Un caro amico, un collega antropologo che considero uno dei miei pochissimi
maestri, mi ha chiesto ieri se avevo scritto qualcosa sul coronavirus.
Gli ho detto di no, ma ho anche ammesso che avevo un po’ di pensieri che
mi frullavano in testa da qualche giorno, e forse questa era la volta buona per
cominciare a mettere un po’ di ordine.
Da 12 anni, oltre che a Tor Vergata, insegno nel campus romano del Trinity College, un college americano
che ha sede a Hartford, in Connecticut e che ha diverse sedi esterne sparse nel
mondo, dove i suoi studenti (ma anche studenti di altri college e università
americane) possono passare un semestre durante il loro triennio di Bachelor.
Il Trinity
college avrebbero dovuto festeggiare quest'anno il cinquantesimo anniversario
del suo campus romano: c’erano un sacco di ex allievi previsti
dall'America, un gran gala, un sacco di iniziative. Cancellato tutto,
studenti partiti molto prima che la crisi divenisse nazionale, per la prima
volta in cinquant'anni abbiamo sospeso il programma di lezioni (stiamo
faticosamente riprendendo online).
Ho detto
ai miei studenti americani durante la prima lezione di quest'anno (quando il
coronavirus era solo in Cina) che Hartford ha iniziato 50 anni fa per via della
globalizzazione, cioè di prezzi del trasporti accessibili, comunicazioni
via via più semplici, turismo di massa che addomesticava i contesti
locali per le esigenze dei city users contro gli abitanti locali. Ora, con
il coronavirus ultimo arrivato dopo il terrorismo, dopo la Sars,
dopo la Aviaria, quel modello di globalizzazione (che soprattutto aveva
reso "figo" viaggiare per larghe fette della popolazione
mondiale, per la prima volta) sembra arrivato al capolinea. Spostarsi, cioè una
pratica che come masse popolari abbiamo sentito per secoli una necessità
e per qualche decennio un piacere, sta cominciando ad essere un fastidio
e un problema per molti, non solo per i migranti economici e i rifugiati
politici.
Ai miei
studenti americani, in quella lezione malauguratamente profetica, ho detto che
la trasmissione intergenerazionale della cultura è messa a dura prova da
cose come il coronavirus.
Un
programma che stava in piedi da cinquant’anni come il campus romano del Trinity
College si basava su un principio semplicissimo: un gruppo di mediamente
ingenui e ottimisti studenti americani passava un semestre a Roma e per
il semplice fatto di essere qui si imbeveva (non solo, e direi non
principalmente, in classe) di cultura italiana. Questo meccanismo è
stato in piedi per mezzo secolo crescendo e rafforzandosi, ma è bastato un
virus, qualcosa che non sappiamo neppure se si possa considerare un essere
vivente, per mettere seriamente a repentaglio quella costruzione
semisecolare.
Siamo
gli animali più straordinari perché possiamo crearci l'ambiente in cui
viviamo grazie allo strumento della cultura, ma siamo anche animali fragilissimi
perché quegli ambienti prodotti dalla nostra incredibile disponibilità
simbolica hanno bisogno di manutenzione costante e di essere trasmessi
attraverso solide materialità che non possiamo trascurare. Siamo angeli
quanto a creatività, ma siamo nani minatori quanto a capacità di portare
a casa la pagnotta.
La cultura,
che è la caratteristica principale della nostra specie, ha bisogno di una struttura
sociale, di ospedali, una comunicazione intelligente, informazione, mezzi
di trasporto (o di controllo) per poter sopravvivere.
Questo
ho detto loro.
Poi ne
ho pensate altre, ma la più importante mi sembra questa: che nella crisi del
coronavirus il potenziale culturale si accorge di quanto ha bisogno
della struttura sociale per potersi tramandare alle prossime
generazioni. Vedi le scuole chiuse. Se continua così i ragazzi avranno tutti
perso tutto il quadrimestre, e non basteranno i “compiti per casa” perché la trasmissione
del sapere presuppone proprio quello, la trasmissione, la condivisione,
il dubbio, la domanda, la risposta, la riprova, la lezione. Senza
lezione non c’è modo che certe forme del sapere possano essere tramandate.
E
poi c’è la questione dei vecchi. Ricordo, con sgomento, che solo qualche
mese fa un vecchio comico che da anni non fa più ridere nessuno (se non
coloro che lo disprezzano) propose di interrompere il diritto di voto
per “i vecchi” perché tanto per loro i giochi erano fatti.
Ricordo
che quel giorno mi si chiarì ancora di più il problema politico di fondo
del nostro paese, che è tutto nell’immaginazione di sé stesso.
Se
qualcuno riesce veramente a essere credibile nel proporre un’immagine così lacerata
del tessuto sociale italiano da rappresentare gli anziani come fuori dai
giochi (quando chiunque sa invece che sono le pensioni degli anziani,
per ora, a impedire che la struttura del welfare crolli totalmente)
allora abbiamo un problema culturale e sociale molto serio.
È
vero che gli anziani non saranno più su questa terra quando i giovani di oggi
saranno anziani, ed è vero che l’età induce a più miti consigli sulle potenzialità
dell’ingegneria sociale, per cui i vecchi tendono ad essere conservatori se non
dichiaratamente nostalgici. Questo, come dire, è inevitabile sul piano affettivo-culturale,
sul piano cioè di quel che la gente pensa, o dice di fare.
Ma
sul piano socio-economico, su quel che succede in verità, su quel
che le persone fanno, anche senza saperlo, la storia è diversa e va
raccontata: le pensioni degli anziani (anche le pensioni sociali) e le case
comprate dagli anziani per i giovani sono il perno di tanta economia
domestica, e in generale senza anziani e senza la loro disponibilità come nonni,
cuochi e sostegno economico, il paese sarebbe allo sbando totale.
Per dire, nelle grandi città scoppierebbero rivolte in molti quartieri
se la ridotta autonomia di movimento degli anziani in famiglia non costituisse
più la garanzia del parcheggio riservato sotto casa.
Il
coronavirus apre una voragine sul tema delle relazioni
intergenerazionali. Chi ha meno di 65 anni può serenamente sbattersene
del virus, farsi la sua vita, i suoi aperitivi, le sue spese al centro commerciale.
Per “loro” il virus è un’altra influenza, non cambia nulla.
A
meno che.
A
meno che non si pensino interconnessi socialmente agli Altri, vecchi
compresi. Se credono, come dice l’antropologia, che vi sia una “mutualità
dell’essere”, che la propria individualità sia costituita da una rete di
relazioni e non dal distacco da quelle relazioni, allora, forse, il coronavirus
può portare alla luce quell’innervatura sociale di mutualità dell’essere,
per cui io scrivo appoggiando il mio computer sul tavolo di una sala da pranzo
che mio suocero ha comprato alla mia compagna, mentre i bambini dormono al
sicuro nelle loro camere della parte nuova della casa, anche quella comprata
coi risparmi dei miei suoceri, e quando vogliamo possiamo (potremo presto,
anzi) andare a casa di mio padre a Mestre, o in Trentino, oppure andare
giù a Erice, e far passare ai bambini settimane di gioia e di relazioni
coi cugini, perché i miei genitori e i genitori di Valeria ci hanno messo a disposizione,
in un sistema di reciprocità generalizzata, una serie di beni e servizi
che non abbiamo comprato, che non sono stati mercificati, ma che sono invece il
cemento delle nostre relazioni affettive e sociali.
E
se io, con i tanti giovani e adulti che si spaccano la schiena come volontari e
come operatori, lavoro al polo culturale ex Fienile di Torbellamonaca e
spero che si affaccino giovani e vecchi, è perché credo, profondamente credo,
che quel tessuto sociale fatto di reciproca solidarietà
transclassista, di parole condivise assieme ai corpi, sia l’unica salvezza
del mondo.
Le
culture sono creature bellissime ma evanescenti, come sistemi di
pensiero, come credenze, come reti di significato, se non trovano strutture
sociali dove ancorarsi. Pare che il campo di Higgs, da cui si sono estratti
i bosoni che abbiamo tracciato e festeggiato nel 2012, sia quello che
consente alle particelle (che altro non sono che increspature dei loro
rispettivi campi) di acquisire massa, di uscire cioè dal flusso inenarrabile
di energia dei primi momenti dell’Universo per organizzarsi in quark e protoni
e neutroni e elettroni, e quindi atomi, e quindi elementi e quindi materia
e quindi vita. Se il campo di Higgs non si fosse congelato in forma di rete
o filtro, intrappolando l’energia e separando la luce da tutto quel che chiamiamo
materia, non saremmo qui a discutere di coronavirus.
Voglio
dire che senza una struttura sociale in grado di filtrare le nostre paure
individuali, di dare un peso specifico sociale al nostro casuale dimenarci
personale, senza qualcosa che ci faccia capire che il nostro io è nostro solo
nella misura in cui è condiviso (altrimenti è solo un tic nevrotico
della tarda modernità e dell’espansione della società di mercato); senza questo
siamo già condannati ad essere spazzati via dal vuoto della nostra
carenza di strutturazione sociale.
Si
vede già quello che dico nelle diverse reazioni alle misure previste. È sano
e giusto che i carcerati facciano il diavolo a quattro, dato che per
loro la carcerazione è prima di tutto la resecazione di tutte le pochissime relazioni
residue che ancora li costituiscono e il loro essere in galera è
concepibile solo se si mantiene quel barlume di relazione garantito
dalle visite.
Ed
è inevitabile che un funerale a Napoli diventi un’occasione di scontro
con le forze dell’ordine. Non perché io sia d’accordo, ma perché è inevitabile
che gli esseri umani si aggrappino a qualche forma di strutturazione
sociale per tenere in piedi i loro fragilissimi castelli simbolici. E se la società
più ampia non ha nulla da offrire, resta la forma primordiale della
famiglia, paradossalmente contro la società.
Fino
a quando famiglia e società saranno, come troppo spesso in Italia, contrapposte
e non armonizzate, avremo i treni pieni di persone singole che egoisticamente
si accalcano per trovare un rifugio lì dove pensano di trovarlo.
Il
coronavirus mette in scena un dibattito pubblico sul senso dell’agire
sociale. Siamo da soli, ognuno di noi ridotto a sé stesso o al
massimo alla rete biologica delle interconnessioni sentite e vissute
come naturali e necessarie, come il più povero degli animali;
oppure la nostra umanità di “animali politici”, vale a dire disposti a condividere
la vita sociale, ha ancora un margine? Abbiamo ancora la forza immaginativa
per pensarci come comunità al di là di quel che è biologico e
necessario? Possiamo scegliere dove appartenere, a chi
appartenere, con chi appartenere, oppure siamo ridotti a corpi nudi
legati al massimo da tenui catene di dna e di istinto di sopravvivenza?
Il
coronavirus sta costringendoci, in fretta, a dare una risposta a queste
terribili domande.
Come
dice il mio amico Daniele Casolino,
“noi restiamo a casa per non infettare e non per non infettarci”. Non
che tra le due posizioni ci sia per forza antitesi, ma di fronte a questa
crisi, dentro di noi, ognuno deve ammettere almeno a sé stesso qual è la
motivazione principale del suo agire.