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mercoledì 30 ottobre 2019

Note sul Noi

Caro Marco,
mi prendo un po’ di spazio e un po’ di tempo per riprendere le fila del discorso e provare a darti la mia versione della questione. Avevo scritto dopo le elezioni umbre questo rapido post su Fb:
Potete avere tutti i voti che volete. Continuerete ad avere torto marcio nelle vostre pseudo-analisi e nelle vostre finte soluzioni. Siamo ancora migliori di come ci volete dipingere.
Era una specie di “non ci avrete mai” tirato un po’ per le lunghe, con tutta la pochezza teorica che uno slogan sbrodolato può avere (cioè molto poca).
Tu hai risposto chiedendomi chi fosse il soggetto di quel plurale “siamo”, ed è iniziato un denso scambio di commenti al post. Visto che il tuo ultimo commento ribadisce la domanda (“ma resta quel soggetto sottinteso della tua prima frase... esiste? No? Com'è? Come sarà?”), è segno che i miei tentativi di risposta sono falliti e allora provo qui a fare un po’ d’ordine.
Il Noi è il mistero più profondo della vita umana. Non è necessario essere d’accordo con Carl Schmitt e la sua teoria amico/nemico per sapere che ogni cultura stabilisce vari confini identitari, tra diversi ordini del “noi”. Il familismo morale colloca questo “noi” in un ambito molto ristretto, addirittura la famiglia nucleare, mentre alcune ideologie internazionaliste e alcune religioni cosmopolite collocano il Noi, potenzialmente, su scala planetaria e di fatto entro un raggio piuttosto vasto di condivisione. L’ampiezza oggettiva del “noi” dipende dalla disponibilità morale e tecnologica di una cultura nel legittimare e consentire una qualche interazione tra i membri del noi. Prima della tecnologia della mobilità e della comunicazione (strade in asfalto, rete ferroviaria e mass media nazionali) il noi degli stati era alquanto frammentato, per non dire inesistente; e prima che si inventassero il multiculturalismo i Noi canadese e australiano erano piuttosto esclusivi, riservati ad alcuni sottogruppi. Il comunismo, per esempio, come afflato “…di tutto il mondo” non poteva nascere prima della fabbrica, ma anche prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili e dei fogli di giornale che aprivano un potenziale spazio di condivisione morale e cronologica del presente in punti diversi dello spazio planetario.
Qualche che sia la dimensione del noi (dal Sinn Fein, “noi da soli” degli irlandesi etnici opposti ai Brits, alla comunità dei cristiani o alla umma musulmana) il modo in cui ho imparato a distinguere pseudo-oggettivamente il confine tracciato soggettivamente è di ordine largamente economico (non monetario, economico cioè guardando a come si producono, circolano e vengono consumati beni, servizi e valori). Nel Noi prevalgono gli scambi basati sulla cooperazione e sulla reciprocità generalizzata (“doni”) mentre quando ci relazioniamo con Loro prevalgono gli scambi basati sulla competizione e sulla reciprocità negativa (“furti”).
L’ideologia del Mercato autoregolato (per cui vedi Polanyi, La grande trasformazione) pretende di istituire un sistema oggettivo di scambi che metta da parte i doni e i furti e che riconduca tutto a merci. Quando è vincente, questa ideologia diventa società di mercato (quella in cui viviamo). La conseguenza generale di una società di mercato è che combatte il Noi in qualunque forma (letta sempre, appunto, come familismo, clientelismo, corruzione e distorsione del mercato) e riduce il tutto, metodologicamente, analiticamente e pragmaticamente, all’individuo, che deve entrare nel mercato con le sue dotazioni (capitale culturale ed economico) e competere individualmente per l’allocazione delle risorse (quelle che vende nel mercato del lavoro e quelle che compra nei supermercati di ogni sorta, ASL comprese).
L’ideologia del Mercato non è totalmente vincente, ci mancherebbe; ci sono un sacco di spazi per affetti, relazioni interpersonali, amicizie, passioni, corsi di yoga gratuiti e club della Roma, quindi non ho una visione disfattista sull’impatto del mercato nella cultura in generale (anche se sono molto preoccupato per i costanti tentativi del mercato di espandere la sua unica legge della domanda e dell’offerta in settori che non lo riguardavano affatto fino a pochi decenni fa, come la salute, l’istruzione, l’abitazione).
Ma sono abbastanza certo, dati alla mano, che questa riduzione del Noi all’individuo sia particolarmente evidente in quello spazio che chiamiamo “politica”. Un ragazzino di 15 anni mi ha detto due settimane fa che lui vuole entrare in politica, e con questo intendeva che appena possibile vuole “fondare il suo partito”. Ecco, in questo ritratto c’è quel che intendo per la crisi della politica attuale. Le grandi unità di riferimento (classi e gruppi produttivi) come quadro di analisi sono state sostituite dalla logica del consumo, che induce all’individuazione identitaria. Di fatto, hanno successo solo i partiti che occultano questo processo vendendo invece un Noi fittizio che non mette in discussione la pulsione individuante dei soggetti. Il “prima gli Italiani” e “noi siamo il popolo” dei partiti che hanno vinto le ultime politiche si basano su una finzione radicale: figuriamoci se i calabresi credono a Salvini che dà loro degli Italiani; e figuriamoci se l’elettore medio del M5S, che notoriamente non ha mai fatto parte di associazioni, gruppi sul territorio, partiti e altri corpi intermedi ma si è sempre vantato del suo isolamento individuante, si sente “popolo” come potevano sentirsi “popolo” gli operai di una fabbrica o i braccianti del sindacato contadino. Non se ne parla, ovviamente. Votano anzi queste signore e questi signori per Salvini e Di Maio perché comprano da loro l’illusione di una comunità inesistente, moralmente rassicurante ed eticamente a impegno zero.
Ci sono, secondo la visione che propongo io, tre tipi di comunità possibili, cioè di noi emotivamente solidi: ci sono le comunità “naturali”, quelle “immaginate” e quelle “intenzionali”. Le prime non sono ovviamente naturali, mi riferisco al fatto che sono sentite come tali, o erano sentite tali fin quando sono esistite: la famiglia, il gruppo degli amici del bar o della scuola, in alcuni contesti provinciali (o periferici, penso al comitato di Casale Rocchi a Pietralata) anche il vicinato può essere concepito come una comunità naturale in questo senso.
Le comunità naturali, ci ha insegnato Benedict Anderson, possono costituire la base ideologica per fondare comunità immaginate, vale a dire le nazioni ottocentesche, il movimento operaio, il socialismo e il femminismo come pratiche politiche e tutti i cosiddetti “partiti di massa”, che istituiscono un cameratismo orizzontale e un senso di “destino” anche tra soggetti che non avranno mai la possibilità di conoscersi o interagire secondo i canoni comunitari della reciprocità generalizzata e della collaborazione.
Ci sono poi le comunità intenzionali, che sono invece di ridotte dimensioni come le naturali ma istituite da un atto volitivo e programmatico, come le immaginate: monasteri, comuni, ecovillaggi, kkibbutzim e altri modelli basati sulla condivisione di un sistema di valori (siamo tutti pacifisti, siamo tutti fedeli della Madonna del Carmine, siamo tutti convinti che questo pezzo di terra ci sia stato assegnato per destino) che diventa anche un sistema di pratiche orientato a uno scopo collettivo.
Ecco, per provare infine a rispondere alla tua domanda, Marco, io credo che oggi la lotta politica si configuri tra la vecchia guardia, con la sua ideologia ancora vincente di fingere una comunità immaginata e innocua, che non intacca l’individualismo imperante ma rassicura che, da qualche parte, anche noi apparteniamo a un qualche genericissimo Noi uniforme e compatto; e un nuovo modo di proporre la politica come comunità intenzionale immaginata. Quando io ho messo il verbo al plurale pensavo (inconsapevolmente, e ti ringrazio che la tua sollecitazione mi ha spinto a questo chiarimento prima di tutto con me stesso) a questo modo di stare assieme, a questo tipo di Noi.
Io penso che gli individui che credono che valga la pena di fare qualcosa per il bene comune siano ancora molti, e mi considero uno di loro (cioè uno di questo Noi). Non credo si sia maggioranza, ma non penso neppure si tratti di piccoli numeri, e poi, nella logica dentro cui mi muovo, la dimensione oggettiva quantificata nelle tessere di partito e nelle urne elettorali ci interessa poco. Pensiamo che il mondo sia in pericolo per la situazione ambientale, per il sistema di sfruttamento dei pochi sui molti, per l’ampliarsi delle ingiustizie e per il crescere diffuso del risentimento come impulso all’azione. Abbiamo figli che crescono, o comunque ci piace pensare che “l’allocazione intergenerazionale delle risorse” sia una preoccupazione prioritaria delle nostre vite. Sappiamo altresì che andare oltre questo vaghissimo orizzonte (credo che Raymond Williams la chiami “comunità di sentimento”) puntando a qualche vetusta o neo-fasulla comunità immaginata è azione inane e ce ne asteniamo volentieri. Non cediamo però neppure alla depressione individualista del Mercato, non accettiamo la sconfitta con il cipiglio di chi prende il mondo a dispetto, e ancora ci illudiamo (ebbene sì, siamo anche consapevoli che qualunque idea di comunità implica un’illusione, o una fede nell’altro) che ci si possa muovere assieme verso qualche meta semplice e praticabile: lo ius culturae, se non si può avere lo ius soli; un reddito di inclusione che guardi a tutti i dispossessed, non solo a quelli che possono pensare di cercarsi un lavoro; un ripensamento radicale della casa come diritto e non come merce; una fuoriuscita dell’educazione e della salute dagli spazi del mercato; un ripensamento cosciente dei rapporti di genere; il rifiuto della prevaricazione violenta dell’altro, anche quando è un avversario; la consapevolezza, soprattutto, che in corso d’opera gli obiettivi possono aggiungersi e mutare, dentro quell’orizzonte morale della comunità intenzionale immaginata, che è intenzionale perché pone alla sua base un impegno razionale, ed è immaginata perché sa di dover fare i conti, in primis, con la sua diversificazione interna contestando radicalmente i progetti omogeneizzanti del vecchio conio identitario.
Lo so, questo è un progetto che non trasforma alla radice il sistema, che non prospetta alcuna rivoluzione plateale. Ma questo, credo, è l’ultimo tratto in comune dei Noi di cui ti ho parlato: non crediamo alla Rivoluzione, abbiamo veramente smesso di crederci, e puntiamo sulla più faticosa via dell’Evoluzione.
Un abbraccio, sapendo che questo Noi di cui ho parlato nella mia immaginazione ti include,
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