Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
Per due anni, noi del PEF- Polo Ex Fienile e soprattutto noi del LaPE - Laboratorio di Pratiche Etnografiche, abbiamo organizzato una festa al Fienile, carinamente intitolata "Mortacci nostra".
E' stato un modo per dire che a noi Halloween ci faceva un baffo, non nel senso che lo schifavamo come l'ennesima americanata, ma che ce lo ricordavamo come una tradizione ben radicata nella memoria popolare, e cioè la commemorazione (seria, scherzosa o grottesca, a seconda degli stili locali) delle persone defunte.
Da antropologi quali siamo, ci sembrava un'emerita stronzata ridurre il ricordo dei morti a una questione in cui dovessero competere solo le religioni istituzionali o i responsabili della mercificazione di qualunque cosa. Anche noi normali, il 99% si potrebbe dire, avevamo il diritto di non alienare il ricordo della morte, la presenza inevitabile della morte, il senso della morte nelle nostre vite.
Mortacci nostra è stato un modo di inventare una tradizione, e attorno al fuoco o nella sala teatro del PEF abbiamo ascoltato e raccontato storie da brividi, storie da lacrime, storie insomma.
Quest'anno non si può, come è noto. E con molta sofferenza ci siamo adeguati alle necessità sanitarie. Il che non significa che non ci si possa incontrare anche a distanza, senza baci e abbracci, certo, ma con qualche storia.
Per le studentesse e gli studenti di Antropologia culturale di quest'anno ho pensato così di offrire un piccolo spazio online al link delle mie lezioni su Zoom. Porteranno una piccola storia, una foto da mostrare, un oggetto di una persona cara. Oppure una canzone da condividere o una poesia da ascoltare (YouTube è una miniera fantastica, per questo). I più coraggiosi potranno anche recitare i loro versi, o una storia scritta da loro.
Basta venire nell'aula Zoom di Antropologia culturale oggi, 31 ottobre, tra le 21.30 e le 22.30, prenotandosi sulla chat della classe per chi volesse può avere tre minuti di microfono e video.
Fare antropologia non è solo capire, fare antropologia è anche vivere capendo un po' di più.
[Tutta la tiritera che segue
è orientata a introdurre la lettura di “Verso una teoria interpretativa
della cultura” di Clifford Geertz]
La teoria REFERENZIALEdel significato è inadatta a spiegare la sostanza più
specificamente specifica del linguaggio umano.
La teoria DELL’USOinvece sembra funzionare molto meglio. Il “secondo”
Wittgenstein è uno dei pensatori che più ci ha aiutato a capire che il
significato di un segno è nel suo uso, cioè nei modi “sensati” (appunto) in cui
possiamo usare quel segno, sia esso una parola, o un anello di matrimonio.
Abbiamo fatto l’esempio delle “cotolette di cane”
che solitamente qualcuno NON capisce non perché nel nostro contesto culturale è
“insensato” dire di aver mangiato cotolette di cane.
Nella Teoria Referenziale = il Significato somiglia
alla voce di DIZIONARIO;
Nella Teoria dell’uso = il Significato somiglia alla voce
di ENCICLOPEDIA.
La RETE di SEGNIè più di una metafora
Se ogni segno è composto di un significante e di un
significato, e ogni significato è di fatto una “connessione” con
altri segni, ecco che dal segno Cane devo agganciarmi (in Italia) alla
Amicizia, alla Fedeltà, alla Compagnia, che sono tutti Segni, ognuno dotato di
un Significante e di un Significato, e ogni segno a sua volta è agganciato ad
altri segni nella teoria dell’uso.
In Italia e in Corea le rispettive reti che
definiscono il segno “cane” sono molto poco sovrapposte, dato che in Corea il
segno ‘cane’ può essere associato ai segni del Cucinare e quindi la rete che
rende possibile l’uso sensato del segno ‘cane’ in Corea rende “sensata” anche l’espressione
“ieri ho mangiato cotolette di cane”.
Insomma, la RETE DEI SEGNI È
LA CULTURA, CULTURA È LA RETE DEI SEGNIe
per quanto qualcuno potrebbe (anche a buona ragione) contestare che la rete dei
segni NON CONCLUDE tutta la cultura, di certo ogni specifica società è dotata
di una rete condivisa di segni tra i suoi membri che ne costituisce l’ossatura
simbolica, e senza la quale non solo non esisterebbe comunicazione all’interno
di quella società ma anche per ogni individuo non ci sarebbe modo di sentirsi
tale, perché gli eventuali significati idiosincratici che fosse mai riuscito a
elaborare nella solitudine del suo cervello non avrebbero mai modo di uscire
fuori.
È questa consapevolezza che porta Clifford Geertz
a elaborare la sua concezione semiotica della cultura con l’immagine
dell’animale impigliato nelle reti di senso che egli stesso ha intessuto,
secondo la metafora di Max Weber.
Quindi, mentre le scienze sperimentalicercano CAUSEtramite la SPIEGAZIONE,
le scienze umanecercano
SIGNIFICATOtramite
l’INTERPRETAZIONE.
La PAREIDOLIA
è il modo più evidente di questa disposizione del nostro cervello animale trovare
significati anche dove non ce ne sono di intenzionali. Diciamo che l’antropologia
insegue questa disposizione degli umani non solo nella percezione visiva, ma nel
quadro generale dell’IMMAGINAZIONE: immaginiamo (oggetti, valori e
relazioni) sulla base di MODELLI che abbiamo già acquisito per altri
campi.
L’esempio dell’AMICIZIA che per noi non è
formalizzata ma per altre
culture lo è: studiare l’altrove ci consente non solo di riflettere sulle
regole culturali altre (to’, guarda che strani, quelli fanno un rituale
per stabilire formalmente che quello è un amico speciale e cominciano a chiamarlo
“fratello”) ma anche di riflettere sulle nostre regole culturali (siamo
sicuri che l’amicizia sia solo una relazione spontanea lasciata alla nostra
libera scelta? Guardate quanti diventano amici perché hanno figli nella stessa
scuola, e poi ripensateci).
Quindi l’antropologia insegue il significato
culturale, vale a dire il senso che “le cose” hanno nel contesto in
cui sono vissute e praticate. Cerchiamo insomma di raggiungere quella che Gilbert
Ryle ha definito una THICK DESCRIPTION,
una DESCRIZIONE DENSA, cioè una descrizione
di una situazione cercando di offrire il senso che vive l’attore sociale
dell’azione che stiamo analizzando. Se invece ci limitiamo a utilizzare la nostra
rete di significato (e non quella dell’attore sociale) otteniamo al
massimo una THIN DESCRIPTION, cioè una
descrizione che si sforza di essere “neutra” o “oggettiva” ma che
in realtà non riesce a cogliere il senso dell’azione per chi la sta compiendo e
impone su quell’azione le categorie dell’analista.
(46:00) Abbiamo ripreso l’esempio
dell’occhiolinocontrapposto al tic
nervoso, che Geertz cita da Ryle, e ci abbiamo ricamato un po’ sopra.
Con un po’ di problemi di connessione, abbiamo cercato
di riflettere sul fatto che la thick description NON è una descrizione “più
accurata”, visto che può consistere di una sola parola (“battesimo”) per
chi la sa interpretare, e che la thin description NON è una descrizione superficiale
nel senso che sia “frettolosa”. Se non sapessi cos’è un battesimo in una
chiesa cattolica potrei andare avanti giorni raccontando tutti i dettagli
di questo strano posto con delle decorazioni alle pareti dove un uomo con un camicione
butta dell’acqua sulla fronte di un bimbo piccolo, ma la cura maniacale del
dettaglio della mia descrizione NON la renderebbe meno thin, dato
che la sua superficialità non sarebbe data dalla mancanza di precisione “oggettiva”,
ma dalla incapacità di “coglierne” il senso dal punto di vista dell’attore
sociale.
Uno degli esempi più chiari della differenza tra Thin
e Thick è quello (che rubo a Marshall Sahlins) dell’ACQUA BENEDETTA.
Cosa c’è di oggettivamente diverso tra acqua normale e acqua benedetta? Nulla,
ovviamente, e un chimico mi dirà che si tratta sempre della stessa
sostanza, ma se voglio capire la differenza devo vedere le cose dal punto di
vista del credente, che pensa che l’acqua benedetta abbia una qualità
spirituale, e possa essere taumaturgica.
(1:09:45) THIN E THICK SI SOVRAPPONGONO
A -ETIC e -EMIC, facendo però attenzione al fatto che “il punto di
vista del nativo” (che sarebbe l’-emic) non coincide esattamente con il senso
dell’azione consapevole dell’attore sociale. Il millepiedi non sa
come fa a camminare, ed è inutile, spesso, chiedergli come fa aspettandosi una risposta
coerente. Di fatto, l’antropologo lavora anche a livello del subconscio
culturale, cogliendo sensi che NON sono praticati consapevolmente dagli
attori sociali.
Tutto, questo, dicevamo, per introdurre il racconto
che Geertz ci farà del vecchio mercante ebreo Cohen.
Abbiamo concluso (1:20:00) con un TEST sul “SIGNIFICATO”.
Le ultime considerazioni (1:32:15) sono sulla fragilità
epistemologica dell’opposizione THIN/THICK (come di quella -etic/-emic):
diciamo che sono opposizioni di cui abbiamo bisogno come “limite” o come “obiettivo”
ma l’antropologa sul campo non può che aspirare a ricostruire il punto
di vista -emic o a produrre una thick description, ma questo lavoro di
ricostruzione sarà sempre incompleto(basta parlare con “un’altra persona ancora” e il
quadro può mutare).
Il punto insomma è che questa incompletezza della
nostra ricostruzione culturale è intrinseca e irrinunciabile.
Ho poi finito con un doppio appello di eventi al PEF –
Polo Ex Fienile, che però è andato completamente a vuoto… (anzi no, una ex studentessa
sabato è venuta a darci una mano a fare pacchi al PEF).
Abbiamo visto il pregiudizio della omogeneità interna e della separatezza delle culture e in questa lezione abbiamo cercato di capire da dove venga quel pregiudizio. Ci sono delle motivazioni di ordine cognitivo, e altre di ordine politico. In questa lezione abbiamo solo le prime, lasciando le motivazioni politiche a una prossima lezione.
Il pregiudizio (o bias, ogni tanto dico) cognitivo dipende dal fatto che abbiamo bisogno di categorie dove "incasellare" la fantasmagorica complessità del reale percepito, ma queste categorie non sono affatto innate, o lo sono per grandi contrapposizioni (animato/inanimato, per esempio, che possiamo elaborare già verso i 6 mesi) e non ci consentono quelle sottigliezze necessarie nella vita associata. In pratica, impariamo gran parte delle etichette o categorie con cui riduciamo la complessità ingestibile del reale e ci mettiamo anche un po' ad impararle, come dimostra questo video:
Per non essere sopraffatti dalle occorrenze del reale (dalle carte che il mondo ci fa vedere, con tutte le figure) dobbiamo imparare presto a inscatolarle in etichette. Le etichette si possono chiamare types, le occorrenze tokens, ma il senso è quello indicato. Senza etichette possiamo contare le occorrenze solo fino a un certo punto, oltre il quale ci perdiamo e veniamo semplicemente travolti. In questo video una definizione di Type e di Token:
Quindi come animali abbiamo bisogno di scatole, etichette o categorie, ma proprio perché non le possediamo incorporate nei geni, quei types possono e debbono essere in gran parte appresi.
La Realtà è lì, inossidabile, ma Kant ha ragione quando ci dice che è inconoscibile direttamente (noumeno) mentre può essere afferrata solo dentro le categorie.
Senza entrare in polemica con Kant, diciamo che a fianco di alcune generali e universali categorie per conoscere il mondo gli esseri umani hanno bisogno anche di categorie più specifiche (quali labbra femminili siano belle e quali invece considerate volgari) e questo livello di categorizzazione dipende dalla cultura cui apparteniamo.
Creare categorie significa trovare le somiglianze e le differenze e dare RILEVANZA ad alcune e considerare IRRILEVANTI altre. NON c'è nella realtà alcuna ragione intrinseca per cui alcune somiglianze o alcune differenze siano rilevanti, dato che la RILEVANZA è un giudizio esercitato dagli esseri umani, non è una qualità della realtà. La realtà certo che ha qualità intrinseche (forma, colore, peso, attrattiva, ecc.) ma la rilevanza di alcune qualità e non di altre è una decisione umana, e gli uomini sembrano in grado di decidere molto diversamente rispetto alla rilevanza, a seconda dello spazio e del tempo in cui si collocano per quel loro giudizio.
Il racconto di Borges su Funes, o della memoria, è un buon esempio di quel che succede se si perde la possibilità di raccogliere il percepito in categorie ma si mantiene il ricordo del percepito.
Applicata alle relazioniumane, questa necessità delle categorie produce l'opposizione Noi/Loro che categorizza prima di tutto coloro con cui posso avere un rapporto cooperativo (il Noi) per distinguerli chiaramente da gli Altri, con cui invece dovrei pensarmi in relazione competitiva. NON c'è alcuna base biologica per stabilire dove si pone "naturalmente" questo confine (vedremo nelle lezioni sulla parentela che proprio i "legami di sangue" sono un modo con cui molte culture si illudono di poter stabilire almeno un confine iniziale di questo tipo) ma intanto anticipiamo che il Nazionalismo è il sistema politico che porta alla perfezione questa contrapposizione necessaria tra categorie di persone.
Una volta apprese, le categorie funzionano al punto che ci possiamo ficcare dentro anche "cose" che in sé non hanno ragione di starci, come dimostra la bellissima poesia di Fosco Maraini, letta da Gigi Proietti
E' un testo "senza senso" ma riusciamo a capire tantissimo, proprio perché utilizziamo categorie che già abbiamo per ficcarci dentro quel nonsense.
Se non parlassimo italiano, il Lonfo non avrebbe senso. Anche le parole senza senso le ficchiamo dentro qualche categoria. Come quando vediamo nelle nuvole dei volti, o degli oggetti (pareidolia). NON sono nelle nuvole, ma sono nelle categorie che abbiamo acquisito e dentro cui forziamo quel che vediamo. Questo aspetto cognitivo è stato studiato dagli psicologi ma quasi solo per gli aspetti strettamente percettivi (forme e colori) ma dobbiamo capire vale a che per i giudizi morali o estetici: una volta elaborate, alcune categorie si radicano in profondità e le utilizziamo anche per includere aspetti del reale che non erano originariamente concepiti in quella categorizzazione (Robert Sapolsky lavora su questi temi, ma non ci sono traduzioni italiane delle sue riflessioni si questi temi, o almeno io non le conosco).
Questa capacità di produrre senso, quando non è socialmente condivisa può produrre il "delirio", la fine della significazione come comunicazione. Ora, c'è una disputa tra filosofi del linguaggio per stabilire se il linguaggio sia prima COMUNICAZIONE (quindi presupponga l'altro) o sia ESPRESSIONE (per portare fuori quel che si ha dentro) e non intendo prendere posizione in proposito. Mi basta dire che il linguaggio è sempre tutte e due le cose, e quando perde la sua dimensione CONDIVISA diventa facilmente ALIENAZIONE.
Questo significa collegare la cultura come sistema categorizzante al POTERE di esercitare quella funzione. NON tutti hanno la stessa voce nello stabilire quale sia il senso di quell'aspetto culturale. Il tè è diventato comune in Inghilterra perché era una regina a consumarlo e le donne nobili l'hanno imitata, presto imitate dalle borghesi e giù nella scala sociale. Ci sono diverse teorie in questo senso (penso ad esempio alla Teoria della classe agiata di Veblen) ma quel che conta è che ci imitiamo tra gruppi e sottogruppi e spesso capita che siano quelli che dispongono le quantità maggiori di diverse forme di POTERE (economico, di prestigio, politico) a fare da modelli e a stabilire quali siano i "giusti" (dentro quella cultura) significati da attribuire a determinati segni.
Avere un quadro categoriale è quindi necessario, non possiamo farne a meno. Ma una volta che lo abbiamo incorporato, da un lato ci consente di non dubitare tutto il tempo per ogni cosa, ma dall'altro rischia di farci "perdere di vista" aspetti del reale che NON ABBIAMO NOTATO perché eravamo intenti a categorizzare altro:
Il video "Awareness test" serviva a farci capire questo punto.
I FAP (Fixed Action Patterns) sono necessari agli umani come a qualunque altro essere vivente. Ma mentre gli altri animali si basano su FAP innati, noi dobbiamo APPRENDERLI e una volta appresi, li sentiamo nostri come fossero innati. Come il nostro modo di parlare.
-EMIC -ETIC
Quando studio quindi un gruppo sociale, posso insistere sulle mie categorie di analisi oppure posso cercare di ricostruire le categorie utilizzate dal mio interlocutore (singolo o gruppo). L'antropologia è la ricerca del livello -emic.
(Il casino è che quel che chiamiamo -etic è spesso l'-emic di chi parla, ma non voglio scatenare il panico e quindi soprassediamo, anche se è evidente per tutti che un punto di vista "oggettivo" sul reale semplicemente è un'illusione, perché quello a cui puntiamo è sempre un livello inter-soggettivo, e il problema diventa a quel punto quanto ampio debba essere quell'-inter per poterlo attribuire al genere umano e non a un suo specifico sottogruppo.)
Abbiamo insistito molto su questa differenza, perché è essenziale per capire la nostra disciplina. Come si giunge a capire questo punto di vista -emic?
E' la INTERPRETAZIONE il punto di svolta.
Per cogliere il punto di vista dell'altro dobbiamo pensarci come i protagonisti di Flatlandia.
Abbiamo poi introdotto altri concetti essenziali.
SEGNO come unione arbitraria di SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO. Abbiamo detto della natura MATERIALE del significante.
Abbiamo chiuso anticipando la doppia teoria del significato: Teoria referenziale vs Teorie dell'Uso.
Abbiamo raccontato la storia dei due archeologi per dimostrare che abbiamo incorporato alcune regole culturali (in questo caso regole fonologiche su come si pronunciano i suoi nasali in italiano) SENZA SAPERE che le abbiamo e che le sappiamo usare con estrema precisione. CHI è che sa quelle regole? I parlanti, certo, ma a che livello di CONSAPEVOLEZZA lo "sanno"? Molto basso, possiamo dire. E certo questo esempio è indicativo di come funzioni tanta parte dell'apprendimento culturale. Siamo a volte "culturati" dalla nostra cultura, ci pare del tutto inevitabile che le cose siano così, perché non concepiamo le ALTERNATIVE al nostro comportamento. Gli italiani monolingue non riescono a pensare che una nasale di fronte a una occlusiva velare si possa realizzare in maniera DIVERSA da come la realizzano loro. Estendete questa idea al modo in cui ci pone a distanza dagli altri (qual è la distanza di cortesia? E quale quella di distacco sprezzante?) oppure al modo in cui ci si debba salutare tra estranei, o al mondo in cui si considerano belle le labbra di una donna, o al modo in cui ci si debba comportare con i figli, o con i genitori, quale sia la giusta decisione da prendere in quel caso e quale invece sia completamente sbagliata, ed ecco che di colpo la cultura si appare per quel che è: uno strumento molto potente di controllo nella conformità. Non sto dicendo che la cultura sia la nostra gabbia, ma Franz Boas, che di diversità culturale decisamente se ne intendeva, parlava di "shackles of culture", cioè i ceppi, le catene che si mettevano ai piedi degli schiavi o dei prigionieri per contenerne in movimenti entro un raggio di azione limitato. Questo fa la cultura, e non c'è nulla di mostruoso o di eccessivamente drammatico in questo, perché lo DEVE fare, vista la nostra disposizione a collegare tutto con tutto. Se non avessimo quei ceppi la nostra vita sarebbe un inferno (come in effetti a volte è la vita dei bravi antropologi...). Diceva Boas:
Il pregio dell'antropologia è il suo potere di impressionarci con il valore relativo di tutte le forme di civiltà. Noi siamo troppo portati a considerare la nostra cultura come la meta ultima dell'evoluzione umana, privandoci così dei benefici ricavabili dagli insegnamenti altrui. Ciò che penso della vita è determinato da una domanda: come possiamo riconoscere le catene della tradizione? Perché, se riuscissimo a riconoscerle, potremmo anche spezzarle
La cultura è quindi un sapere appreso che fa di tutto per nascondersi in quanto appreso, e il lavoro dell'antropologo è anche e soprattutto portare a galla quel sapere sotterraneo o inconsapevole.
Per capire come questo lavoro di consapevolezza sia tutt'altro che confortante, abbiamo raccontato l'apologo del bruco e della formica (dal minuto 31:45), come esempio della complicatezza di agire SAPENDO di agire, osservandosi nel proprio agire. La CONSAPEVOLEZZA è una conseguenza della riflessività, dell'osservarsi mentre ci si confronta con l'Altro, questo oggetto primigenio della riflessione antropologica.
Piccola digressione su quanto il lavoro dell'antropologia sia stato efficace in questo senso e quanto invece sia stato zeppo di errori e di complicità con il potere. E per parlare della natura intrinsecamente "progressista" dell'antropologia.
Vediamo ora (42:00) se e quanto la cultura è CONDIVISA da parte di coloro che la POSSIEDONO. Condivisione e Possesso sono due termini economici, che hanno a che fare con la proprietà materiale. Ma la cultura è un oggetto materiale che può passare di mano come un campo di terra o un orologio?
SE FOSSE COSI' SAREBBE FORIERA DI DISTINZIONE netta tra gruppi ma invece sappiamo che le culture non sono divise in questo modo (anche se si raccontano così) e che "la roba" intera (the cultural stuff di F. Barth) sappiamo che viene usata per creare confini: DE-LIMITAZIONE e DE-FINIZIONE e etimologia dei termini. = Limes e Finis.
Le culture, insomma, si raccontano sempre più OMOGENEEinternamente e più NETTAMENTE SEPARATE tra di loro di quanto non ci dimostri l'analisi empirica dell'etnografia. Abbiamo dimostrato questo punto centrale della riflessione antropologia con un piccolo racconto (49:40)
Il caso delle due signore a Venezia. Una signora è Veneziana "da sempre", e l'altra signora è invece una badante venuta una ventina d'anni da dall'Europa dell'Est. La signora veneziana ha inoltre un nipote (lei è la nonna, non la zia) che le vuole bene e la va a trovare. Ci siamo chiesti se sia possibile "misurare" le somiglianze e le differenze tra queste tre persone. Quale coppia si somiglia di più tra nonna-nipote e nonna-badante, per quanto riguarda pratiche di vita, immaginario, sistema di valori, gusti estetici eccetera? Nel raccontare la storia ho citato (senza nominarlo perché il nome mi sfuggiva) un antropologo che ha fatto una bella indagine sulle badanti: si chiama Francesco Viettie il saggio si intitola Il paese delle badanti (Meltemi). Ci sono diversi studiosi che si occupano del lavoro domestico e del lavoro di cura nel mondo globalizzato e mi piace qui ricordare l'importante lavoro di ricerca coordinato dalla sociologa Sabrina Marchetti all'Università Ca' Foscari di Venezia.
Alla prova dei fatti, sappiamo che le culture sono MENO condivise all'internoe più condivise attraversodi quanto non pensiamo "istintivamente". Più o meno reddito, più o meno educazione, più o meno competenze ad hoc: chi ne sa di più tra gli elettricisti e gli idraulici?
Nessuno possiede TUTTA e SOLA la propria cultura.
(1:06) IL TEMPO e LA VARIAZIONE CULTURALE (la creazione storica dei contesti tradizionali)
Un altro esempio di cui abbiamo parlato è quello della nduja Calabrese (1:12:38).
La pasta al pomodoro napoletana del Cuoco galante (1799) è un'altra impressionante dimostrazione della finzione del primordialismo: a inizio Ottocento la pasta al pomodoro ancora non c'era, non era rappresentata in un libro di ricette napoletano.
QUINDI le culture non solo sono complicate al loro interno ora, ma LO SONO SEMPRE STATE
Abbiamo visto le Figure a pagina 8 della dispensa con gli ELEMENTI culturali e i CONFINI culturali
Questa ricostruzione post hoc di unità interna ci induce all'errore del PRIMORDIALISMO e dell'ANCESTRALITA', per cui una cosa è usata "da tempo immemore". In realtà una cosa diventa TRADIZIONALE non se è usata da sempre (nulla ha questa durata), né se è usata da tempo immemore (eh, trovarne cose così...) e neanche se quella cosa è stata "creata" da coloro che ora la usano orgogliosamente (il tè inglese, la nduja calabrese, non sono "ab ovo" né inglese né calabrese).
Le figure che vediamo (da 1:24:40) ci dimostrano un errore categoriale enorme, dato che l'illusione della condivisione omogenea e primigenia della cultura si può realizzare solo se poniamo "la nascita" delle culture in un momento "Prima del Tempo", prima del Divenire.
Questo errore di FUORIUSCITA DAL TEMPO e di presunzione che le cose siano sempre state così è un altro esempio di accettazione subconscia del culturale, dato che a livello razionale siamo tutti e tutte perfettamente consapevoli che le cose, non sono "sempre" state così, e che quel "si è sempre fatto così" è un giudizio fallace.
Siamo quindi indotti da questo tipo di pregiudizi cognitivi a considerare inossidabili categorizzazioni che esistono solo in quanto prospettiche, prodotte da una certa posizione classificatoria (con certe scatole di cui non consideriamo la costruzione storica), che sicuramente esiste, ma non ha necessariamente la priorità rispetto a prospettive alternative che raggruppano le cose e le persone in classi assai diverse. Le persone, insomma, si possono raggruppare per categorie o appartenenze in modi veramente fantasmagoricamente diversi, eppure il mondo in cui viviamo ci induce a privilegiare alcune categorie e a sottovalutarne altre.
Il video della TV Danese (che non si vede in questa registrazione per ragioni di copyright) è un esempio molto ben congegnato di questo fatto della realtà sociale che spesso tendiamo a dimenticare: ciascuno di noi appartiene a moltissime categorie, classi o raggruppamenti, e molto spesso l'Altro secondo una certa categoria può essere un Noi secondo un'altra categoria:
La parte finale della lezione è stata dedicata a un piccolo test di verifica su: la differenza tra cultura alta e cultura bassa; la nozione di tradizionale, quando un oggetto si possa considerare tradizionale; e in che senso la cultura è condivisa.
Abbiamo iniziato
confermando che per gli studenti e le studentesse che prendono iscrizione al
corso per quest’anno o che comunque portano il programma di quest’anno, per il
modulo A la MONOGRAFIAsarà Oltraggi
della memoria, di Lorenzo D’Orsi, Meltemi 2020. Si tratta di una monografia
sulla questione della memoria politica in Turchia, e diventerà un modo
per gli studenti di antropologia culturale per riflettere sul significato
sociale del passato. La storia non è una sequenza oggettiva di eventi ma è
vissuta sempre nel presente come forma di collegamento ad alcune identità, modi
di essere, sistemi di valori.
Per il modulo B, la professoressa
Casentini ha spiegato come ci saranno due monografie tra cui scegliere, a
seconda che si prediliga il tema della MIGRAZIONE o quello del GENERE.
Nel primo caso si studierà Shahram Khosravi, Io sono confine,
Eleuthera, 2019, mentre per il genere la monografia da studiare sarà Alessandra
Chiricosta,Un altro genere di forza, Iacobelli Editore, 2019. TUTTE
le informazioni per il Modulo della prof. Casentini sono ora incluse nella cartella online del Modulo B.
Nel corso della lezione
siamo partiti (dal minuto 11:45) da dove avevamo finito, e cioè la varietà
culturale. La varietà culturale quindi, essendo legata alla nostra disposizione
simbolica, è veramente enormemente vasta: nessun essere umano, da solo, può
immaginare tutto l'immaginabile, ma sicuramente gli esseri umani nel
corso della storia, dentro la varietà culturale (le diverse
"immaginazioni") che li caratterizza, hanno immaginato COME SPECIE
ben oltre l'immaginabile individuale. E una cosa evidente è che queste
immaginazioni possono essere in contrasto, opposte da posto a posto, o
da tempo a tempo. Pensate a come la pensiamo noi anziani all'utilizzo del
social e l'uso che mediamente ne fate voi. Noi abbiamo Facebook come se fosse
un salotto di casa, voi usate Instagram come un razzo spaziale per andarvene in
giro per il mondo. Pensate ad esempio alle differenze sui gusti estetici.
Per avere un esempio di
come possono essere veramente divergenti i gusti e i giudizi culturali, abbiamo
visto insieme un breve video che ci racconta quella che ho definito
"l'inevitabile tristezza giapponese di Julia Roberts. Il video è un
inglese ma l'ho tradotto in consecutiva:
Cosa diavolo è OCHOBO?
https://youtu.be/A5kTiP4wDQU
Apprezzare Julia Roberts
per quelli della mia generazione, vi assicuro, ci sembrava una questione del
tutto "naturale", ma il valore estetico di Ochobo ci dimostra
che così NON è, e che se la povera Julia fosse stata adattata da una famiglia
di Tokio sarebbe stata la racchia del quartiere...
Un punto centrale di questa
forma complessiva umana della diversità è che istituisce una importante
differenza con la diversità comportamentale entro le specie animali.
Nessun essere umano pratica TUTTE le tradizioni culturali, ognuno di noi
finisce per praticarne alcune, e molti sentono di praticarne una e una sola,
ma la IDOSINCRATICITÀ(vale a dire l’unicità esclusiva) della
pratica non è mai specificante, cioè NON fa di quei praticanti un gruppo
biologicamente separato da coloro che hanno pratiche diverse, proprio
perché il nostro sapere è principalmente acquisito e trasmesso
per vie non-biologiche. Mentre le api che smettessero di raccogliere
polline e iniziassero a nutrirsi di altri insetti sarebbero condannate, per
sopravvivere, a diventare un’altra specie, gli esseri umani hanno DENTRO
la loro specie una varietà di comportamenti e di pratiche che diventa l’oggetto
della nostra riflessione. Sotto il comportamento delle api possiamo
cercare il fondamento comune dell’essere ape: studio api in tutto
il mondo, guardo come si comportano e induttivamente cerco di ricavare
cosa costituisca dal punto di vista comportamentale l’essenza dell’ape, l’apismo
o l’apità dell’ape, per usare un lessico aristotelico. Ma con gli esseri
umani NON possiamo lavorare allo stesso modo, dato che la loro umanità
va vista all’inverso dell’apità, non come comunanza di pratiche (che non
c’è) ma come forma della costruzione locale della conoscenza attraverso
la comparazione delle differenze. Il video sull’Ochobo ci dice che non
ci sono comportamenti prefissati per quanto riguarda l’attrazione dei
maschi umani verso la forma delle labbra femminili, dato che in Giappone vige
un canone che sembra opposto a quello dell’Occidente Euroamericano. Come
minimo, Ochobo ci dice che per gli umani i modelli prefissati di azione (FIXED ACTION PATTERNS) vengono attivati
in forme molto, molto più peculiari a seconda dei contesti, ed è quella
peculiarità che esige attenzione e il nostro sforzo interpretativo per spiegarla.
Invece, i criteri estetici grazie a cui la femmina dell’uccello del
paradiso trova e seleziona il partner
sono specie specifici (vale a dire unici per quella specie e totalmente
uniformi all’interno della specie) e molto, molto rigidi, e
questo vale per qualunque specie animale, tranne la nostra: mentre un
leone africano e uno asiatico avranno gli stessi “gusti” (dettati proprio dall’interazione
tra la dotazione genetica e l’ambiente in cui quel patrimonio
genetico si trova ad attivarsi). L’antropologia culturale studia non tanto quel
che c’è “sotto la diffenza” ma PROPRIO la DIFFERENZA. Come dice Clifford Geertz: è la differenza
che fa la differenza.
Questo certo non sta a
significare che dobbiamo rinunciare alle generalizzazioni o che l’antropologia
culturale sia solo una scienza descrittiva. Significa piuttosto che il
nostro apporto come studiosi e studiose è quello di prestare attenzione al senso
locale di quella specifica pratica, e vedere sullo sfondo di quadri
più ampli se pratiche diverse indicano tendenze comuni, e quali. Le
regole del comportamento umano si devono quindi contenere a generalizzazioni molto
generali, del tipo: “le scelte del partner sono spesso associate a principi
estetici che valgono anche in altri ambiti della vita sociale, oltre a
quello dell’attrazione sessuale”, ma senza poter generalizzare sui contenuti di
quei principi, che dipendono dalla cultura locale.
Conclusa questa prima parte
sulla VARIETÀ del culturale umano, abbiamo ripreso la questione dell'APPRENDIMENTO.
FORMALE vs INFORMALE(l'elaborazione del GUSTO, cenni di Pierre
Bourdieu). Per questo aspetto, abbiamo visto come “sappiamo” un sacco di
cose, su quale sia un cantante veramente da adorare e quali invece facciano “schifo”,
oppure se vediamo un gruppo di persone di un certo ceto sociale è relativamente
facile individuare l’eccezione che proviene da un’altra classe, e questo grazie
a “competenze” specifiche che abbiamo ovviamente appreso, anche se fatichiamo
a dire come e dove e da chi.
Sul SAPERE
CORPOREO e SAPERE LINGUISTICOabbiamo riflettuto un po’ frettolosamente, ma possiamo
sintetizzare il fatto che il sapere corporeo, in particolare quello dellamano, le tecniche dell’artigianato e dei mestieri (“rubare con gli occhi”),
si pongono quasi consapevolmente in contrapposizione al sapere linguistico
(e non abbiamo avuto tempo di riflettere quanto questa contrapposizione sia
anche “ideologica”, vale a dire utilizzabile con intenti politici,
opponendo la “concretezza” alla “teoria”, il “saper fare” al “parlare vuoto”).
Sul sapere del corpo
abbiamo visto qualche secondo da questo, video, che parla di Paolo
Brandolisio, un "remèr" o "forcolaio" veneziano:
https://youtu.be/mOkxTjtUT1s?t=116
E questo invece è un video
(che non abbiamo fatto in tempo a vedere) sul "più veloce parlatore del
mondo", come esempio esasperato di sapere linguistico (anche se in
questo caso specifico diventa quasi corporeo...):
https://youtu.be/ExKCcndqK5c?t=41
Nell'ultima parte della
lezione abbiamo toccato un'altra distinzione che gli antropologi NON fanno
ma che considerano comunque essenziale dato che tutte le culture la fanno
eccome: la GERARCHIA DEI SAPERI, la valutazione culturale di ciò che si
sa in una scalagerarchica, e per esemplificare un poco abbiamo
parlato dei vostri fidanzati e delle vostre fidanzate, facendo un piccolo test
che, nonostante le resistenze di qualcuno espresse nella chat durante la
lezione, ha confermato il fatto che tutte le culture istituiscono GERARCHIE DI
VALORI, attribuendo più prestigio
ai portatori di certe competenze e non di altre.
Ci siamo lasciati dicendo
che la prossima lezione si aprirà con una riflessione su una delle cose
più conturbanti del sapere culturale, e cioè il suo essere molto spesso subconscio:
ci sono test che dimostrano che abbiamo delle regole in testa e che le applichiamo
con estremo rigore, eppure se non si è passato un processo di istruzione
formale di istruzione non abbiamo la minima idea di avere quelle regole e di
applicarle.
Abbiamo ripreso i concetti chiave di Harari, e
cioè che gli esseri umani sanno cooperare in forma FLESSIBILE e in GRANDI
NUMERI, diversamente dagli animali che o cooperano in grandi numeri ma
rigidamente (come fanno gli insetti) oppure in modo flessibile ma in piccoli
numeri (come fanno molti mammiferi). Abbiamo per ciò confrontato un alveare e
una banda di cacciatori raccoglitori di fronte a una crisi ecologica: chi ha
più possibilità di sopravvivere adattandosi, e quali sono le modalità di
quell'adattamento? Il fatto che gli animali abbiano "meno sapere
appreso" degli umani non significa che non abbiano cultura, e con
l'esempio (tratto da Behave di R. Sapolsky) delle madri scimpanzé che insegnano
ai cuccioli (soprattutto alle femmine) come procurarsi e usare diversi strumenti per raccogliere
insetti, semi e piccole prede, e soprattutto con il clamoroso racconto (pietra
miliare del Sapolsky primatologo) della banda di babbuini fricchettoni, abbiamo
dovuto ammettere che anche gli animali POSSONO avere cultura, cioè attivare
pratiche di comportamento apprese e trasmesse. Ho scritto POSSONO in maiuscolo
per evidenziare che per gli animali la cultura è un optional, un lusso o
comunque una parte minima nell'organizzazione dei loro pattern di
comportamento, che sono in grande misura strutturati biologicamente e in
interazione con l'ambiente naturale (cioè con l'ambiente in cui quegli stessi
animali si trovano a vivere). Gli esseri umani, INVECE DEVONO affidarsi per la
loro sopravvivenza di base a modelli di comportamento APPRESI e non hanno (più)
schemi biologicamente predisposti, proprio perché hanno attivato con il
linguaggio modi di IMMAGINAZIONE del reale che non solo si sovrappongono alla realtà
fisica (come dice Harari) ma di fatto ci si impastano, rendendo sempre più
impossibile dire quel che gli esseri umani vedono come reale-reale e quel che
invece è reale-culturale, perché lo stesso reale-reale è elaborato secondo
filtri culturali (ma su questo dovremo tornarci).
La specificità dell'uomo è
quindi da un lato il peso ECCEZIONALE che il sapere appreso (la cultura,
dunque) ha nella loro vita ordinaria rispetto a qualunque altro animale, per
quanto socialmente evoluto e neurologicamente complesso, ma dall'altro il
fatto, questo sì assolutamente unico, che gli esseri umani vivono le loro vite
fin da subito dentro una DISPOSIZIONE SIMBOLICA, cioè la capacità di associare
"nella loro testa" (in realtà nelle loro strutture sociali e culturali)
qualunque cosa a qualunque valore o giudizio, o qualunque cosa a qualunque
altra cosa "da qualche punto di vista" (questa poi è la definizione
di Segno come Umberto Eco la leggeva di Ch.S. Peirce). Insomma la formula della
cultura è la seguente:
St - Si = Sa = C
Dove
St = Sapere totale
Si = Sapere
innato
Sa = Sapere appreso = Cultura
Il video che racconta come le bici siano
diventate il mezzo principale di locomozione in Olanda è stato mostrato a
lezione per associare la FLESSIBILITA' (che è il lato forte della cultura, quel
che le permette di adattarsi rapidissimamente ai mutamenti ambientali) alla
FRAGILITA', che è invece il lato debole, dato che ogni sistema culturale, per
quanto elegante, per quanto adattivo e per quanto bello DEVE ricominciare da
zero a ogni generazione, dato che trasmissione intergenerazionale avviene con
un durissimo LAVORO che si chiama insegnamento/apprendimento. La trasmissione
di modelli di comportamento biologicamente fissi (Fixed Action Patterns) si basa esclusivamente sulla riproduzione, per cui uno scarabero
stercorario non deve fare nessun corso per imparare a fare la sua pallina dicacca, e le tartarughine che nascono sulla sabbia "sanno" già che
devono correre verso il mare senza essersi iscritte a un tutorial prenatale.
Abbiamo quindi concluso anticipando come apriremo la prossima lezione: la
natura appresa della cultura ne fa esplodere le differenze. Mentre gli animali
della stessa specie, che hanno pattern di comportamento fissati in gran parte
dalla biologia devono mantenere il più uniforme possibile il loro bacino
genetico che è anche bacino comportamentale, visto che ogni variazione
comportamentalepresuppone una variazione genetica che punta inevitabilmente alla
speciazione (cioè al passaggio verso un'altra specie di coloro che praticano
quella variazione comportamentale in ragione di un soggiacente mutamento
genetico), gli esseri umani, che apprendono i loro modelli di comportamento in
modo attivo e che hanno in gran parte slegato quei modelli da qualunque matrice
biologica (non c'è alcuna ragione biologica per cui alcuni popoli sono
vegetariani) sono d fatto "liberi" di variare i loro comportamenti
senza per questo sminuire la loro umanità, anzi arricchendola. Se un cane
cominciasse a miagolare o ad arrampicarsi sugli alberi potremmo mettere in
dubbio la sua caninità, ma se un uomo comincia a parlare una nuova lingua o
mette in atto una nuova pratica mai provata prima, questo arricchisce la sua
umanità, non certo la mortifica.
Non lo sapevo che le aule Zoom avessero una capienza massima di 300 collegamenti (ma mi dicono che quelle Teams sono ferme a 250, per cui non mi lamento) e quindi ieri, alla prima lezione del Modulo A di Antropologia culturale (che quest'anno insegno con Giulia Casentini, che si occuperà soprattutto del Modulo B) eravamo strapieni con lo Zoom che schioppava di presenze.
Bene, direi che è andata bene, abbiamo presentato un po' il corso, come si svolgerà per l'organizzazione pratica. Lavoriamo cercando di produrre interazione con gli studenti, che è la cosa fondamentale da fare, se non si vuole insegnare a vanvera, e quindi usiamo la chat incorporata in Zoom ma anche Mentimeter, che consente di fare presentazioni non tanto "fighe" quanto strutturate attorno alla risposta costante con chi ascolta. Non sono certo un fan delle assemblee, e anzi credo che "la lezione" debba avere una sua struttura gerarchica di comunicazione, se non vuole scadere nel discorso da bar, cosa purtroppo non impossibile quando si maneggiano le scienze sociali, ma dai miei colleghi pedagogisti ho imparato che non è tanto la compresenza fisica a rendere efficace la trasmissione del sapere, ma piuttosto la capacità di ascoltare quelli che, prima di tutto, devono ascoltare, e gestire le loro esigenze per tempo, senza attendere le verifiche delle calende greche. Gli studenti e le studentesse hanno bisogno di far capire se e quanto hanno capito, e la cosa bella della DaD è che ti costringe a tenere conto della questione senza seppellirla sotto la convenzione del "siamo tutti assieme", e "condividiamo", perché anche un'aula in presenza gremita di studenti con un professore che parla senza interagire per 90 minuti non è il massimo di efficienza didattica.
Dai, per ora mi pare sia andata bene, vediamo ora poi come proseguirà.
Il corso
di Antropologia culturale 2020-21 (Modulo A e Modulo B) di
Tor Vergata si tiene quest’anno a partire dal 5 ottobre 2020 sulla
PIATTAFORMA ZOOM. Il corso è nominalmente assegnato a Piero Vereni
per molti corsi di laurea e a Giulia Casentini per il Corso di Beni
Culturali, ma di fatto è un corso congiunto pertutti i
corsi di laurea, compreso il PF24. In pratica, Piero Vereni insegnerà
soprattutto nel modulo A e Giulia Casentini soprattutto nel Modulo B, ma i due
docenti potranno contribuire a entrambi i moduli e la valutazione degli
esami sarà congiunta.
Tutte e
tutti coloro che intendono superare a qualunque titolo un qualunque
numero di crediti di Antropologia culturale nel corso dell’anno accademico 2020/2021
sono tenuti a compilare questo
modulo online con i loro dati, che ci consentono di avere precompilato un file
excel privato predisposto dove i docenti potranno riportare le
valutazioni intermedie, gli esoneri e la valutazione della tesina finale.
Il modulo
è organizzato quindi per le lezioni con dirette Zoom i cui link sono già
disponibili nel calendario
di Tor Vergata caricato su questo blog, ma ogni lezione viene
contemporaneamente registrata e il file audio è scaricabile qui, mentre il file audio-video si
può vedere sul canale YouTube
di Piero Vereni.
NON faremo lezioni su Teamsma tutto il corso si
terrà su Zoom. Per interagire durante le lezioni, gli studenti
potranno usare in diretta la chat interna di Zoom (che verrà registrata
come file di testo e acclusa ai materiali didattici a fine di ogni lezione) e verranno
sollecitati a usare la piattaforma Menti.com
dove avranno la possibilità di partecipare a rapidi questionari e quiz sui temi
della lezione.
La valutazione
dell’esame sarà in forma scritta, con un test sul programma generale e
un test sulla monografia. Le prove scritte saranno effettuate esclusivamente
online sulla piattaforma ClassMarker.
Oltre alle
prove online, le studentesse e gli studenti saranno valutati anche su una tesina
finale che prepareranno seguendo le dettagliatissime indicazioni contenute nella
“cartella studenti”.
Con la
crisi sanitaria ci siamo messi in ascolto, noi che facciamo lavoro al
PEF – Polo Ex Fienile, e invece di imporre o importare sul territorio
progetti calati dall’alto, abbiamo capito in questi mesi che il primo passo è
quello di ascoltare le storie delle persone, le loro motivazioni, le
loro richieste, le loro aspirazioni.
Il confezionamento
e dei pacchi bebè e poi dei pacchi alimentari è iniziato per questo, per rispondere
a una vera emergenza economica esplosa con il lockdown, e il servizio
ora attivo di “doposcuola” è sulla stessa linea, quella di fornire alle persone
e alle famiglie del quartiere ciò di cui hanno più bisogno in questo
periodo.
Una
richiesta pressante da parte di molti genitori (soprattutto mamme) che
frequentano il PEF è quella di avere accesso a lezioni di lingua italiana
per stranieri, dover acquisire senza oneri economici lo strumento di base della
cittadinanza e dell’integrazione, e cioè le competenze linguistiche e
civiche dell’italiano.
Al PEF –
Polo Ex Fienile ci siamo preparati e stiamo quindi per partire con corsi di
lingua italiana per gli adulti stranieri nel VI municipio e nel quartiere
di Torbellamonaca in particolare. Abbiamo bisogno di volontari e volontarie,
persone abilitate per l’insegnamento o comunque in grado di maneggiare le competenze
necessarie per questo lavoro che ha pochi equivalenti per importanza nell’acquisizione
della cittadinanza attiva.
Se siete studenti
o studentesse di lingue che pensano di lavorare nell’insegnamento dell’italiano
come lingua seconda, e se vi interessa mettere a frutto le vostre competenze
e la vostra passione per un lavoro di cui tutta la comunità territoriale
non potrà che beneficiarne, vi preghiamo di mettervi in contatto con il PEF e i
suoi operatori. Se mandate qualche riga di presentazione al mio indirizzo mail piero.vereni@gmail.com con un vostro recapito
e ogni altra informazione pensiate possa essere utile, sarà mia cura
girare la vostra mail a Lorenzo Natella, l’operatore della Associazione
21 Luglio che gestisce questo progetto al PEF.
Con un
gruppo di studenti di Tor Vergata, in modo del tutto sgangherato (mio) e
incredibilmente appassionato (da parte degli studenti) per tre anni abbiamo
organizzato una scuola di italiano al TMC – Torpignattara Muslim Center,
una delle più belle esperienze per me da quando sono a Roma, in termini di
arricchimento personale, di creazione di relazioni e di condivisione di
umanità attraverso la condivisione dei principi della cittadinanza.
Sono convinto che chi vorrà partecipare (per ora, ripeto, a titolo totalmente
volontario, appena la situazione dei tirocini – legata alla pandemia che
ancora blocca o rallenta molte cose – si sistemerà negli Atenei vedremo se si
potranno erogare crediti formativi a qualche titolo) troverà in questa esperienza
una grande ricchezza, e una grande bellezza.