corpi, attualizzando quella che pomposamente
si dice la sovranità popolare.
Abbiamo bisogno di tornare presto a quel contatto,
senza il quale il nostro essere individui si inaridisce in una solitudine
di cui un poco ci vergogneremo e che cercheremo di dimenticare
appena possibile. Ma rimaniamo attenti, ché anche questa volta l’emergenza sta
instaurando abitudini nuove, ci sta cambiando, e tanto. Teniamo viva
quella nostalgia, quel bisogno degli altri, perché se ci facciamo
piacere questo nuovo modo rarefatto di relazionarci costruiremo, su scala
planetaria, un modo molto pericoloso di concepirci umani.