mi prendo un po’ di spazio e un po’
di tempo per riprendere le fila del discorso e provare a darti la mia versione
della questione. Avevo scritto dopo le elezioni umbre questo rapido post su Fb:
Potete avere tutti i voti che volete. Continuerete ad avere
torto marcio nelle vostre pseudo-analisi e nelle vostre finte soluzioni. Siamo
ancora migliori di come ci volete dipingere.
Era
una specie di “non ci avrete mai” tirato un po’ per le lunghe, con tutta la pochezza
teorica che uno slogan sbrodolato può avere (cioè molto poca).
Tu
hai risposto chiedendomi chi fosse il soggetto di quel plurale “siamo”, ed
è iniziato un denso scambio di commenti al post. Visto che il tuo ultimo commento
ribadisce la domanda (“ma resta quel soggetto sottinteso della tua prima
frase... esiste? No? Com'è? Come sarà?”), è segno che i miei tentativi
di risposta sono falliti e allora provo qui a fare un po’ d’ordine.
Il Noi è il mistero più profondo della vita umana. Non è necessario
essere d’accordo con Carl Schmitt e la sua teoria amico/nemico
per sapere che ogni cultura stabilisce vari confini identitari, tra diversi
ordini del “noi”. Il familismo morale colloca questo “noi” in un
ambito molto ristretto, addirittura la famiglia nucleare, mentre alcune
ideologie internazionaliste e alcune religioni cosmopolite
collocano il Noi, potenzialmente, su scala planetaria e di fatto entro un raggio
piuttosto vasto di condivisione. L’ampiezza oggettiva del “noi” dipende dalla
disponibilità morale e tecnologica di una cultura nel legittimare
e consentire una qualche interazione tra i membri del noi. Prima della
tecnologia della mobilità e della comunicazione (strade in asfalto,
rete ferroviaria e mass media nazionali) il noi degli stati era alquanto frammentato,
per non dire inesistente; e prima che si inventassero il multiculturalismo
i Noi canadese e australiano erano piuttosto esclusivi, riservati ad alcuni
sottogruppi. Il comunismo, per esempio, come afflato “…di tutto il mondo”
non poteva nascere prima della fabbrica, ma anche prima dell’invenzione
della stampa a caratteri mobili e dei fogli di giornale che
aprivano un potenziale spazio di condivisione morale e cronologica del
presente in punti diversi dello spazio planetario.
Qualche
che sia la dimensione del noi (dal Sinn Fein, “noi da soli” degli irlandesi
etnici opposti ai Brits, alla comunità dei cristiani o alla umma musulmana) il
modo in cui ho imparato a distinguere pseudo-oggettivamente il confine
tracciato soggettivamente è di ordine largamente economico (non
monetario, economico cioè guardando a come si producono, circolano e vengono
consumati beni, servizi e valori). Nel Noi prevalgono gli
scambi basati sulla cooperazione e sulla reciprocità generalizzata
(“doni”) mentre quando ci relazioniamo con Loro prevalgono gli scambi
basati sulla competizione e sulla reciprocità negativa (“furti”).
L’ideologia
del Mercato autoregolato (per cui vedi Polanyi, La grande
trasformazione) pretende di istituire un sistema oggettivo di scambi che
metta da parte i doni e i furti e che riconduca tutto a merci. Quando è
vincente, questa ideologia diventa società di mercato (quella in cui
viviamo). La conseguenza generale di una società di mercato è che combatte
il Noi in qualunque forma (letta sempre, appunto, come familismo,
clientelismo, corruzione e distorsione del mercato) e riduce il
tutto, metodologicamente, analiticamente e pragmaticamente, all’individuo,
che deve entrare nel mercato con le sue dotazioni (capitale culturale ed
economico) e competere individualmente per l’allocazione delle risorse
(quelle che vende nel mercato del lavoro e quelle che compra nei
supermercati di ogni sorta, ASL comprese).
L’ideologia
del Mercato non è totalmente vincente, ci mancherebbe; ci sono un sacco di spazi
per affetti, relazioni interpersonali, amicizie, passioni, corsi di yoga gratuiti
e club della Roma, quindi non ho una visione disfattista sull’impatto del
mercato nella cultura in generale (anche se sono molto preoccupato per i
costanti tentativi del mercato di espandere la sua unica legge della
domanda e dell’offerta in settori che non lo riguardavano affatto fino a pochi
decenni fa, come la salute, l’istruzione, l’abitazione).
Ma
sono abbastanza certo, dati alla mano, che questa riduzione del Noi all’individuo
sia particolarmente evidente in quello spazio che chiamiamo “politica”.
Un ragazzino di 15 anni mi ha detto due settimane fa che lui vuole entrare in
politica, e con questo intendeva che appena possibile vuole “fondare il suo
partito”. Ecco, in questo ritratto c’è quel che intendo per la crisi della politica
attuale. Le grandi unità di riferimento (classi e gruppi produttivi) come
quadro di analisi sono state sostituite dalla logica del consumo, che
induce all’individuazione identitaria. Di
fatto, hanno successo solo i partiti che occultano questo processo
vendendo invece un Noi fittizio che non mette in discussione la pulsione
individuante dei soggetti. Il “prima gli Italiani” e “noi siamo il popolo”
dei partiti che hanno vinto le ultime politiche si basano su una finzione
radicale: figuriamoci se i calabresi credono a Salvini che dà loro degli
Italiani; e figuriamoci se l’elettore medio del M5S, che notoriamente non ha
mai fatto parte di associazioni, gruppi sul territorio, partiti e altri corpi
intermedi ma si è sempre vantato del suo isolamento individuante, si sente “popolo”
come potevano sentirsi “popolo” gli operai di una fabbrica o i braccianti del
sindacato contadino. Non se ne parla, ovviamente. Votano anzi queste signore e
questi signori per Salvini e Di Maio perché comprano da loro l’illusione
di una comunità inesistente, moralmente rassicurante ed eticamente a impegno
zero.
Ci sono, secondo la visione che
propongo io, tre tipi di comunità possibili, cioè di noi emotivamente
solidi: ci sono le comunità “naturali”, quelle “immaginate” e
quelle “intenzionali”. Le prime non sono ovviamente naturali, mi
riferisco al fatto che sono sentite come tali, o erano sentite tali fin
quando sono esistite: la famiglia, il gruppo degli amici del bar
o della scuola, in alcuni contesti provinciali (o periferici, penso al comitato
di Casale Rocchi a Pietralata) anche il vicinato può essere concepito
come una comunità naturale in questo senso.
Le comunità naturali, ci ha
insegnato Benedict Anderson, possono costituire la base ideologica per
fondare comunità immaginate, vale a dire le nazioni
ottocentesche, il movimento operaio, il socialismo e il femminismo come pratiche
politiche e tutti i cosiddetti “partiti di massa”, che istituiscono un cameratismo
orizzontale e un senso di “destino” anche tra soggetti che non avranno mai
la possibilità di conoscersi o interagire secondo i canoni comunitari della
reciprocità generalizzata e della collaborazione.
Ci sono poi le comunità
intenzionali, che sono invece di ridotte dimensioni come le naturali
ma istituite da un atto volitivo e programmatico, come le immaginate: monasteri,
comuni, ecovillaggi, kkibbutzim e altri modelli basati sulla condivisione di un
sistema di valori (siamo tutti pacifisti, siamo tutti fedeli della
Madonna del Carmine, siamo tutti convinti che questo pezzo di terra ci sia
stato assegnato per destino) che diventa anche un sistema di pratiche
orientato a uno scopo collettivo.
Ecco, per provare infine a
rispondere alla tua domanda, Marco, io credo che oggi la lotta politica
si configuri tra la vecchia guardia, con la sua ideologia ancora vincente
di fingere una comunità immaginata e innocua, che non intacca l’individualismo
imperante ma rassicura che, da qualche parte, anche noi apparteniamo a
un qualche genericissimo Noi uniforme e compatto; e un nuovo modo di proporre
la politica come comunità intenzionale immaginata. Quando io ho messo il
verbo al plurale pensavo (inconsapevolmente, e ti ringrazio che la tua
sollecitazione mi ha spinto a questo chiarimento prima di tutto con me stesso) a
questo modo di stare assieme, a questo tipo di Noi.
Io penso che gli individui che
credono che valga la pena di fare qualcosa per il bene comune siano
ancora molti, e mi considero uno di loro (cioè uno di questo Noi). Non credo si
sia maggioranza, ma non penso neppure si tratti di piccoli numeri, e poi, nella
logica dentro cui mi muovo, la dimensione oggettiva quantificata
nelle tessere di partito e nelle urne elettorali ci interessa poco. Pensiamo
che il mondo sia in pericolo per la situazione ambientale, per il
sistema di sfruttamento dei pochi sui molti, per l’ampliarsi delle ingiustizie
e per il crescere diffuso del risentimento come impulso all’azione. Abbiamo
figli che crescono, o comunque ci piace pensare che “l’allocazione
intergenerazionale delle risorse” sia una preoccupazione prioritaria delle
nostre vite. Sappiamo altresì che andare oltre questo vaghissimo orizzonte
(credo che Raymond Williams la chiami “comunità di sentimento”) puntando
a qualche vetusta o neo-fasulla comunità immaginata è azione inane e ce
ne asteniamo volentieri. Non cediamo però neppure alla depressione individualista
del Mercato, non accettiamo la sconfitta con il cipiglio di chi prende
il mondo a dispetto, e ancora ci illudiamo (ebbene sì, siamo anche
consapevoli che qualunque idea di comunità implica un’illusione, o una fede
nell’altro) che ci si possa muovere assieme verso qualche meta semplice e praticabile:
lo ius culturae, se non si può avere lo ius soli; un reddito
di inclusione che guardi a tutti i dispossessed, non solo a quelli che
possono pensare di cercarsi un lavoro; un ripensamento radicale della casa
come diritto e non come merce; una fuoriuscita dell’educazione e della salute
dagli spazi del mercato; un ripensamento cosciente dei rapporti di genere;
il rifiuto della prevaricazione violenta dell’altro, anche quando
è un avversario; la consapevolezza, soprattutto, che in corso d’opera gli
obiettivi possono aggiungersi e mutare, dentro quell’orizzonte morale della
comunità intenzionale immaginata, che è intenzionale perché pone alla
sua base un impegno razionale, ed è immaginata perché sa di dover fare i
conti, in primis, con la sua diversificazione interna contestando
radicalmente i progetti omogeneizzanti del vecchio conio identitario.
Lo so, questo è un progetto che
non trasforma alla radice il sistema, che non prospetta alcuna rivoluzione
plateale. Ma questo, credo, è l’ultimo tratto in comune dei Noi di cui ti ho
parlato: non crediamo alla Rivoluzione, abbiamo veramente smesso di crederci, e
puntiamo sulla più faticosa via dell’Evoluzione.
Un abbraccio, sapendo che questo
Noi di cui ho parlato nella mia immaginazione ti include,
p