2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

mercoledì 30 ottobre 2019

Note sul Noi

Caro Marco,
mi prendo un po’ di spazio e un po’ di tempo per riprendere le fila del discorso e provare a darti la mia versione della questione. Avevo scritto dopo le elezioni umbre questo rapido post su Fb:
Potete avere tutti i voti che volete. Continuerete ad avere torto marcio nelle vostre pseudo-analisi e nelle vostre finte soluzioni. Siamo ancora migliori di come ci volete dipingere.
Era una specie di “non ci avrete mai” tirato un po’ per le lunghe, con tutta la pochezza teorica che uno slogan sbrodolato può avere (cioè molto poca).
Tu hai risposto chiedendomi chi fosse il soggetto di quel plurale “siamo”, ed è iniziato un denso scambio di commenti al post. Visto che il tuo ultimo commento ribadisce la domanda (“ma resta quel soggetto sottinteso della tua prima frase... esiste? No? Com'è? Come sarà?”), è segno che i miei tentativi di risposta sono falliti e allora provo qui a fare un po’ d’ordine.
Il Noi è il mistero più profondo della vita umana. Non è necessario essere d’accordo con Carl Schmitt e la sua teoria amico/nemico per sapere che ogni cultura stabilisce vari confini identitari, tra diversi ordini del “noi”. Il familismo morale colloca questo “noi” in un ambito molto ristretto, addirittura la famiglia nucleare, mentre alcune ideologie internazionaliste e alcune religioni cosmopolite collocano il Noi, potenzialmente, su scala planetaria e di fatto entro un raggio piuttosto vasto di condivisione. L’ampiezza oggettiva del “noi” dipende dalla disponibilità morale e tecnologica di una cultura nel legittimare e consentire una qualche interazione tra i membri del noi. Prima della tecnologia della mobilità e della comunicazione (strade in asfalto, rete ferroviaria e mass media nazionali) il noi degli stati era alquanto frammentato, per non dire inesistente; e prima che si inventassero il multiculturalismo i Noi canadese e australiano erano piuttosto esclusivi, riservati ad alcuni sottogruppi. Il comunismo, per esempio, come afflato “…di tutto il mondo” non poteva nascere prima della fabbrica, ma anche prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e dei fogli di giornale che aprivano un potenziale spazio di condivisione morale e cronologica del presente in punti diversi dello spazio planetario.
Qualche che sia la dimensione del noi (dal Sinn Fein, “noi da soli” degli irlandesi etnici opposti ai Brits, alla comunità dei cristiani o alla umma musulmana) il modo in cui ho imparato a distinguere pseudo-oggettivamente il confine tracciato soggettivamente è di ordine largamente economico (non monetario, economico cioè guardando a come si producono, circolano e vengono consumati beni, servizi e valori). Nel Noi prevalgono gli scambi basati sulla cooperazione e sulla reciprocità generalizzata (“doni”) mentre quando ci relazioniamo con Loro prevalgono gli scambi basati sulla competizione e sulla reciprocità negativa (“furti”).
L’ideologia del Mercato autoregolato (per cui vedi Polanyi, La grande trasformazione) pretende di istituire un sistema oggettivo di scambi che metta da parte i doni e i furti e che riconduca tutto a merci. Quando è vincente, questa ideologia diventa società di mercato (quella in cui viviamo). La conseguenza generale di una società di mercato è che combatte il Noi in qualunque forma (letta sempre, appunto, come familismo, clientelismo, corruzione e distorsione del mercato) e riduce il tutto, metodologicamente, analiticamente e pragmaticamente, all’individuo, che deve entrare nel mercato con le sue dotazioni (capitale culturale ed economico) e competere individualmente per l’allocazione delle risorse (quelle che vende nel mercato del lavoro e quelle che compra nei supermercati di ogni sorta, ASL comprese).
L’ideologia del Mercato non è totalmente vincente, ci mancherebbe; ci sono un sacco di spazi per affetti, relazioni interpersonali, amicizie, passioni, corsi di yoga gratuiti e club della Roma, quindi non ho una visione disfattista sull’impatto del mercato nella cultura in generale (anche se sono molto preoccupato per i costanti tentativi del mercato di espandere la sua unica legge della domanda e dell’offerta in settori che non lo riguardavano affatto fino a pochi decenni fa, come la salute, l’istruzione, l’abitazione).
Ma sono abbastanza certo, dati alla mano, che questa riduzione del Noi all’individuo sia particolarmente evidente in quello spazio che chiamiamo “politica”. Un ragazzino di 15 anni mi ha detto due settimane fa che lui vuole entrare in politica, e con questo intendeva che appena possibile vuole “fondare il suo partito”. Ecco, in questo ritratto c’è quel che intendo per la crisi della politica attuale. Le grandi unità di riferimento (classi e gruppi produttivi) come quadro di analisi sono state sostituite dalla logica del consumo, che induce all’individuazione identitaria. Di fatto, hanno successo solo i partiti che occultano questo processo vendendo invece un Noi fittizio che non mette in discussione la pulsione individuante dei soggetti. Il “prima gli Italiani” e “noi siamo il popolo” dei partiti che hanno vinto le ultime politiche si basano su una finzione radicale: figuriamoci se i calabresi credono a Salvini che dà loro degli Italiani; e figuriamoci se l’elettore medio del M5S, che notoriamente non ha mai fatto parte di associazioni, gruppi sul territorio, partiti e altri corpi intermedi ma si è sempre vantato del suo isolamento individuante, si sente “popolo” come potevano sentirsi “popolo” gli operai di una fabbrica o i braccianti del sindacato contadino. Non se ne parla, ovviamente. Votano anzi queste signore e questi signori per Salvini e Di Maio perché comprano da loro l’illusione di una comunità inesistente, moralmente rassicurante ed eticamente a impegno zero.
Ci sono, secondo la visione che propongo io, tre tipi di comunità possibili, cioè di noi emotivamente solidi: ci sono le comunità “naturali”, quelle “immaginate” e quelle “intenzionali”. Le prime non sono ovviamente naturali, mi riferisco al fatto che sono sentite come tali, o erano sentite tali fin quando sono esistite: la famiglia, il gruppo degli amici del bar o della scuola, in alcuni contesti provinciali (o periferici, penso al comitato di Casale Rocchi a Pietralata) anche il vicinato può essere concepito come una comunità naturale in questo senso.
Le comunità naturali, ci ha insegnato Benedict Anderson, possono costituire la base ideologica per fondare comunità immaginate, vale a dire le nazioni ottocentesche, il movimento operaio, il socialismo e il femminismo come pratiche politiche e tutti i cosiddetti “partiti di massa”, che istituiscono un cameratismo orizzontale e un senso di “destino” anche tra soggetti che non avranno mai la possibilità di conoscersi o interagire secondo i canoni comunitari della reciprocità generalizzata e della collaborazione.
Ci sono poi le comunità intenzionali, che sono invece di ridotte dimensioni come le naturali ma istituite da un atto volitivo e programmatico, come le immaginate: monasteri, comuni, ecovillaggi, kkibbutzim e altri modelli basati sulla condivisione di un sistema di valori (siamo tutti pacifisti, siamo tutti fedeli della Madonna del Carmine, siamo tutti convinti che questo pezzo di terra ci sia stato assegnato per destino) che diventa anche un sistema di pratiche orientato a uno scopo collettivo.
Ecco, per provare infine a rispondere alla tua domanda, Marco, io credo che oggi la lotta politica si configuri tra la vecchia guardia, con la sua ideologia ancora vincente di fingere una comunità immaginata e innocua, che non intacca l’individualismo imperante ma rassicura che, da qualche parte, anche noi apparteniamo a un qualche genericissimo Noi uniforme e compatto; e un nuovo modo di proporre la politica come comunità intenzionale immaginata. Quando io ho messo il verbo al plurale pensavo (inconsapevolmente, e ti ringrazio che la tua sollecitazione mi ha spinto a questo chiarimento prima di tutto con me stesso) a questo modo di stare assieme, a questo tipo di Noi.
Io penso che gli individui che credono che valga la pena di fare qualcosa per il bene comune siano ancora molti, e mi considero uno di loro (cioè uno di questo Noi). Non credo si sia maggioranza, ma non penso neppure si tratti di piccoli numeri, e poi, nella logica dentro cui mi muovo, la dimensione oggettiva quantificata nelle tessere di partito e nelle urne elettorali ci interessa poco. Pensiamo che il mondo sia in pericolo per la situazione ambientale, per il sistema di sfruttamento dei pochi sui molti, per l’ampliarsi delle ingiustizie e per il crescere diffuso del risentimento come impulso all’azione. Abbiamo figli che crescono, o comunque ci piace pensare che “l’allocazione intergenerazionale delle risorse” sia una preoccupazione prioritaria delle nostre vite. Sappiamo altresì che andare oltre questo vaghissimo orizzonte (credo che Raymond Williams la chiami “comunità di sentimento”) puntando a qualche vetusta o neo-fasulla comunità immaginata è azione inane e ce ne asteniamo volentieri. Non cediamo però neppure alla depressione individualista del Mercato, non accettiamo la sconfitta con il cipiglio di chi prende il mondo a dispetto, e ancora ci illudiamo (ebbene sì, siamo anche consapevoli che qualunque idea di comunità implica un’illusione, o una fede nell’altro) che ci si possa muovere assieme verso qualche meta semplice e praticabile: lo ius culturae, se non si può avere lo ius soli; un reddito di inclusione che guardi a tutti i dispossessed, non solo a quelli che possono pensare di cercarsi un lavoro; un ripensamento radicale della casa come diritto e non come merce; una fuoriuscita dell’educazione e della salute dagli spazi del mercato; un ripensamento cosciente dei rapporti di genere; il rifiuto della prevaricazione violenta dell’altro, anche quando è un avversario; la consapevolezza, soprattutto, che in corso d’opera gli obiettivi possono aggiungersi e mutare, dentro quell’orizzonte morale della comunità intenzionale immaginata, che è intenzionale perché pone alla sua base un impegno razionale, ed è immaginata perché sa di dover fare i conti, in primis, con la sua diversificazione interna contestando radicalmente i progetti omogeneizzanti del vecchio conio identitario.
Lo so, questo è un progetto che non trasforma alla radice il sistema, che non prospetta alcuna rivoluzione plateale. Ma questo, credo, è l’ultimo tratto in comune dei Noi di cui ti ho parlato: non crediamo alla Rivoluzione, abbiamo veramente smesso di crederci, e puntiamo sulla più faticosa via dell’Evoluzione.
Un abbraccio, sapendo che questo Noi di cui ho parlato nella mia immaginazione ti include,
p

lunedì 28 ottobre 2019

A serious invitation for a serious party

A friend used to tell me the other night: Have a laugh every now and then, Piero. Quite right. Sometimes I tend to get dark, even though I think I have the ability to look at the comic side, or at least the grotesque side, of many aspects of life. The discipline that I practice should actually help to take on that look that leads to a smile, but I don't always succeed.
This time, however, I would like to insist on lightness, rather than comedy, with that look that Italo Calvino taught us in his memorable American Lesson. There is a question that is never mentioned, constantly denied even though it is one of the very few things that all humans have in common, and this question is DEATH.
The Feast of All Saints and the Catholic celebration on 2 November are the only public glimmer of our relationship with the dead in Italy. Halloween no, it is no longer, as we know. But there were always feasts of the dead in Italy, even semi-pagan occasions, in which the dead appeared and the children learned fear. From my parts, we ate "dead bones", dry biscuits, and "the beans of the dead", macaroon species. Shortly thereafter St. Martin arrived, which was in fact a very similar thing to Halloween given that the kids went around making noise by banging drums made with cans of detergent and singing a Venetian nursery rhyme about San Martino and getting some sweets from the ladies of the neighborhood.
The last thing I care about is "tradition". I am often bored by tradition, I am definitely in favor of innovation if the tradition is meaningless or pretends to be older than it is and maybe it was introduced by the Municipality for turists. But the relationship with the dead, no, is not a tradition, it is a human necessity: together with the fire to cook and to the taboo of incest, it is one of the milestones of the appearance of humans as cultural animals.
We no longer know what to do with our dead, because they speak a lost language, that we no longer want to listen (even if Tiziano Scarpa told us that we speak thanks to the words we inherit from the dead), we are too busy pretending we live to have still the courage to talk to the dead. This reduction of dead to empty sacks, this total inability to relate to them is the lowest point of the moral crisis of our world.
And anthropology cannot make it all up in the analysis; if it does not become a practice, at least in my opinion, it is not good anthropology.
So, October 31st arrives, the world pretends to be cheerfully frightened, our children, obviously,  go trick-or-treating in the block but we still have a sense of emptiness, an incompleteness of the kind you wrote a letter but you left in the drawer, never sent.
Then, making myself strong in my discipline, with a group of students we staged a "ritual" evening of communication with the dead, at the former barn (ex Fienile) of Torbellamonaca, in Largo Mengaroni 29. From 6:30 pm you can come and hear stories and tell stories. At the entrance, guests receive a sticky note on which to write the details of the person they intend to remember that evening. Much of the evening will be dedicated to listening to the voices of the dead that everyone wants to bring: a poem, a passage from a book, an improvisation, a personal memory, an important song. There will be a corner where we will also collect the recipes "of the good old days", what was done in the village of grandmother for the dead. And we will all eat together. TorVergata  offers a small catering service for free but it will also be nice to share some rustic cake, some sandwiches, a pasta salad or anything else you want to bring from home, to eat or drink.
In a special corner it will be possible to do, through an app developed by the kids of LaPE (the Laboratory of Ethnographic Practice without which all this could never even have been conceived), to take a photo turned sepia to be posted on a virtual plaque with your words carved on marble.
When we have eaten and drunk well, after telling each other the many stories of our dead, we will conclude the evening with a small collective ritual. Everyone can write a message on a piece of paper to a loved one, and burn it on the fire that we have lit in the garden, trying, therefore, to talk to the dead after so many years of silence.
Like all rituals, the community is needed to make them true. Come and be a community, we look forward to welcoming you.

Un invito serio per una festa sul serio



   Un amico mi diceva l’altra sera: E fattela una risata ogni tanto, Piero. 
Giusto. Ogni tanto tendo a incupirmi, anche se credo di avere le capacità di guardare al lato comico, o almeno a quello grottesco, di molti aspetti della vita. La disciplina che pratico in effetti dovrebbe aiutare ad assumere quello sguardo straniante che porta al sorriso, ma non sempre mi riesce. 
Questa volta, però, vorrei insistere sulla leggerezza, più che sulla comicità, con quello sguardo che Calvino ci ha insegnato nella sua memorabile Lezione americana. C’è una questione di cui non si parla mai, negata costantemente pur se è una delle pochissime cose che accomuna tutti gli umani, e questa questione è la MORTE. La festa di Ognissanti e la ricorrenza cattolica del 2 novembre sono l’unico barlume pubblico del nostro rapporto coi morti. Halloween no, non lo è più, come sappiamo. Ma feste dei morti ce ne sono state sempre nel nostro paese, occasioni anche semi-pagane, in cui i morti si affacciavano e i bambini imparavano la paura. Dalle parti mie allora mangiavamo “gli ossi da morto”, dei biscotti secchi, e “le fave dei morti”, delle specie di amaretti. Poco dopo arrivava san Martino, che era in effetti una cosa molto simile a Halloween dato che i ragazzini andavano in giro a fare casino sbattendo tamburi fatti coi fustini di detersivo e cantando una filastrocca in veneziano su San Martino (San Martin xe andà in sofita...) e facendosi dare qualche dolcetto dalle signore delle case lì attorno. 
L’ultima cosa a cui tengo è la “tradizione”. Mi annoia spesso la tradizione, sono decisamente a favore dell’innovazione se la tradizione è senza senso o finge di essere più vecchia di quel che è e magari è stata introdotta dalla Proloco del Comune. Ma il rapporto con i morti, no, non è una tradizione, è una necessità umana: assieme al fuoco per cucinare e al tabù dell’incesto una delle pietre miliari della comparsa dell’uomo come animale culturale. 
Non sappiamo più che farci, con i nostri morti, perché parlano un linguaggio perduto, che non vogliamo più ascoltare (anche se Tiziano Scarpa ci ha raccontato che noi parliamo grazie alle parole che ereditiamo dai morti), siamo troppo presi a fingerci vivi per avere ancora il coraggio di parlare coi morti. Questa riduzione dei morti a sacchi vuoti, questa nostra totale incapacità di relazionarci con loro è il punto più basso della crisi morale del nostro mondo. 
E l’antropologia non ce la fa a stare tutta dentro l’analisi; se non diventa prassi, almeno secondo me, non è buona antropologia. 
Quindi, arriva il 31 ottobre, il mondo finge di essere allegramente spaventato, i nostri bambini – giustamente eh – vanno fare dolcetto o scherzetto nel condominio ma a noi resta un senso di vuoto, un’incompiutezza del tipo che hai scritto una lettera ma l’hai lasciata nel cassetto, mai spedita. 
Allorafacendomi forte della mia disciplina, con un gruppo di studenti abbiamo messo in scena una serata “rituale” di comunicazione coi morti, al polo ex Fienile di Torbellamonaca, in largo Mengaroni 29. Dalle 18.30 si possono venire ad ascoltare storie e raccontare storie.  All’ingresso gli ospiti ricevono un foglietto adesivo su cui scrivere i dati della persona che intendono ricordare quella sera. Buona parte della serata sarà dedicata ad ascoltare le voci dei morti che ciascuno vorrà portare: una poesia, un brano di un libro, un’improvvisazione, un ricordo personale, una canzone importante. Ci sarà un angolo dove raccoglieremo anche le ricette “dei bei tempi antichi”, quel che si faceva al paese di nonna per i morti. E si mangerà tutti assieme. Tor Vergata mette a disposizione gratuita un piccolo catering ma sarà bello anche condividere qualche torta rustica, qualche tramezzino, un’insalata di pasta o qualunque altra cosa si voglia portare da casa, da mangiare o bere. 

In un angolo apposito sarà possibile farsi, tramite una app messa a punto dai ragazzi del LaPE  (il Laboratorio di Pratiche Etnografiche senza il quale tutto questo non avrebbe mai potuto neppure essere concepito) dicevo farsi una foto virata seppia da affiggere su una lapide virtuale con tanto di scritta scolpita sul marmo. 
Quando avremo mangiato e ben bevuto, dopo esserci raccontati gli uni gli altri le tante storie dei nostri morti, concluderemo la serata con un piccolo rituale collettivo. Ognuno potrà scrivere un messaggio su un foglietto a una persona cara, e lo brucerà sul fuoco che avremo acceso in comune, provando, quindi, a parlare coi morti dopo tanti anni di silenzio. 
Come tutti i rituali, c’è bisogno della comunità per renderli veri. Venite a fare comunità, vi aspettiamo molto volentieri. 

sabato 26 ottobre 2019

Lezione normale in un posto SPECIALE

Oggi pomeriggio, sabato 26 ottobre 2019, dalle 15.15 lezione NORMALE di antropologia culturale (Lezione numero 9 del modulo A di Tor Vergata) in uno spazio SPECIALE, vale a dire al Polo ex Fienile.
La lezione è presentata come "aperta alla cittadinanza" e fa parte di una serie di iniziative dell'OPEN DAY del Fienile (se canta, se sòna, se bbeve e se magna fino a notte, anche grazie allo splendido lavoro di Amarò Foro, il gruppo di cultura hip hop del Fienile, e a Assalti Frontali, gruppo più che storico, direi foucaultianamente archeologico del rap italiano) ma sappiamo benissimo quanto sia difficile raggiungere un quartiere complicato come Torbellamonaca con iniziative culturali e quindi mi aspetto la massima collaborazione dal parte degli studenti del mio corso. 
Oggi ho BISOGNO della massima presenza possibile, voglio che il Fienile letteralmente strabocchi. Vi spiegherò nel corso della lezione la ragione di ciò. PER QUESTO MOTIVO, per spingere i più pigri ("see che palle, Torbella, il fienile, la macchina, la metro, mo' come c'arivo") a venire COMUNQUE, la registrazione integrale della lezione, diversamente dalle lezioni finora tenute a Tor Vergata, sarà resa disponibile solo alla fine del modulo. CHI AVESSE VALIDE MOTIVAZIONI (LAVORO) MI SCRIVA VIA MAIL E RICEVERA' UN LINK PRIVATO PER SCARICARE IL FILE MP3 GIA' DA DOMANI. Fate circolare per piacere la ferale notizia che spezzerà il cuore ai tanti ragionieri della "frequenza calcolata" di Tor Vergata, comodamente adagiati sugli mp3 del Vereni. E se io me ne scordassi, oggi a lezione INSISTETE perché vi spieghi le ragioni ANTROPOLOGICHE che mi spingono a questo modo di agire.
La lezione sarà una discussione sulle "culture in movimento" e sul rapporto tra cultura e globalizzazione, a partire dalla lettura dello storico (anche quello archeologico) articolo di Arjun Appadurai (1991), Disgiuntura e differenza nell'economia culturale globale.

lunedì 21 ottobre 2019

umano#8 al Macro

Riprendiamo il nostro cammino attorno alla parola #umano al MACRO ASILO di Roma.
Questa volta abbiamo chiesto a Costantino Albini di condividere la sua concezione di Umano e umanità con noi, per aprire le porte a una concezione non dualistica della nostra condizione.
Siete tutti invitati a questo nuovo incontro per tessere assieme la trama intricata di un percorso di riflessione che non pretende certo di essere esaustivo, ma che aspira ad essere polimorfo, cangiante e complicato come deve essere nella natura dell'Umano.
Dopo Vereni, Farinelli, Dei, Casolino, Botti, Cimatti e Scarpa, Costantino Albini ci porterà a un incontro con la terra e con il cielo, con l'umiltà e con l'immensità della nostra natura.
Vi aspettiamo martedì 22 ottobre, alle ore 17 in punto, ingresso da via Nizza. Gli studenti di Antropologia culturale di Tor Vergata sono pregati di compilare questo modulo online per confermare la loro partecipazione.

giovedì 10 ottobre 2019

Mafiosi e ergastolo


 Mentre aspettavo le mie studentesse americane per visitare l’Istituto Tevere, stamattina ho scritto di getto questo post su Facebook:
Sto per prendere la tessera del Partito Democratico. Lo faccio convinto, sereno che non ci sarà mai il posto perfetto dove veder rappresentate tutte e sole le mie idee politiche. Lo faccio però addolorato di sapere che il mio partito sostiene un governo il cui ministro della giustizia è un forcaiolo che non ha capito nulla del senso della sentenza di Strasburgo sull'ergastolo ostativo. Governare con questa gente è indecente. Lo so che sembra apodittico e puzza tanto di radical chic, ma chiunque ha lavorato in carcere sa che il "fine pena mai" prodotto dal 4bis è una mostruosità giuridica e una crudeltà indegna di qualunque paese civile. Un ministro della giustizia che non capisce questo è un politico meschino che non dovrebbe neppure essere degno della considerazione di un partito con la tradizione giuridica e garantista del PD.

A parte i commenti sulla mia tessera, un caro amico con non trascurabili competente giuridiche commenta così:
quanto invece al fine pena mai, potrei anche essere d'accordo con te, ma ti faccio una domanda: un Provenzano, un Totò Riina, un Matteo Messina Denaro dopo 25 anni di carcere, li rimetteresti in libertà?
Un altro amico, Giorgio, ribadisce:
Caro Piero ti seguo sempre nei tuoi commenti e sai che ho molta considerazione su quello che dici però penso che personaggi di quel calibro non conoscano pentimenti e di questo ne sono quasi certo e pur vero che se vogliono anche in carcere possono coordinare attività malavitose. Purtroppo noi porgiamo la guancia a persone che non hanno scrupoli è difficile essere garantisti in questi frangenti! Ciao Piero!
Così, da qui, con un filo di calma in più, rispondo al mio amico Matteo e al mio amico Giorgio, ma mi piacerebbe (scusate l’ardire) che queste due cosette che vorrei dire fossero lette anche dal Ministro Bonafede.
Provenzano e Riina sono morti in carcere, Matteo Messina Denaro è latitante, quindi a loro la discussione sull’ergastolo ostativo continua a non fare un baffo. Io considero però questo esteso lapsus estremamente significativo del fatto che ormai pensiamo alla mafia (“ormai” è dalla Piovra in giù) come a una lunga fiction con i suoi protagonisti, di cui si siamo persi un sacco di puntate ma di cui ogni tanto ci torna in mente qualche protagonista. La spettacolarizzazione della mafia (inevitabile nella nostra società dello spettacolo, non ne faccio colpa a nessuno) produce questo strano effetto per cui due capimafia morti in carcere e un capomafia irreperibile dal 1993 diventano un argomento per sostenere la legittimità o almeno la giustezza dell’ergastolo ostativo.
Tutto si basa, temo, sulla diffusa ignoranza di come stanno le cose, vale a dire la distinzione tra due articoli dell’ordinamento penitenziario italiano. Il 41bis era una norma (“carcere duro”) che in origine (nella modifica del 1986 dell’ordinamento penitenziario del 1975) si applicava solo ai casi di emergenza (rivolte nelle carceri) e dopo le stragi mafiose del 1992 venne estesa ai capimafia. In pratica col 41bis si è sottoposti alla sorveglianza continua e i contatti con l’esterno sono ridottissimi. NON è un ergastolo, è solo un modo speciale di scontare la pena, quale che sia.
L’articolo 4 bis invece è tutt’altra cosa, non è “carcere duro” ma istituisce una condizione speciale sulla pena di coloro che lo subiscono. La pena ordinaria, in effetti, viene intaccata da diversi benefici, tra cui la possibilità di accedere a permessi dopo un certo periodo (metà della pena) e il conteggio dei giorni, vale a dire lo “sconto” di 45 giorni di condanna ogni sei mesi trascorsi in buona condotta. Se si subisce una condanna ostativa significa che, per quella porzione di condanna, non si possono conteggiare i benefici e “ci si fa la galera”. Se uno, poniamo, è stato condannato a 10 anni di cui 6 ostativi, significa che fino al compimento del sesto anno “se la fa tutta” e dopo inizia a scontare una pena ordinaria, con il conteggio dei giorni, la possibilità di permessi, le possibilità di richiedere misure alternative (domiciliari o altro).
Chi sono i condannati che subiscono il 4bis? Sono coloro che hanno subito la condanna anche per “associazione a delinquere” (mafia o spaccio internazionale, di fatto) e non sono diventati collaboratori di giustizia, non hanno cioè attivamente fornito informazioni utili a smantellare l’organizzazione di cui fanno parte. Di fronte a un reato “di mafia”, quindi se ci si pente in questo senso (si coinvolgono altre persone consentendo la loro incriminazione) si possono beneficiare di molti sconti di pena e di altri vantaggi. Succede così che Giovanni Brusca (soprannominato lo scannacristiani) condannato per la Strage di Capaci, condannato per la strage di via D’Amelio, condannato per l’omicidio di Giuseppe Di Matteo (rapito a tredici anni perché figlio di un boss rivale, tenuto in ostaggio per due anni e infine strangolato e sciolto nell’acido), essendosi pentito ha ottenuto così tanti benefici che nel 2021 avrà finito di scontare la sua pena e sarà un uomo libero.
Invece, ci sono nelle galere italiane centinaia di uomini della bassa manovalanza mafiosa, criminali professionisti (nel senso di stipendiati) che a venti o venticinque anni sono entrati in galera per uno, due, o dieci omicidi e assieme alla condanna per omicidio stanno scontando la condanna per associazione e, non avendo parlato, non essendosi “pentiti”, hanno subito la condanna nel regime del 4 bis, vale a dire senza poter usufruire di alcun beneficio. In questi casi, l’ergastolano non può usufruire dei benefici di legge, che di fatto lo fanno terminare dopo 25 anni di reclusione, fatte salve le garanzie pretese dal giudice di sorveglianza, e il suo ergastolo nominale diventa “fine pena mai”. Questi uomini non si sono pentiti, e questo potremmo dire che è un male, ma è anche vero che in molti casi non sono rimasti chiusi in sé stessi, e tutti sono cambiati dentro il carcere. F.R., in carcere da 27 anni, è entrato con la seconda elementare e tra qualche giorno sosterrà la discussione della sua tesi di laurea in giurisprudenza. Altri ostativi che conosco hanno fatto un percorso veramente inimmaginabile nel carcere, e ora che hanno passato i cinquanta, dopo venticinque o trent’anni dentro, sono persone totalmente diverse da quei ragazzi criminali che erano entrati.
Il dramma di questi uomini è che il loro cambiamento non è riconoscibile con gli occhiali della giustizia italiana. Non possono più pentirsi perché i fatti in cui sono stati coinvolti molti anni fa sono ormai del tutto risolti, o i loro coautori sono già in galera, o sono morti. Il loro pentimento (per quanto possa essere sincero nello spazio della loro coscienza) non ha alcun valore per la giustizia perché non serve a nulla, non può produrre nuovi arresti e non conduce a nuove indagini. Questi uomini sono allora definiti “inesigibili”, vere nullità giuridiche che, indipendentemente da quel che hanno commesso e ormai indipendentemente da quello che sono diventati dietro le sbarre, sono costretti a morire in carcere.
Ecco, forse se pensassimo un po’ meno a Gomorra e un po’ di più al vecchio pensionato che vive la porta accanto, capiremmo un po’ meglio che la corte di Strasburgo ha detto solo che tutto questo non è giusto. Che un mostro come Brusca il prossimo anno uscirà perché si è “pentito”, mentre la trasformazione profonda e totale di tanti uomini non trovi alcun riconoscimento pubblico e li tenga a marcire in carcere.
Io mi chiamo fuori, il Ministro Bonafede sappia che non mi rappresenta, che io non voglio essere rappresentato da lui e da quelli che la pensano come lui. Una giustizia che cessa di essere umana cessa di essere giustizia.

mercoledì 2 ottobre 2019

I giovedì del LaPE

Per i distratti che oggi si sono persi la prima lezione del Modulo A di Antropologia culturale, ricordo che la valutazione finale sarà fatta su:
1. voto dello scritto in aula
2. voto della tesina
3. punteggio per la partecipazione alle attività extradidattiche.

Se, putacaso, domani giovedì 3 ottobre, venite alle 21 spaccate (famo pure 20.50) al polo culturale ex Fienile, in largo Mengaroni 29, potete assistere al film Once were warriors come primo film del cineforum didattico che abbiamo attivato.
Chi partecipa vince popcorn e aranciata e anche un terzo di punto da sommare al voto finale del suo percorso di Antropologia culturale.
Chi partecipa al dibattito dopo il film con una domanda intelligente prende .05 punti...