Note per
la lettura di Consigli per essere un bravo immigrato, di Elvira Mujčic,
Lit Edizioni srl (Elliot), Roma, 2019, pp. 91.
Ho letto i
primi lavori di Elvira Mujčic in quanto “esperto dei Balcani” e ora mi ritrovo
a leggere l’ultimo lavoro in quanto “esperto di immigrazione” o qualcosa del
genere.
Verrebbe
voglia di tornare ai comodi modelli dello strutturalismo per comprendere il
filo del libro: Elvira, bionda, bianca, italiana accolta bambina come rifugiata
bosniaca in un mondo in cui ancora esisteva la compassione, si trova ad aiutare
(ci torno dopo, su questo verbo) Ismail, africano gambiano, nero, dinoccolato,
che non riesce a farsi riconoscere la protezione internazionale per il suo caso
di perseguitato politico.
Li
uniscono due tratti, uno più superficiale (ma molto connotativo dello straniero,
in Italia), vale a dire la tradizione familiare musulmana (che per Ismail
permane nella recitazione delle sure del Corano ascoltate con le cuffiette,
mentre per Elvira è solo il ricordo dei riti di fine Ramadan celebrati dal
nonno a riportarla in quella sfera); e una invece più profonda, personale, vale
a dire la tendenza al controllo eccessivo.
Che cosa
mai dovrà fare, Elvira, con il suo status rassicurante di scrittrice italiana
ex straniera, per poter aiutare questo straniero incapace di scrivere, di
compilare cioè in modo credibile il modulo C3, la domanda per la richiesta di
protezione che include il racconto biografico dettagliato degli eventi che
legittimano la richiesta di essere accolto nel nostro paese? Una non-abbastanza-straniera
con un eccesso di scrittura che deve aiutare un troppo-straniero con una
carenza di credibilità come narratore. È Maurizio (un operatore del terzo
settore che amava la Bosnia da prima della guerra e che lavora con gli
immigrati) a fare il mezzano di questa coppia sbilenca, in cui una ex straniera
dovrebbe spiegare a un futuro immigrato come si scrive una storia credibile.
Ecco, il punto centrale di tutto il libro è la disamina di questo aggettivo
associato al racconto. Che cosa fa di una storia una storia credibile?
Si
scoprirà (e dopo Nietzsche non abbiamo scampo) che la verità narrativa è una
struttura retorica, una serie di tropi letterati, di stilemi e di aspettative del
lettore portate a compimento. Quel che è successo non ha alcuna importanza.
Oppure, per provare a dirlo in modo meno pessimistico, quel che conta della
narrazione non è quel che è successo, ma quel che significa che sia successo. Una
narrazione condotta dentro un senso, per quanto artefatta, sarà sempre più
credibile di quella che gli antropologi chiamano thin description, vale
a dire un racconto senza un ordito significativo a sostenere la trama.
Se non si
entra in questa logica del senso del racconto, non succede praticamente nulla
nelle pagine del libro: una richiesta di protezione internazionale viene
rigettata, e una scrittrice dovrebbe aiutare un immigrato a compilare un
ricorso facendo leva sulle strategie retoriche del racconto credibile. Si badi
che Elvira è interpellata da Maurizio in questo ruolo di assistente dell’eroe per
la sua duplice natura di scrittrice e di ex straniera, vale a dire di una che
dovrebbe saperla lunga su come si articola una storia per essere accolti in
Italia. Solo che Elvira non ha mai dovuto esercitare le sue competenze di
narratrice come richiedente asilo perché veniva da Srebrenica, e nel massacro
del luglio 1995 ha perso il padre e lo zio ma non ha avuto bisogno di
raccontare questa storia per essere ammessa in Italia, quella era un’altra
epoca, in cui ancora la compassione era un sentimento spendibile in pubblico e
dalle pubbliche istituzioni. Ismail invece cerca di entrare in un mondo che
parla di responsabilità e opzioni individuali, di codici e regolamenti, e ha
bisogno di uniformare il suo racconto ai modelli accettabili.
In realtà
Elvira non ha consigli da dare a Ismail per essere un bravo immigrato, e
condivide con lui racconti, cercando di comprendere cosa c’è che non va nella
storia del giovane gambiano.
In questi
incontri tutti vissuti nel quartiere romano di San Lorenzo, appaiono
all’orizzonte le due altre figure narrative del libro, che sono insieme la
radice dello spaesamento e del dolore, e il perno del ricordo e del possibile
riorientamento morale dei due. Non aspettatevi lunghe pagine, né ritratti
dettagliati, sono però cunei narrativi che tengono in piedi tutto il romanzo:
sono il padre di Elvira e il padre di Ismail.
Il primo
compare già nel sogno all’inizio del libro (Elvira bambina entra in un cinema
“vieni, vieni a vedere cose finte che sembrano vere”, ma poi un’ascia squarcia
lo schermo e una mano trascina Elvira oltre la parete della finzione: “vieni,
qui le cose sono vere, ma sembrano finte”), ma è alla fine del decimo capitolo
che prende la forma inaspettata di un fenicottero:
…la prima volta che li avevo visti volare nel cielo di
Cagliari erano una ventina, si erano levati in volo dalla salina e i loro corpi
rosa si erano stagliati nella luce del tramonto […] Con mio padre guardavamo i
documentari sui fenicotteri che, per i nostri climi e latitudini, ci apparivano
come animali fantasmagorici, e fare un viaggio per accertarne l’esistenza era
stato uno dei progetti più grandiosi della mia infanzia.
Quel giorno a Cagliari, l’incontro con questi uccelli
formidabili mi aveva fatto pensare a mio padre […] Lui non aveva fatto in tempo
a vedere i fenicotteri nei trentaquattro anni della sua vita e questa brevità
del tempo, quest’atto mancato, l’innaturalezza dell’essere una figlia più
vecchia del padre, la definitività con la quale tutte le sue esperienze si
erano arrestate, mentre le mie andavano avanti, l’impossibilità di stabilire un
dove e un quando di quella morte aveva fatto sì che lui non fosse mai diventato
passato. Era presente come una sottile mancanza tenuta viva da un dialogo
immaginario… (pp.70-71).
Di nuovo,
non c’è alcun evento, non c’è bisogno che succeda nulla per suscitare questo
ricordo e questo legame, basta l’immagine di una bambina in divano con il
padre, a fantasticare su viaggi esotici alla caccia di uccelli visti in tv.
Troppo poco, verrebbe da dire, per essere credibile come storia…
Anche il
padre di Ismail appare la prima volta in un episodio parimenti privo di eventi.
È il primo giorno di scuola per Ismail, ma il padre non si vede, la sua barca
forse non è rientrata dalla pesca e il figlio lo cerca con un crescente
presentimento:
Inciampava nelle reti da pesca e quando stava quasi per
arrendersi alla disperazione, la mano grande dalle dita callose di suo padre si
era posata sulla sua testa; lui aveva sentito qualcosa sciogliersi nel petto e
si era messo a piangere come fosse un bambino piccolo, mentre il padre rideva e
gli accarezzava la testa e domandava: «Come hai potuto pensare che tuo padre ti
avrebbe abbandonato?»
In seguito era successo molte volte di essere lì lì per arrendersi
alla disperazione, ma quando arrivava a quell’esatto punto si ricordava di quel
giorno in spiaggia e allora, come per una questione di superstizione, si
riprendeva e diceva che no, non si sarebbe lasciato andare così, le cose
sarebbero andate bene, come se il solo fatto che una volta aveva ritrovato il
padre perduto garantisse tutti i ritrovamenti futuri. (p. 73).
“La mano
grande dalle dita callose” non è vista da Ismail, ma percepita con il tatto,
mentre suo padre lo carezza. Il padre è prima di tutto un contatto, uno
spazio che solitamente lasciamo alle madri, ma questo padre materico e nodoso
(“io sento che sono due persone: sono me e sono mio padre” dirà a pagina 78)
sembra il converso del padre di Elvira, ricordato tramite la visione della
sua eterea alterità animale.
Sono
entrambi padri perduti, nomi, ricordi da nulla, un documentario alla
televisione, una paura da bambini. Eppure, è dentro quei ricordi che il lettore
sente la commozione del tempo ritrovato come senso. Non c’è bisogno, verrebbe
da dire con ritrosia, che ci raccontiate le azioni bestiali degli assedianti di
Srebrenica e della polizia del dittatore del Gambia, perché il vostro dolore e
la vostra sofferenza sono tutte raccolte in quella mancanza del padre che non
può che essere anche mancanza della patria, di un posto e di un tempo in cui il
futuro non aveva ancora preso la forma che poi vi avrebbe portati fino a questo
bisogno o necessità di raccontarlo. Un futuro segnato da una perdita
insanabile, dalla perdita per eccellenza, si dice.
Cosa
possiamo ancora raccontare di fronte alla perdita del padre? Quale altra storia
ha senso, dopo quella? Elvira e Ismail si pongono, di nuovo, in posizione speculare
con le loro risposte. Elvira diventa addirittura scrittrice, fa di quella
apparente ineffabilità il motore della sua vita, mentre Ismail deve convertire
quel racconto che non sa dire in un agire compensatorio (devo restare nel vago
per evitare accuse gravi di spoileraggio…): se non può dire quella mancanza,
deve fare qualcosa per equilibrarla: “riparare, recuperare, salvare quello che
si può per rimediare a quello che non si è potuto fare” (p.85).
C’è,
infine, un ultimo tratto che mi ha colpito di questo libro esile e denso, ed è
la presenza dei sogni. Per Elvira sono un modo per aprirsi al racconto, ma per
Ismail sono un legame con i defunti: quando smette di sognare, teme di aver
perso contatto con i suoi antenati, che loro si siano scordati di lui. Per
entrambi i protagonisti, così, il sogno è il tramite necessario all’apertura di
un senso, orientato al futuro della scrittura per Elvira o radicato, per
Ismail, nel passato della propria storia, per quanto indicibile. Il sogno
quindi lega il tempo e il racconto, consente di affacciarsi sui volti
sconosciuti dei prossimi lettori e nei tratti consueti dei familiari perduti, e
lascia in chi legge una sottile malinconia di storie altrui, che così poco
somigliano alle nostre, eppure riusciamo, nel mistero della scrittura, a
sentirle parte di noi.