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giovedì 20 marzo 2008

Ben mi sta


Come antropologo, so benissimo che molto spesso mi trovo a sintetizzare il pensiero dei miei “informatori”, magari condensando in un paio di frasi una discussione che si è protratta per ore, o giorni. Cerco quindi di stare attento al mio lavoro interpretativo, e visto che l’antropologia è vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”, la domanda che mi pongo spesso è: siamo sicuri che il mio informatore sarebbe d’accordo con la sintesi che sto facendo del suo pensiero?
Comunque sia, sento spesso nel sottobosco delle mie ricerche l’arroganza della nostra disciplina, che pretende comunque di parlare “in vece di” e facilmente prevarica. Mi sono sempre chiesto cosa si prova a sentirsi pubblicamente interpretati in un modo inaspettato, secondo modalità non tanto “errrate” quanto sentite come non proprie. Bene, ora lo so.
Stavo facendo una cosa che - mi dicono - non si dovrebbe fare, e cioè stavo guggolando il mio nome (guggolare è un calco fonetico che mi sono inventato io, dall’inglese to google = fare una ricerca su internet tramite il motore di ricerca per antonomasia) quando è uscito questo:

Gli adulti molto spesso hanno una famiglia o comunque un lavoro, quindi si “alienano” in internet in modo molto diverso rispetto ai giovani; essi ad esempio hanno ritmi di vita che li impossibilitano a stare troppe ore sulla Rete e sempre per il principio della “desiderabilità sociale” tendono, molto più che i giovani, a giustificare la loro alienazione spesso affermando che è l’unico modo per sfuggire ai problemi quotidiani, a cui comunque, in un modo o in un altro, provano di fanno fronte. Un classico esempio che dimostra questa tendenza è il blog di Piero Vereni, editor, antropologo e ricercatore a tempo determinato all’università della Calabria. Quest’uomo, divorziato con una figlia da mantenere, non ha una vita agiata, anzi al contrario lavora 15 ore al giorno, 7 giorni su 7 e tiene un blog nel quale racconta la sua vita e i suoi problemi. Egli sostiene che scrivere i post è un modo per sfuggire dalla routine quotidiana e dai problemi economici che incombono alla fine di ogni mese. Tra le sue parole si può leggere l’amarezza, il desiderio di essere da un’altra parte, di essere qualcun altro, egli sostiene di non avere il tempo per una seconda vita su internet e quindi giustifica i suoi post sostenendo che sono l’unico “spiraglio di originalità” della sua vita poiché i suoi 3 lavori non gli permettono di mostrare tutta la sua “verve intellettuale”. In qualche modo egli cerca di giustificare la sua presenza in Internet come unico momento di fuga dalla realtà, come unico luogo in cui può essere veramente se stesso, imputando la colpa ai suoi lavori. Se così fosse il blog gli sarebbe di grande aiuto, proprio perché diventerebbe l’unico strumento con cui soddisfare la sua voglia di scrivere e la sua originalità, l’unico modo per esprimere il suo vero essere; bisognerebbe però vedere se quello che scrive è vero o sono solo parole dette per giustificare i suoi lunghi post con i quali, come lui stesso ammette, toglie tempo alla sua vita e alla sua bambina. Pietro si ritrae come un uomo a cui il proprio lavoro non piace, o meglio 2 dei suoi 3 lavori, egli afferma di lavorare per il denaro e di fare l’editor per passione, critica la sua società e nel blog non fa altro che giustificare le sue parole come momento di evasione: cerca in tutti i modi di dimostrare ai lettori dei suoi post che la sua presenza nel blog non è una perdita di tempo, ma una necessità; il tema del tempo e della sua scarsità è uno degli argomenti più sentiti all’interno dei blog visitati dagli adulti. Per il principio della “desiderabilità sociale” l’uomo medio è un uomo che non ha tempo da perdere, che deve lavorare, guadagnare e portare a casa uno stipendio degno, quindi un uomo che in teoria non dovrebbe essere su un blog perché ciò sarebbe una disdicevole perdita di tempo, per questo motivo i blog degli adulti appaiono proprio come un insieme di post nei quali essi parlano del loro lavoro e giustificano la loro presenza in Rete, come se fosse necessario giustificare il loro esserci con persone che stanno, in fondo, facendo proprio la stessa cosa.


Qui trovate il link al pezzo intero, che credo sia una relazione per una tesina universitaria.
Mi sono visto non tanto “oggettivato”, quanto reso pubblico e quindi fruibile come immagine da parte di terzi. Ho cioè cominciato a pensare che forma assuma il segno “pierovereni” nella testa del docente che quella tesina ha corretto. È questa incontrollabilità della mia immagine che più trovo spaesante. Non metto in discussione la legittimità dell’autrice del pezzo a vedermi così, né il suo diritto di riportare il mio pensiero secondo le sue necessità, ma vedermi rappresentato, come dire, con la barba lunga e la camicia fuori dai pantaloni sulla schiena mi sta facendo impressione. Come antropologo, mi pare una bella lezione di metodologia della ricerca.