Lontano dalle incombenze didattiche, sto finalmente studiando
un po’ a ruota libera, una bella lista di libri e pdf soprattutto in vista di
un articolo commissionato da consegnare a metà novembre e un libro
che nei miei sogni dovrebbe essere finito a metà settembre. Entrambi affrontano
tematiche religiose per cui mi capita di leggere cose interessanti come
queste (che prendo da Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga,
Feltrinelli 2018, un libro che per altro mi convince poco, sottotitolato un po’
furbescamente “manifesto laico contro il multiculturalismo”, frase che mette
insieme quattro parole che apprezzo pochissimo, tanto più in questa
combinazione) che trovo a pagina 58:
…il sociologo Farhad Khosrokhavar
[che è uno che ha etnografato terroristi islamici in carcere,
per dire, mica uno che parla per sentito dire] distingue un “islam dell’integrazione”,
un “islam dell’esclusione” e un “islamismo radicale” [la fonte è
un saggio in una vecchia raccolta curata da Annamaria Rivera nel 2002].
Nel primo tipo – il più diffuso ma
anche il meno visibile perché meno militante – l’islam è vissuto non come
appartenenza a un gruppo ma come “costruzione di una identità singolare
in seno alla società francese”. L’islam dell’esclusione è invece, sempre nelle
parole di Khosrokhavar, “una forma di costruzione neo-comunitaria di un senso
che fa riferimento al sacro, in cui il soggetto […] cerca di conferire un significato
alla propria esistenza tenendosi in disparte rispetto a una società
nella quale non crede più di avere la possibilità di fare parte degli ‘inclusi’.
Mentre l’islam dell’integrazione cerca un riconoscimento in seno alla nazione,
l’islam dell’esclusione è caratterizzato dall’assenza di fiducia in una società
che ha rifiutato a questi giovani l’integrazione”.
Questa è la forma di islam più
problematica per un sistema democratico e liberale, non solo perché, essendo “per
sua natura ambiguo”, può rappresentare un piano inclinato che porta verso la
terza tipologia di islam, ossia quella della radicalizzazione fondamentalista, ma
anche perché, anche quando rimane del tutto non violenta, contribuisce a creare
divisioni, ad alimentare un senso di esclusione e non dà il suo contributo a
una società coesa.
Sono in vacanza in Sicilia, con internet razionato, ma le vicende politiche degli ultimi giorni e la crisi in atto mi si intrecciano costantemente con quel che leggo (un’altra serie di suggestioni in questo senso, una specie di attualizzazione dell’antropologia politica, mi viene dalla lettura conclusiva delle bozze di Il potere dei re, di David Graeber e Marshall Sahlins, che ho tradotto assieme a Chiara Cacciotti e Simone Cerulli e che uscirà con una mia introduzione a ottobre per Raffaello Cortina editore) per cui mi è partita involontaria la connessione tra questa tripartizione del mondo islamico nel contesto francese e una più generale tripartizione su come gestiamo la cittadinanza negli stati in cui viviamo, in particolare in Italia. Molti di noi si sentono partecipi di una “cittadinanza dell’integrazione”: credono di avere certi diritti e doveri, e pensano che questo modello di cittadinanza cui partecipano sia un progetto in gran parte individuale che costituisce una porzione rilevante della propria posizione in seno alla comunità nazionale. Io, per dire, mi sento chiaramente parte di questo tipo di cittadinanza: ho un lavoro nel settore pubblico che mi piace molto ed è remunerato in modo decente, lavoro che mi permette di pagare una quota considerevole di tasse dirette e indirette, grazie a cui accedo a una serie di servizi per me e i miei cari, dalla sanità, all’istruzione, alla mobilità pubblica. Il patto sociale, per così dire, per me funziona e anche se avrei certo richieste di miglioramento non posso certo lamentarmi, guardandomi intorno. Perché se mi guardo attorno vedo un altro tipo di cittadinanza, la “cittadinanza dell’esclusione”, dei molti (in numero crescente) che per un motivo o per un altro non si sentono più parte degli “inclusi” come me. Si tratta di molte persone che non hanno un lavoro adeguato a quelle che considerano le loro qualità, o che non hanno un lavoro stabile, o non è abbastanza pagato, o non c’è del tutto. Persone che vivono lontane dai posti che loro considerano importanti per la loro vita e faticano a raggiungerli; che hanno abitazioni non adeguate, o del tutto insufficienti; o che comunque, quale che sia la loro situazione lavorativa, si sentono defraudati, manca loro qualche cosa, fosse anche solo il riconoscimento delle loro vere capacità, e non prendono più parte attiva alla vita sociale del loro paese perché non possono o perché hanno sviluppato un senso di rifiuto, una specie di mancanza di significato del loro agire. Queste persone tendono a ritirarsi vagheggiando un tempo o uno spazio in cui, invece, quella dimensione includente c’era: si colloca in un tempo mitologico che spesso dipende dalle proprie predilezioni morali e politiche, ma è un passato comunque migliore dello “schifo” attuale. E questi cittadini “dell’esclusione” più di tutto sviluppano un cupo risentimento perché sanno che la vita va così, ora, ma non è un destino ineluttabile, e se non fosse per questo o per quel motivo, per questa o quella causa, la loro vita sarebbe (o almeno sarebbe stata) ben altra cosa.
Il lavoro della politica, nel nostro paese ma non
solo, era stato finora quello di attrarre (producendo ovviamente le
necessarie condizioni politiche ed economiche) i cittadini “dell’esclusione”
verso gli spazi “dell’inclusione” ma da qualche anno (diciamo un decennio,
circa, a cavallo della crisi economica del 2008) si è aperta una nuova opzione
di attrazione per i cittadini che si sentivano esclusi, vale a dire uno
scivolamento verso una terza opzione, in crescita vertiginosa direi in
tutto il mondo occidentale, vale a dire una cittadinanza “radicale”, fatta
di manicheismo identitario (se non sei mio amico sei mio nemico) e una
vena di megalomania etnica (“noi”, definiti vagamente come gruppo etno-razziale,
siamo comunque migliori e abbiamo la precedenza su chiunque altro). Certo,
gruppuscoli fascisti ci sono sempre stati in tutti gli stati moderni, ma dal
secondo dopoguerra fino a tempi recentissimi erano, appunto, gruppuscoli,
che potevano attrarre solo la marginalità estrema. Oggi, e basta
veramente guardarsi intorno in Europa, in Asia e in America, questa concezione “estremista”
della cittadinanza sta provando a diventare maggioritaria, e in certi spazi
lo è già.
Se questo quadro fosse corretto, si potrebbero leggere le tendenze
di voto di questi ultimi due anni in Italia come un travaso dalla
cittadinanza “dell’esclusione” a quella “radicale”, con la cittadinanza “dell’inclusione”
incapace di mettere bocca in questo gioco al massacro. La lotta politica
che ci si apre davanti, quindi, non è quella parlamentare per capire se
si debba fare o meno un governo o andare a votare, ma quella culturale,
per capire che cosa intendono fare i cittadini “dell’esclusione”, visto
che è evidente che da soli non hanno i numeri per auto-affrancarsi con un’azione
politica diretta e tutta autonoma (come ha cercato di fare prima di
questo governo il M5S), non fosse altro che molti “dell’esclusione” non
partecipano (per definizione) in alcun modo alla vita politica, e non
votando non possono certo contribuire a un processo di emancipazione degli esclusi.
Possiamo quindi valutare questi esclusi (se prendiamo la somma M5S+non voto
come un proxy attendibile di questa condizione, stiamo parlando del primo
partito d’Italia, altro che Lega) che hanno diverse opzioni di qui ai prossimi
mesi:
1. travasare nei cittadini “radicali” (ma forse
questa opzione è già stata portata termine praticamente per intero; gli esclusi
che vedevano un’opzione nel rafforzamento etnico della loro identità hanno già
fatto il salto in questi mesi, come sembrano indicare i flussi
elettorali dal M5S alla Lega)
2. restare esclusi inattivi o iniziare ad esserlo (quindi
continuare a non partecipare al voto o smettere di votare se lo si era fatto di
recente, coltivando il proprio risentimento come forma dell’identità;
questa è al momento l’opzione più probabile)
3. attivarsi al margine, quindi riversare nel MoVimento
(o continuare a farlo) la speranza che si possa coagulare il benedetto 90 percento
di grillina memoria e produrre la palingenesi sociale.
4. aprire una trattativa con la cittadinanza “dell’inclusione”
e vedere che margini ci sono per una collaborazione (ma a che questa,
alla luce del sole, sembra più un’apertura tattica da politicanti, che
non una vera mutazione culturale)
Come cittadino e come partecipe del mondo dell’istruzione io
mi impegno a lavorare con i gruppi 2 e 3, per evitare che cedano alle sirene
di 1 e provando ad aprire degli spazi di interlocuzione verso 4. I cittadini
che “si sentono” esclusi non sono ipso facto esclusi e almeno
alcuni, a mio modesto parere, ci marciano attivando la nota tendenza nazionale
al piagnisteo deresponsabilizzante, ma resta verissimo che questo paese
ha ancora molto lavoro da fare per realizzare l’articolo
3 della Costituzione nella sua interezza. Al di là delle questioni
elettorali, si apre una grande battaglia culturale nel nostro paese, per
decidere se la cittadinanza che pratichiamo o subiamo debba essere prima di
tutto inclusiva, esclusiva o escludente. Tutti abbiamo il dovere di partecipare
a questa battaglia, discutendo, difendendo le nostre idee e
restando disponibili a cambiarle quando qualcuno ne avanzasse di
migliori.