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giovedì 20 marzo 2008

Il fattore culturale


Faceva impressione leggere sul CdS del 4 marzo le interviste a Piero Ichino e Roberto Maroni, interpellati separatamente sull’incidente di Molfetta che ha provocato la morte di cinque persone. Entrambi sostengono un punto in modo netto: le leggi ci sono, e sono buone. Il problema è che manca una chiara disposizione alla loro applicazione. Dice Ichino, professore di diritto del lavoro:

In Paesi con livelli di cultura civica più alti la frequenza di infortuni cala… In Italia la cultura delle regole è poco radicata… Va radicata nella nostra cultura l’idea che rispettare le regole è un gioco a somma positiva… Occorre rafforzare cultura e prassi della legalità.

Gli fa eco Maroni, ex ministro del lavoro:

Temo che il problema sia più di cultura della sicurezza che di normativa… In casi come quello di Molfetta il lavoratore deve essere abituato a fare la cosa giusta.

Da posizioni politiche diverse entrambi riconoscono uno scarto netto tra piano legislativo e piano della prassi, e sostengono che quest’ultimo è determinato, più che dalle leggi disponibili, dalla “cultura” delle persone, intesa come insieme di pratiche incorporate, cioè abitudini. Bene, come antropologo non posso che concordare, ma mi chiedo allora quale sia la concezione di cultura che circola, quale sia cioè la cultura culturale, per così dire, il modo in cui concepiamo il concetto di cultura. Da dove viene il livello civico di cultura, più alto in alcuni paesi rispetto al nostro? Come si può incrementare lo spazio per una cultura della cooperazione (gioco a somma positiva) opposta a una cultura della competizione (gioco a somma zero, mors tua vita mea)? Come si diffonde una cultura della legalità se non conosciamo i meccanismi di diffusione della cultura dell’illegalità? Dove si apre lo spazio per innestare una cultura della sicurezza se non si fanno i conti con i modelli di corpo disponibili in quel contesto? Intendo dire che forse (e ripeto: forse) c’è una correlazione tra un certo modello di mascolinità sfrontata (i Modi bruschi di cui parla Franco La Cecla) e certe leggerezze sul lavoro: ho bene in mente un operaio macedone che saldava quasi sempre senza maschera, perché gli sembrava una cosa “da froci”, fin quando ha perso un occhio. Può essere quindi che la sicurezza sul lavoro si leghi direttamente a certi modelli del corpo (maschile/femminile) che può/non può sentire freddo, paura, dolore? E può essere che la quota di cultura civica disponibile dipenda anche dal modo in cui si configura lo spazio che l’individuo sente proprio sulla linea casa/non casa, per cui quel che è “non casa” viene percepito come totalmente estraneo o addirittura “dell’altro” e quindi può essere rubato/vandalizzato/ignorato senza avere la sensazione di subire una perdita? Può essere che una cultura dell’illegalità si nutra dell’antitesi noi/voi che si sedimenta attorno a rigidissime linee di parentela/clientela?
Sto dicendo che per capire bene cosa si può veramente fare per diminuire i morti sul lavoro c’è bisogno di scardinare la parola magica (“cultura”) per farla diventare quel che dovrebbe essere: il tentativo di ricostruire la rete di significati che fa sì che diventi comprensibile un comportamento che dal nostro punto di vista appare azzardato o addirittura incosciente. Senza incolpare chi muore e senza pretendere che basti una legge per cambiare le cose. Se è la cultura a dover cambiare, l’unico modo per farlo è capire nei dettagli i suoi meccanismi di funzionamento e le connessioni simboliche che permette di istituire tra diversi campi della vita. Solo conoscendo la natura di quelle connessioni potremo provare a lavorare per riconfigurarle secondo i nostri obiettivi.