Non sono un cultore dei master universitari, che molto spesso sono basati su un imbroglio (più o meno esplicito a seconda delle dimensioni della retta da pagare), vale a dire: io ti VENDO delle COMPETENZE, tu ACQUISTI qualche CHANCE in più per entrare nel mondo del lavoro. Il che equivale a dire due cose, parimenti brutte:
1. che il lavoro è una merce rara;
2. che il lavoro è una merce, e visto che è rara, allora non te lo vendo neppure, ma ti vendo la speranza che tu possa essere un pochino più avvantaggiato nella corsa.
In questo modo, il sistema del Mercato (comprare e vendere stabilendo produzione e prezzo unicamente a seconda della domanda e dell'offerta) entra prepotentemente nel sistema del Sapere. Grazie tante, diranno i miei piccoli lettori, e te ne sei accorto ora? No, certo, diciamo che ogni "riforma" dell'istruzione in questo ultimo trentennio ha puntato a intrecciare i due grandi spazi della vita associata, il Sistema Produttivo e Distributivo delle Merci, e il Sistema Produttivo e Distributivo del Sapere, fino alla scemenza della "alternanza scuola-lavoro", ma il punto è un po' più sottile.
Si sta dicendo sempre meno velatamente che il Sapere dovrebbe essere funzionale al Sistema delle Merci (loro lo dicono in modo un po' più criptico, e parlano a ruota libera della professionalizzazione) al punto da diventarne una funzione. Vale a dire, sempre più sta diventando senso comune che una cosa vale la pena di saperla solo se, in un linguaggio ferocemente economicista, "ti serve", vale a dire fa tornare i conti (costi/benefici), cioè può essere capitalizzata, reinvestita, utilizzata, applicata (tutto lessico economico, come notate).
Basta prendere consapevolezza di questo giudizio largamente implicito per riconoscere la sua natura aberrante. Per fortuna e vivaddio, la grandissima parte delle cose che sappiamo non ci servono assolutamente a nulla, tanto meno nel campo del lavoro (Non ci servono perché sono COSE CHE SIAMO, sono parte di noi, sono una cosa ben diversa da strumenti di lavoro). Diciamo dunque che è una iattura che l'università abbia accettato con tanta faciloneria di farsi portavoce e fautrice di questo mutamento culturale che svilisce il Sapere tutto a discapito dell'Utile. E' dunque particolarmente piacevole quando ci si imbatte in Master che invece hanno mantenuto chiaro questo contratto di base della docenza: Io ti INSEGNO a CAPIRE, poi, quel che ci farai con quel SAPERE è AFFAR TUO. Se però io ti insegno a capire in profondità i meccanismi di funzionamento del mondo (non ti insegno a FARE MECCANICAMENTE, cioè, ma a DECIDERE COSA FARE) allora sarà inevitabile che tu sarai in grado di fare buon uso di quel Sapere, quando e dove vorrai decidere di applicarlo criticamente.
Per questo mi fa molto piacere invitare i laureati e le laureate attenti alle scienze sociali a valutare il Master in Environmental Humanities dell'Università di RomaTre. Conosco alcuni dei docenti e ho visto il programma, che garantisce proprio pochissimi "sbocchi professionali" certi (e quindi non imbroglia) mentre fornisce un sacco, ma proprio un sacco, di strumenti di intelligenza analitica, di comprensione dello spazio, di analisi del sistema in cui siamo immersi.
Invece di imparare, con questo Master capirete un sacco di cose, diventerete quindi cittadini più ricchi e articolati, e una volta che avrete deciso che lavoro fare da grandi lo farete sicuramente meglio.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
venerdì 29 dicembre 2017
Capire, non solo imparare
giovedì 28 dicembre 2017
Dimmi, a chi interessa lo ius soli? (Un altro modo di definire il M5S)
Questo
mi ha chiesto un’amica su Fb ieri, ed è stata per me un’illuminazione. In un intenso
scambio di commenti aveva posto una questione importante: sarà mica che su questo ius soli ci stiamo un po' incartando con le nostre questioni, da “intellettuali”, mentre a
loro la cosa interessa poco o nulla?
Invece a me pare che tra le popolazioni non di nazionalità italiana ci sia
poco interesse, forse anche poco necessità della cittadinanza. Di fatto, in un
lavoro di interfaccia mio diretto con tanti abitanti e vicini di casa, quello
che conosco di loro è il desiderio di tornarsene a casa loro dove stanno
costruendo case.
Io
parlo con le mamme Delle amiche di mio figlio, albanesi per lo più, e nessuna dà
la minima importanza allo ius soli. I loro figli studiano, i loro mariti
lavorano.
Quelli
più conservatori non legano con gli altri genitori e credo, ma ripeto forse
sbaglio, che a loro questa realtà non interessi affatto.
È un punto di vista importante, perché illumina ancor più la
strategia politica del MoVimento.
Partiamo dall’assicurazione auto. Se
avete un mezzo a motore, lo potete far circolare solo a patto che abbiate
stipulato una assicurazione obbligatoria,
la cosiddetta “responsabilità civile”.
Ora, ditemi, a chi interessa la
responsabilità civile? Quante persone tra i vostri conoscenti pensano che sia
sicuramente importante avere l’assicurazione, che è un bene sociale condiviso di cui ciascuno si accolla la propria parte e che è del tutto
logico che ci sia una legge che ne
regola il funzionamento?
Oppure, prendiamo l’istruzione obbligatoria fino ai 16 anni. Pensate a vostri figli quindicenni, ai figli dei vostri amici più o meno della loro età. Ora, ditemi, a chi, tra quei ragazzi, interessa il diritto di istruzione? Chi è che si è battuto nelle piazze per avere una scuola libera e gratuita? Quanti dei loro genitori (voi compresi) ringraziano lo Stato versandogli l’8 per mille come segno di gratitudine per l’esercizio di questo diritto?
Infine, prendiamo il diritto di voto. In Italia (e nel cosiddetto mondo avanzato) è in calo sistematico da qualche decennio. Prendete i vostri vicini, i vostri parenti, voi stessi. Ditemi, a chi interessa veramente il diritto di voto? Quanti se ne sbattono bellamente e non votano da anni? Quanti si sono battuti in piazza e portano fiori sulle tombe dei padri costituenti in segno di ringraziamento per poter esercitare questo diritto?
Riprendete ora la domanda della mia amica: “a quanti INTERESSA lo ius soli?”. È una domanda rivelatrice perché incorpora in un tema politico una motivazione di ordine economico, un calcolo, un tornaconto individuale, come se uno stato per funzionare bene dovesse limitarsi a OFFRIRE solo quei servizi per i quali c’è una DOMANDA sufficientemente amplia. Ora, che beni e servizi circolino secondo la legge della domanda e dell’offerta (se la domanda sale, l’offerta cresce fino al soddisfacimento, con il prezzo stabilito dal punto di equilibrio tra i due contraenti in un sistema di concorrenza) è una concezione del tutto economicista della vita politica, che non è detto corrisponda alle reali intenzioni morali di quel che la mia amica intendeva dire.
Eppure, l’ha detto.
Da qualche parte, in qualche modo, ha assimilato una “regola sociale” che dice, più o meno, che ogni cittadino è completamente solo e che può esercitare i suoi diritti come servizi forniti nel momento in cui ne fa richiesta. Questa concezione mercantilista e individualista dei diritti civili è possibile solo perché siamo sempre più immersi in quella che Karl Polanyi ha definito una “società di mercato”, vale a dire una società in cui sempre più spazi della vita associata sono regolati come se fossero spazi di mercato, vale a dire in cui lo spostamento di beni e servizi avviene, appunto, secondo la legge della domanda e della offerta. È lo stesso principio, se ci pensate, che porta alle manifestazioni per la “libertà vaccinale”. I fautori di questa libertà si sentono completamente da soli nel loro ruolo genitoriale, sono proprietari assoluti dei loro figli, non considerano l’educazione e la crescita della prole come un compito in alcun modo socializzabile, e quindi si sentono legittimati a reclamare un opt out dalle vaccinazioni non tanto perché sarebbero “pericolose” ma soprattutto perché violerebbero la loro insindacabile concezione securitaria della genitorialità: ai miei figli ci penso io, solo io so quel che è bene e male per loro, solo io, da solo/sola sono in grado di prendermi veramente cura di loro, quando e se vorrò un servizio entrerò nel mercato dei servizi e solleverò la domanda su quel particolare servizio (col che si spiega l’interessante correlazione USA tra novax e genitori che optano per l’istruzione domestica).
Questo modello di relazione esclude proprio il Soggetto Responsabile di stabilire gli obblighi come l’assicurazione, l’istruzione, il voto e la vaccinazione. Chi è questo soggetto? NON si può osservare fisicamente come invece si può osservare un genitore preoccupato, un cittadino indignato o un novax che protesta, dato che è una costruzione culturale, che chiamiamo SOCIETÀ. La società è un’entità prodotta dalle interazioni umane orientate al benessere di sé stessa, un ente reale ma non osservabile secondo le banali strategia dell’empirismo. È la Società che impone l’obbligo di assicurarsi, di votare, di istruire i figli e di vaccinarsi. Se ne sbatte della domanda e dell’offerta; la società, purtroppo o per fortuna, non pensa al tornaconto individuale ma pensa solo a sé stessa. E Lei come ente funziona molto meglio se le auto sono assicurate, se i bambini sono istruiti e vaccinati e se i cittadini vanno a votare. Non si chiede mai, la Società, “a chi interessa” se quel “chi” riguarda individui singoli, perché la Società gli individui singoli proprio non li vede, non li calcola proprio (di nuovo, decidete voi se purtroppo o per fortuna. Io, per parte mia dico che questo sguardo presbite della Società va tenuto debitamente sotto controllo, ma è necessario se non vogliamo ridiventare quel mondo hobbesiano da cui pensiamo di esserci liberati quando ci siamo messi assieme con altri esseri umani).
Questa concezione “sociale” della Società, per cui alcune cose sono state convenute di fatto contro il tornaconto immediato dei singoli, o almeno di alcuni di loro (che non vorrebbero pagare l’assicurazione, che temono che le maestre travino i loro piccoli, che sono preoccupati che i vaccini facciano male ai “loro” figli privati), la Società insomma produce un tipo di solidarietà che chiamiamo “organica”, perché dipende dalla posizione sociale relativa (io sono solidale con l’autista del tram perché lui mi porta al lavoro, e io gli pago lo stipendio con il mio biglietto, più o meno) e non “meccanica” (per cui invece sono per forza di cose solidale con tizio, perché è mio cugino e con caio perché è mio figlio). La solidarietà meccanica tipicamente si associa alle Comunità di piccola e piccolissima scala, non alle Società.
La crisi morale della nostra società è tale che il neoliberismo (che non è la cazzata disprezzata dal Foglio, è semplicemente il tentativo di applicare su campi sempre più estesi [salute, istruzione, affetti, abitazione] la ferrea legge della domanda e dell’offerta) è entrato a man bassa nella concezione della Politica. Il MoVimento ha completamente perduto il senso della solidarietà organica, della Società cioè, del fatto che come cittadino non ho solo diritti da rivendicare nel mercato dei servizi, ma anche doveri di interdipendenza. Se non voto lo ius soli, la motivazione NON può essere che “tanto a loro non interessa” esattamente come non posso giustificare il fatto che il mio vicino non è assicurato perché “tanto a lui non interessa”. Se lui non si assicura poi ne paghiamo le conseguenze TUTTI. Così, se “loro” non hanno la cittadinanza le conseguenze di questa esclusione sono a discapito di tutti, vale a dire della Società, che si impoverisce, si incanaglisce, si sfregola in gruppuscoli sempre più friabili di “noi” e “loro”.
Per gli adepti 5S questo discorso, semplicemente, è incomprensibile, perché, quando fanno i 5S, ragionano solo in termini di solidarietà meccanica e di Comunità. Loro esistono come corpo compatto (fateci caso a come il dissenso non ha spazio nei 5S, e viene sempre medicalizzato come un virus) un ingranaggio in cui ogni singolo pezzo si sente autorizzato (come tutti gli altri della loro comunità) ad agire spinto solo dalla molla individualista, e questo crea un senso di appartenenza pre-sociale molto forte. Naturalmente è tutta una finzione, non c’è nulla che unisca due appartenenti al M5S: non si rispettano a vicenda perché uno guida l’autobus e l’altro paga il biglietto. No, perché il link non può essere sociale, deve essere tutto pre-sociale: noi siamo Diversi, noi siamo Unicamente Diversi. Prendete un bel commento anonimo sul post di ieri:
Vereni la puoi pensare
malamente come ti esprimi verso il M5Stelle, i fatti sono che mentre i partiti
che ammiri muoiono noi cresciamo. Siamo il segno dei tempi che i tuoi partiti
non hanno previsto perche adagiati e impegnati a fare i bagordi con i soldi del
sociale. Neanche i tuoi studi e la tua esperienza ti possono far capire quanto
siamo indignati.
Sentite la voce
collettiva della tribù? “Noi
cresciamo”, “siamo il segno dei tempi” (ricorda la Lombardi che diceva al povero Bersani
durante le consultazioni del 2013: “noi siamo il popolo”). E poi questo
arrogarsi il monopolio dell’indignazione,
un sentimento piccino come pochi altri, dato che costa pochissimo (in impegno
sociale) e se ne ricava tantissimo (in autostima), ma comunque un sentimento
che de-finisce: noi siamo quelli indignati. Mica quelli che fanno questo o quello, che guidano
l’autobus o pagano il biglietto. No, noi siamo quelli che hanno un sentimento in mezzo alla pancia e
questo ci fa sentire uniti, anche se ognuno pensa solo ed esclusivamente ai
fatti suoi, ai figli suoi, ai vaccini suoi, a diritti suoi.
Quando hanno preso sottogamba la questione dello ius soli i 5S hanno confermato questo modo anti-sociale di pensarsi e di pensare la vita associata, hanno smascherato la loro concezione individualista e mercantile dei diritti e doveri, merci acquistabili sul mercato dei servizi e non prodotti sociali frutto della lotta politica.
Quando dico che i 5S sono ignoranti e fascisti questo sto dicendo. Che non si rendono minimamente conto di quel che cosa sono e di dove stanno andando. Non mi importano gli insulti gratuiti, ho altro da fare che definire me stesso sprezzando gli altri, per fortuna faccio un lavoro bellissimo e non ho grandi frustrazioni da sfogare lì fuori. Come cittadino e come intellettuale ho il DOVERE MORALE di fare due cose.
UNO: battermi per
i diritti e i doveri di chi non ha le
risorse per battersi per conto suo.
Non è giusto limitare il diritto alla piena cittadinanza solo a coloro che
hanno gli strumenti per entrare nel mercato dei servizi e sanno di dover
competere per ottenerlo, in una specie di darwinismo
sociale dei diritti, per cui otterrai solo quelli che “ti meriti” perché quei
diritti “ti intessano”. Chi ha più potere (di parola, come nel mio caso, di scelta,
come nel caso dei senatori 5S) deve assumersi quel potere come responsabilità sociale, non come privilegio individuale, e pretendere i diritti e i doveri per tutti, non solo per chi ne fa richiesta. Vi immagiate che mondo
sarebbe se andassero a scuola solo i figli dei genitori che ne fanno esplicita
richiesta?
DUE: dire le cose
come stanno, tanto più se non penso
ai 5S come “altri”, membri di un’altra tribù
contrapposta alla mia, ma li so come
amici, parenti, conoscenti,
persone del tutto normali che gran
parte del loro tempo fanno una vita normale.
Membri della stessa società cui
appartengo anche io, solo che loro se lo
sono dimenticato, che apparteniamo alla stessa società e questo implica doveri collettivi (tra cui assicurarsi, votare lo ius soli per includere tutti gli italiani con pieni diritti civili, istruire e vaccinare i figli che non son proprietà privata ma un bene sociale).
Se lo sono dimenticato ed è mio dovere (e veramente, lasciatemelo dire,
il mio fardello di intellettuale, ne
farei volentieri a meno, se non avessi un senso del vivere associato) ricordarglielo, tutte le volte che serve, per tutte
le volte che sarà necessario.
martedì 26 dicembre 2017
Lo spazio dentro
26 12 2017. Ieri pomeriggio è iniziata la messa in onda di "Lo spazio dentro", l'audiodocumentario di Marzia Coronati messo in onda da Radio3 nello spazio di Tre soldi, alle 19.45. Ora potete ascoltare le puntate quando vi pare con la nuova app Ray Play Radio. Sono cinque puntate in cui l'autrice, con la collaborazione di detenuti e persone che lavorano nel carcere, cerca di fare il punto su cosa sia la vita dentro il carcere, illuminata nella prospettiva della spiritualità.
Ormai me ne sono reso conto da tempo, il carcere (come i campi rom) è la cartina di tornasole di una società. Il posto dove viene relegato l'Altro Assoluto diventa uno spazio tabuizzato della propria identità "normale". Nella rappresentazione del carcere si consolida l'immagine di quel che sono, in negativo, i "normali", e infatti sono veramente poche le occasioni di conoscere veramente quel che succede nella vita ordinaria del carcere. Certo, ci sono un sacco di attività "pubbliche", pare che in carcere non si faccia altro che dipingere e fare teatro... ma cosa voglia dire "farsi il carcere" ordinario, dove siano gli spazi della vita quotidiana, è un tema ben più oscuro, fatto di persone che appena le conosci ti rendi conto della cosa più sconvolgente, e cioè che sono in grandissima parte persone "normali" o "come noi normali". E' un argomento difficilissimo da trattare, perché ci repelle per definizione, visto che il carcere serve proprio, nella sua strutturazione simbolica, a produrre un'Alterità che delimita da fuori la nostra Identità Standard, e quindi il confronto deve sempre essere straniante perché l'accasamento nel carcere è la contraddizione della sua funzione fondante del normale sociale (lo so che questa l'ho detta difficile, ma mi sono anche rotto di pensare che ogni volta si debba essere "semplici". Ci sono cose difficili, che richiedono uno sforzo intellettuale per essere colte. Se non vi va, non fate lo sforzo, ma non venitemi a rompere che parlo difficile. Io parlo, semmai, di cose difficili da capire, perché costruite dentro una logica simbolica che sfugge all'analisi superficiale). Ma Marzia ci prova, e se avete un po' di fegato potete rendervene conto per contro vostro.
Ormai me ne sono reso conto da tempo, il carcere (come i campi rom) è la cartina di tornasole di una società. Il posto dove viene relegato l'Altro Assoluto diventa uno spazio tabuizzato della propria identità "normale". Nella rappresentazione del carcere si consolida l'immagine di quel che sono, in negativo, i "normali", e infatti sono veramente poche le occasioni di conoscere veramente quel che succede nella vita ordinaria del carcere. Certo, ci sono un sacco di attività "pubbliche", pare che in carcere non si faccia altro che dipingere e fare teatro... ma cosa voglia dire "farsi il carcere" ordinario, dove siano gli spazi della vita quotidiana, è un tema ben più oscuro, fatto di persone che appena le conosci ti rendi conto della cosa più sconvolgente, e cioè che sono in grandissima parte persone "normali" o "come noi normali". E' un argomento difficilissimo da trattare, perché ci repelle per definizione, visto che il carcere serve proprio, nella sua strutturazione simbolica, a produrre un'Alterità che delimita da fuori la nostra Identità Standard, e quindi il confronto deve sempre essere straniante perché l'accasamento nel carcere è la contraddizione della sua funzione fondante del normale sociale (lo so che questa l'ho detta difficile, ma mi sono anche rotto di pensare che ogni volta si debba essere "semplici". Ci sono cose difficili, che richiedono uno sforzo intellettuale per essere colte. Se non vi va, non fate lo sforzo, ma non venitemi a rompere che parlo difficile. Io parlo, semmai, di cose difficili da capire, perché costruite dentro una logica simbolica che sfugge all'analisi superficiale). Ma Marzia ci prova, e se avete un po' di fegato potete rendervene conto per contro vostro.
lunedì 25 dicembre 2017
Cinquestelle e fascismo (seconda prova)
È la mattina di Natale, abbiamo tutte e tutti di meglio da
fare, ma visto come è andato il post
di ieri vorrei provare a chiarire alcuni punti. Mi hanno scritto (anche in
privato) amici che non sentivo da
quarant’anni, e questo per me è significativo. Soprattutto se molti mi hanno rimproverato il tono, o almeno hanno
riconosciuto un tono sopra le righe.
Scrivere (e ancor peggio parlare) sotto impulso dello sdegno è pericolosissimo perché si
rischia di lasciare segni anche lì dove non si sarebbe voluto. Ma da dove è
venuto questo sdegno? Dal fatto che i 5S in Senato hanno fatto intenzionalmente mancare il numero
legale, dimostrando così di non essere (più?) quel che dichiarano, cioè duri e puri, onesti oltre ogni calcolo,
ma di essere diventati un partito qualunque,
disposti a muoversi nella direzione più conveniente,
non in quella più giusta. È un po’
come vedere don Chisciotte (o Jeeg Robot) che raccoglie i soldi della
pizza con gli amici e poi fa la cresta
sulla mancia, intascandone una parte: una cosa che proprio non ti aspetti da
uno come lui.
Sono di sinistra,
credo cioè che la lotta politica debba essere orientata prima di tutto ad
aumentare la giustizia sociale:
tutti dovrebbero avere le stesse opportunità, indipendentemente dai vantaggi o
dalle limitazioni della loro condizione di partenza. Per questo credo nella
scuola pubblica, nella sanità pubblica, nella limitazione politica della legge
di mercato, nella giustizia come impegno a punire prima di tutto chi ostacola
questo percorso di ricostituzione dell’eguaglianza. Non ho mai trovato i 5S
particolarmente attraenti quanto a proposte
politiche in questo senso, ma ho riconosciuto fin da subito il senso di giustizia sociale che lo
animava. A mio parere espresso in modo del tutto errato, con un’esasperazione del giustizialismo (“chiudeteli in prigione e buttate la chiave”, “destra
e sinistra tutti uguali”) che a me, che lavoro nel carcere di Rebibbia con regolarità da due anni e
mezzo, fa letteralmente orrore. Ma per lungo tempo ho sentito i 5S come “compagni che sbagliano”, in parte anche
giustamente esasperati da una dirigenza PD non sempre ottimale (ironia, eh!). Particolarmente indisponente per me nei 5S
è stato il metodo mafiosetto di delegittimazione
dell’interlocutore, che più di tutto ho visto applicato nei confronti di un puro vero come Pippo Civati, che non appena
ha provato ad articolare coi 5S un discorso come quello che sto facendo io
(cioè che il M5S pone in modo sbagliato una serie di problematiche verissime) è
stato sbeffeggiato, accusato di fare
il “cane
da riporto” e altre meschinità veramente vergognose se rivolte a un
politico sulla cui onesta e disponibilità a pagare di persona proprio non si
può discutere.
Insomma, ho sempre visto nel 5S un movimento radicalmente sbagliato ma il sintomo di una questione seria,
la questione della giustizia sociale nel nostro paese.
È questo che mi ha fatto andare fuori di matto, l’altro
ieri. Perché un partito che pretende di essere radicato in un senso assoluto di
giustizia, che dice a destra e sinistra che non fa tatticismi e calcoli
perché questo sarebbe violare il suo mandato, fa una porcata come quella di far saltare lo ius soli? Qualcuno ha sentito un’argomentazione ragionevole in
questo senso? Come questa primavera
con la questione delle ONG “taxi del Mediterraneo”
(gestita in modo neppure meschino, direttamente miserevole dall’imbarazzante Di Maio) e poi di nuovo a novembre, quando i parlamentari europei
del M5S hanno votato NO
alla riforma dell’assurdo regolamento di
Dublino sui rifugiati, per la terza
volta come antropologo (cioè come esperto dell’identità e della diversità)
mi sono trovato a gestire un messaggio profondamente fascista da parte della classe dirigente 5S. Un messaggio che dice:
pensiamo agli “italiani veri”, agli
italiani di razza italiana (non c’è
altro modo di spiegare il rifiuto dello ius soli se non dentro una logica razziale delle appartenenze) e
difendiamoli dagli Stranieri, dall’Alterità che è troppa e troppo
impegnativa da gestire civilmente.
Questo NON è quello che mi aspetto da un movimento che
continua dire di essere l’unico paladino
della Giustizia, è invece un discorso identitario
retaggio della destra estrema.
La mia provocazione
di ieri era rivolta soprattutto a quanti sono arrivati al 5S proprio sulla scia
di una storia di sinistra delusa, ma
portandosi dentro (e portando nel movimento) questo profondo e insoddisfatto senso di Giustizia
sociale. Guardate, amici, che siete entrati nel 5S vedendolo andare in una
certa direzione, vi vorrei avvisare
che ci deve essere stato qualche intoppo perché il percorso è proprio cambiato. Io dico che si poteva capire
dall’inizio, questa deriva fascista, ma poniamo pure il caso che non sia così,
che in principio le motivazioni ideali
fossero tali da attirare quanti hanno “fame e sete di giustizia”. Bene, amici e
amiche di quella storia, io ieri ho urlato
perché volevo fosse chiaro che, oggi, accettando
di stare dalla parte del 5S non si sta più dalla parte dei puri e duri, dalla parte di coloro che perseguono la loro battaglia
per la giustizia. Si sta dalla parte
di un partito nazionalista che
strizza l’occhio alla destra più becera,
al salvinismo e al fascismo dichiarato. Se continuate a dire che “tanto sono
tutti uguali” e che solo il Movimento ci salverà state mentendo a voi stessi, perché un movimento che per meschine ragioni
di convenienza rifiuta di essere
parte attiva nella sacrosanta
battaglia per lo ius soli è un movimento che ha perso l’anima, è diventato una cricca di affaristi politici che capitalizza la propria strategia lì
dove crede di prendere più voti. Questo, fascista o non fascista, mi fa più schifo di tutto.
domenica 24 dicembre 2017
Fascisti inconsapevoli (ma non per questo meno fascisti, anzi)
L’ultima trovata dei M5S,
far mancare il numero legale al Senato per discutere lo ius soli, segna un punto di non ritorno nella politica del
movimento. Fingere di essere post-, di non avere una linea di destra o di sinistra ma di pensare invece alla sostanza concreta dei problemi è uno schermo ideologico meschino, che si traduce
inevitabilmente in politiche di destra.
Non ci vuole molto a capire, vediamo se ci arrivano anche loro. Io faccio il
professore, è mia responsabilità e mio compito provare a insegnare, per quanto dure siano le cervici dove cerco di
trapiantare un pochino di conoscenza.
Sinistra e Destra, come prospettive politiche
generali, si contrappongono per il diverso peso dato alla Giustizia Sociale, da un lato, e alle Libertà Individuali dall’altro. La Sinistra predilige la Giustizia
Sociale, la Destra le Libertà Individuali. Le versioni moderate (centro-sinistra, centro-destra) prediligono il loro
versante cercando di salvaguardare l’altro
principio, mentre le versioni estreme
prediligono il loro a discapito, o contro l’altro principio. Il fascismo è
quella forma ignorante di privilegio
della giustizia sociale (quindi originariamente “di sinistra”) che non si
accorge del modo in cui delimita la “società” su cui si applicherebbe la
Giustizia e finisce per applicare la Giustizia Sociale al “proprio popolo” contro
la libertà degli Altri (popoli). In
pratica, il fascismo vuole l’Eguaglianza, ma applicata non sulla
contrapposizione orizzontale di “classe”
(che i più poveri diventino più uguali ai più ricchi; che i più deboli abbiano
giustizia e che questo li avvicini ai più potenti); bensì sulla
contrapposizione verticale di “popolo”:
il “mio popolo” deve essere privilegiato rispetto agli altri “popoli”. Il
fascismo ha risolto questa cosa con il Nazionalismo,
inventandosi un popolo italico (e
poi una razza italica, sappiamo come
è andata). Il M5S invece ha inventato un “popolo” contrapponendolo alla “casta” ma ha dovuto applicare comunque
quel che le scienze sociali chiamano “nazionalismo
metodologico”, delimitando cioè il popolo come “gli italiani perbene”. È quindi fisiologico di un movimento
caratterizzato dalla mostruosa incompetenza
di tutti i suoi quadri che la contrapposizione identitaria si fatta su linee culturali (italiani contro stranieri) e
non sociali (poveri contro ricchi).
Lo dico sempre al mio amico Francesco
Tieri, musulmano italiano con pulsioni pentastellate, che non ce la farà
mai a farsi cagare men che di striscio dal M5S, perché i pentastellati non
riescono a pensarsi (dal profondo della loro ignoranza dei sistemi di aggregazione sociale) se non come “italiani normali, ergo stereotipici”, e
mi sa che nello stereotipo di questa “italianità popolare” (una volta di
chiamava qualunquismo) la religione musulmana proprio non c’è.
Insomma, il M5S (esattamente come il fascismo storico e come molte varianti
dell’Anarchia) deve fare i conti con la sua incapacità di delimitare il
campo di applicazione del “sociale” che accompagnerebbe la “giustizia”, e finisce
per tradurre il tutto in “libertà della nazione individualmente definita”, cioè contrapposta ad Altre Nazioni.
Morale: l’ignoranza radicale dei dirigenti del movimento
(che non sanno di applicare logiche politiche fasciste per pura mancanza di
studio e riflessività) deve trovare una sua legittimazione nel rispecchiamento con la base: visto che
noi, capi del movimento, non sappiamo nulla
di quel di cui parliamo, voi, massa del movimento, siete autorizzati per sentirvi parte del movimento a parlare di qualunque
cosa senza alcuna competenza. Più lo
farete, e più sarete accettati come parte
attiva del movimento.
Esempi perfetti di questo atteggiamento per cui “le mie
opinioni” sono comunque degne di attenzione e considerazione sono alcuni
ascoltatori di Radio3, (l’unica
radio di servizio pubblico in Italia) che
si prendono la briga di chiamare Prima pagina per
commentare, discettare, concionare. Senza avere la minima competenza per farlo.
Stamattina c’era un distinto signore,
che parlava un italiano del tutto dignitoso, e che si era preso la briga di
fare il numero e mettersi in fila, per dire che, secondo lui, lo ius solis (sic
[sic non vuol dire “mi dispiace”,
cialtroni, vuol dire che ha detto “proprio così”, è latino, non è preso da
Topolino], ebbene sì, ha detto almeno quattro volte ius solis, e già questo sarebbe
dovuto bastare per togliergli la parola, una buona volta) non era una questione
rilevante (il benaltrismo è un
tipico argomento fascistoide) perché quel che conta sono gli strumenti di integrazione. Gli stranieri, dunque,
secondo questo profondo pensatore di inizio del Terzo Millennio, devono essere
riforniti di strumenti di integrazione sociale, come lavoro, istruzione, sanità
eccetera. E citava i casi francese e
britannico, per cui ci sono terze e
quarte generazioni con la cittadinanza ma ridotte ai margini sociali e spinte
anzi verso l’integralismo e il
terrorismo da questa mancanza di integrazione.
Ora, io non so dove l’azzimato signore ha preso questa
teoria, ma è evidente che, oltre a non sapere nulla di storia dell’immigrazione (per cui comparare i casi francese, britannico e italiano pensando che quel
che vale per uno valga anche per gli altri, soggetti a condizioni storiche
completamente diverse, è un’assurdità conoscitiva)
non sa nulla neppure di logica essenziale,
e non capisce che certe condizioni di
esistenza possono essere necessarie
per altre condizioni senza essere sufficienti.
La cittadinanza non è una condizione
sufficiente per l’integrazione sociale, ci vuole ben poco a dimostrarlo, e non
servono le banlieu di Parigi, basta
una qualunque baraccopoli (detta borgatina)
di immigrati calabresi nella Roma degli anni Sessanta, o basterebbe guardare
dentro i campi rom del bel paese,
dove cittadini italiani (da 400
anni, come i rom abruzzesi), romeni
e apolidi ex yugoslavi (vale a dire
in condizioni di cittadinanza completamente diverse) subiscono le stesse
identiche discriminazioni.
La cittadinanza,
dunque, non è sufficiente per l’integrazione.
E grazie al cavolo. Chi ha mai detto l’opposto non si sa. Ma la cittadinanza è una condizione necessaria pe l’integrazione,
vale a dire che se ce l’hai non è
detto che ti integri (vedi i
terroristi delle periferie metropolitane inglesi e belghe) ma se non ce l’hai è sicuro che non ti integri. Guardatevi la
composizione dei consigli municipali di una città come Londra, dove in alcuni quartieri i cittadini di (più o meno
lontana) origine straniera ma passaporto
UK costituiscono la larghissima maggioranza dei consiglieri municipali e dei
cittadini attivi nella gestione della cosa pubblica. Avete presente che il
sindaco di Londra Sadiq Khan è di
origini pachistane? Bene, quando avremo un
sindaco di Roma di origini romene allora mi berrò pure io la favola che “l’integrazione
si fa altrimenti”.
Per ora, vi prego, voi che non sapete nulla di nulla di immigrazione, voi che non ha avete idea di quali
siano i principi storici della
cittadinanza, non parlate, state zitti, mettetevi un poco a studiare. Io sono sempre disponibile
per ripetizioni (gratuite), consulenze, discussioni, tavole rotonde, quel che
volete. Ricordatevi che insegno ogni semestre e le lezioni universitarie sono pubbliche e libere (si pagano le tasse
universitarie solo per fare gli esami). Le mie lezioni sono tutte disponibili online da molti anni.
Fatevi intaccare dalla cultura, vedrete
che fa bene e smetterete di dire bestialità pretendendo di ottenere rispetto. Io vi rispetto come persone,
ma le vostre opinioni mi fanno vomitare.
Uno NON vale uno, c’è chi ne sa di
più, e ha più voce in capitolo, e chi ne sa di meno, che deve essere abbastanza
umile da scegliere una delle due strade possibili: accettare l’opinione di chi ne
sa di più; oppure mettersi a
studiare (sul serio, però!) e crearsi un proprio punto di vista.
So bene che tanti amici, conoscenti, studenti e contatti
votano M5S convinti e compatti. E ho
già raccontato di aver votato Raggi
al ballottaggio romano per stroncare le velleità di quella vergogna cittadina
detta “PD commissariato”. Ma è arrivato il momento di dichiararsi, qui non c’è
spazio per il compromesso. Il compromesso si fa tra idee diverse, non tra il dato di fatto reale (ci sono centinaia di italiani di fatto che aspettano di veder riconosciuta questa banalità) e il vuoto penumatico di un’ideologia talmente tronfia da non accorgersi neppure di essere tale, una ideologia
mostruosa perché fondata sull’ignoranza.
Da oggi i tratterò i sostenitori del M5S come ho sempre trattato i fascisti e i leghisti: nemici politici
schiavi della loro ignoranza più che malvagità, verso cui mi sento responsabile
lavorando per una loro conversione alla
conoscenza. Chiamatemi paternalista, chiamatemi professorino, chiamatemi
come vi pare, ma le vostre Opinioni ignoranti saranno sempre più l’oggetto
della critica delle mie Ragioni
competenti.
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sabato 23 dicembre 2017
Ius Macedoniae (antropologia, diritti, cittadinanza)
22 12 2017. Ieri ho finito anche il modulo B di antropologia
culturale (antropologia economica) e oggi ho fatto gli ultimi “esoneri”
dell’anno, dopo aver chiuso Anthropology of globalization a Global Governance e
Urban and Global Rome al Trinity College - Rome Campus.
Quel che, mi rendo conto, sempre più mi interessa è trovare
il modo di veicolare agli studenti degli strumenti di consapevolezza culturale, che mi accorgo sempre più prendono la
forma di strumenti di cittadinanza.
Se non serve a comprendere, organizzare e costruire pezzi della loro vita di cittadini attivi,
l’antropologia non mi interessa, e anzi mi innervosisce alquanto la
fascinazione per l’esotico, per l’antico, per quel che rischia di svanire. E che svanisca, una buona
volta, la tradizione moribonda.
L’antropologia che mi interessa è una disciplina della consapevolezza, uno strumento per capire dove ci ha collocati la
nostra storia (come pezzo della Storia).
Tipo. Stamattina ho finalmente trovato modo di leggere un
poco il manifesto, versione online cui
sono abbonato da un anno, l’unico giornale leggibile in lingua italiana
(diciamo che loro sono più per l’analisi
politica; se volete invece le buone
e sane notizie curate come si faceva
una volta (quelle che tanto dovrebbero piacere proprio agli antropologi,
dunque…) allora leggete Il Post, che si
chiama così perché ha pres il post della carta stampata, quanto ad autorevolezza,
professionalità, verifica delle fonti e coscienza del ruolo civico della propria missione).
Allora, sfogliavo il manifesto e ho subito letto la lettera
di colui che considero il mio Presidente
della Repubblica, vale a dire Luigi
Manconi, che ha scritto un commento in forma di lettera rivolta al
Presidente della Repubblica, quello vero, Mattarella.
Diceva Manconi, con la sobrietà che lo contraddistingue e che gli invidio, che
non è affatto vero che “non c’è tempo per votare la legge sullo ius soli”.
Basterebbe che il Presidente non sciogliesse le Camere, come pare farà, la
settimana prossima, per andare a votare per forza il 4 marzo. Se posticipasse
la chiusura di due settimane ci sarebbe tutto il tempo per votare la legge
sullo ius soli e poi andare alle elezioni il 18 marzo.
Da antropologo, ho imparato che ogni volta che si dice “non
c’è alternativa” si sta imputando alla Natura
o al Destino Ineluttabile quel che
invece è una Strategia Umana per
eccellenza. Il principio TINA (There Is No Alternative) tanto cara alla
Destra quando deve colpire duro, è il trucco più subdolo dell’ideologia, perché nasconde la Scelta sotto la maschera della Necessità. Non c’è alcuna necessità di
votare il 4 marzo, ovviamente, e allora si tratta di capire che tipo di patata bollente la politica parlamentare
non riesce a gestire.
A me, da studioso delle identità,
la questione appare trasparente: il Governo in carica (e in primis il PD che ne
è l’anima numerica e ideologica) non vuole votare lo ius soli perché “la pancia
del paese” sarebbe contraria e non
ci si vuole attribuire una responsabilità
che gli avversari potrebbero far
pesare a ridosso della campagna
elettorale. Ora, che il razzismo salviniano, il cripto-fascismo fratelliota,
il becero qualunquismo pentastellato e il viscido perbenismo centrista degli
Alfano e dei Berlusconi giochino questa partita è del tutto prevedibile, ma che
il PD accetti di smussare e glissare proprio lì dove si gioca la
sua identità, be’, a me pare una porcata
con pochissimi precedenti storici.
Siamo al punto che un grande (?) partito di centro-sinistra
rinuncia a una battaglia politica essenziale per timore di inimicarsi “le
masse”: invece di assumersi la sua responsabilità
di partito di massa, che produce
senso civico insegnando alle masse
cosa dev’essere di massa, il PD cede alla politica del sondaggio, alla vergogna dell’ignoranza
trasformata in opinione, dell’uno
vale uno. Scusate eh, ma uno vale uno un
par di cifoli, e un partito come il PD dovrebbe essere lì per dirlo forte,
tutto il tempo.
Chi è “contro lo ius soli” non è cattivo, o perlomeno non è prevalentemente cattivo. Prima di tutto
è ignorante, profondamente ignorante, vittima delle macerie della sua insipienza. Stabilire se una persona
possa o non possa avere il passaporto italiano non è una questione etica (avere il passaporto di qualunque
nazionalità non è in sé un bene o un male, spero questo sia chiaro per tutti).
Vediamo se riesco a farvelo capire, zucche
dure che non siete altro.
Avere la nazionalità
x è un evento storico, perché la
nazionalità non è una qualità naturale
degli esseri umani (come lo è invece avere i capelli di quel colore o gli occhi di quel colore); avere una nazionalità
riconosciuta civicamente con gli strumenti giuridici del certificato e del passaporto
è un’usanza recente (duecento anni o
giù di lì), da quando esistono gli stati
nazionali moderni basati sul principio della “sovranità popolare”, per cui
tocca contare chi è di quel popolo
(e sovraneggia colà) e chi invece di
questo popolo (e sovraneggia costì).
Bene, ce la fate a vedere che la nazionalità è un prodotto della storia? E allora perché
insistete a scrivere (come mi è capitato di leggere in orrendi commenti del popolo bue) che “tu cara ragazza
romena, sei figlia di romeni e non sarai mai italiana, e io ti voglio pure bene
ma non sarai mai italiana anche se sei nata qui e hai fatto tutte le scuole
qui, perché sei figlia di romeni”? Gli italiani
ignoranti sono contro lo ius soli perché sono ignorantemente conviti che l’italianità sia una qualità biologicamente ereditaria (come le corna delle mucche, che non ci avete pe’ puzza) e non invece
quel che è, un prodotto della storia che circola, muta, si insegna e si impara,
come qualunque altro tratto culturale.
Sono tre mesi che spacco la testa ai miei studenti con la storia di Leonidas.
E chi cavolo era Leonidas? Un poveraccio, un contadino di cultura tradizionale
slava finito con molti suoi compaesani dentro i confini dello stato greco. E lo
stato greco, fin da subito, vale a dire dagli anni Trenta, ha iniziato a
chiedergli il conto identitario: e dimmi che
sei greco, e dimmi quanto sei greco,
e dimmi quanto ami la Grecia, e
dimmi quanto moriresti per la
Grecia! E intanto giù pesci in faccia, multe perché non riusciva a parlarla
bene quella lingua greca. Ma Leonidas si è innamorato
della Grecia, ha amato sul serio la Grecia e però gli hanno massacrato la
famiglia, gli affetti, spezzati nella Guerra
Civile greca, in cui se eri socialista
e venivi da quelle parti della Macedonia greca il minimo che ti poteva capitare
era che ti accusavano di essere bulgaro,
e non importa se ti sentivi greco.
Ecco, io so che i miei studenti non escono da questa porta,
non finiscono l’esame di antropologia culturale se non hanno imparato almeno
questi due punti: 1. l’appartenenza
nazionale è una costruzione culturale,
non c’è alcuna natura, e tutti i discorsi che la spacciano come naturale sono o
in malafede o frutto della più
grossolana ignoranza; 2. Una volta
“creata” l’appartenenza nazionale va mantenuta
viva. Poniamo che l’Italia divenga di colpo un paese perfettamente nazionale,
dove tutti, ma proprio tutte e tutti, sentono di essere null’altro che
italiani. Questo farebbe dell’Italia un paese sicuro dal punto di vista
identitario? Una persona ignorante
che ancora naturalizza potrebbe
pensare di sì, che i giochi finalmente sono fatti, fatta l’Italia, vivaddio si
son fatti gli italiani. Ma si dimenticherebbe di nuovo, quella persona ignorante, che l’appartenenza non passa
per il dna o il sangue, e che quindi non basta avere un branco di italiani puri per
riprodurre i nuovi nati naturalmente
come italiani puri. Appena nascesse in quella nazione perfettamente compatta un
nuovo cittadino, che garanzie
avremmo che sia “naturalmente” italiano? Nessuna, ovviamente, dato che quel
bambino basterebbe farlo crescere altrove
per farlo divenire altro dal punto di vista nazionale. E anche se lo fai
crescere in Italia, lo devi esporre alla cultura italiana, non gli
devi mica far sentire Bossi con le ampolle
che biascica il suo luridume leghista in un italiano stentato; mica gli devi
far sentire le oscenità di certa tv
commerciale, sennò quello ti si sderena e altro che italiano, ti diventa italiota. Meglio se non gli dici che
quel che conta è il livore, la
rabbia espressa senza alcuna competenza, sennò tutta la tradizione culturale
politica di questo stupendo e stupido paese se ne andrebbe in rovina, e tireremmo
su trogloditi, mica italiani.
Appartenere è
essere parte di un processo appreso.
Gli italiani di seconda generazione
sono già italiani, fatevene una
ragione, voi beceri ignoranti che non avete aperto un libro, fatto un
ragionamento con un inizio e una fine, esercitato la libertà di pensare, mentre
vi vantate della libertà di esprimervi. State
zitti, per cortesia, smettete di rilasciare dichiarazioni, conferenze
stampe, post di blog, stati di facebook, e soprattutto smettetela di commentare su tutto quel che non
conoscete e non sapete. Sappiate, per una volta, imparate, per una volta, che appartenere non è una condizione della Natura, ma della Storia, e se la storia
di quei giovani che aspettano lo ius soli è una storia italiana, quei giovani sono
italiani, vi piaccia o no. E molti di loro, posso dirlo con cognizione di
causa, sono più italiani di voi,
buffoni ignoranti e squallidi calcolatori politici. Sono più italiani perché
dell’Italia hanno preso la cultura,
la passione politica, l’amore per la
conoscenza.
Io sono orgoglioso di insegnare questo ai miei studenti
raccontando la vita sderenata di un contadino greco macedone morto dieci anni
fa, di cui non potrebbe interessare di meno al resto del mondo. Perché imparano
così che sono le vite che fanno le politiche, sono le storie che fanno i progetti,
sono le relazioni umane che fanno
quelle strane sostanze che chiamiamo culture.
domenica 17 dicembre 2017
Cose strane
C’è un momento di Alisya nel
paese della meraviglie, il bellissimo documentario di Simone Amendola, in cui Bonzo, il diciottenne
egiziano di seconda generazione
racconta, seduto su una poltrona in un anfratto delle “case rosse” di Cinquina le sue disavventure con la
burocrazia italiana, e a un certo punto, con il suo accento romanesco molto
forte dice, con un sorriso a mezza bocca, qualcosa come “succedono cose strane
in ’sto paese” riferendosi al fatto che il fratello
manco riesce ad avere il permesso di
soggiorno, pur essendo come lui nato a Roma.
Un altro pensiero fisso di questi giorni sono un paio di
versi di una canzone poco conosciuta che Roberto
Vecchioni, migliaia di anni fa, dedicò al fratello Sergio. E lì si dice: “Eh sì di
cose qui ne succedono / ma ci illudiamo di inventarle noi”.
Insomma sono afflitto da una forma lieve di fatalismo antropologico, a volte mi
chiedo se vale la pena tutto questo sbattimento,
le centinaia di studenti, le ore trascorse al freddo in attesa di un
appuntamento saltato, le tesi di laurea, le iniziative al Fienile.
Stiamo andando avanti da quasi un anno con il progetto Mondi di
mamme: un po’ è vero che non facciamo altro che arrabattarci, o ciondolare con diciamo ridendo con mia
figlia Amanda (ciondolare è un verbo ridicolo in sé, forse per imitare il
ridicolo dell’azione o non-azione che indica), ma di certo ci proviamo, con Daniela, Agnese e Maria Ludovica,
a raccogliere le storie di Dzemila, Nijiba, Sulta, Irina, Carmen, e poi Lucy, Cinzia, Deborah e le altre donne, giovani e
meno giovani, che si stanno avvicinando, che provano ad annusare l’ambiente
mentre si annusano tra di loro. Una volta al mese, non è tanto spesso, ma si
devono tessere i fili, tenere l’interesse
acceso, e ogni tanto, ripeto, mi
dico cose come “cose strane” o “di cose qui ne succedono / ma ci illudiamo di
inventarle noi”.
Poi, per fortuna, o per testardaggine, mi imbatto testimonianze come quella di Caterina Re, mia studentessa, spero
presto mia laureanda, a cui ho chiesto una mano la domenica dell’8 dicembre, e
che mi ha restituito in profondità il senso del nostro lavoro, non solo per Mondi di
mamme, non solo al Fienile, ma anche
all’università, a Rebibbia, in giro per questa città, quando cerco di tenere assieme i
tasselli di questa benedetta antropologia culturale e non ce la faccio più a
vederla come una “disciplina”, perché la vita è un’altra cosa, e l’antropologia,
quando è tale e non è fuffa, apre spazi di vita:
La giornata dello scorso venerdì 8 dicembre sono stata contattata
dal professor Vereni che mi ha chiesto se potevo arrivare con la macchina al
campo Rom di via Salone, prendere alcune delle donne mamme che abitano lì e
portarle al Fienile.
La cosa mi andava e così ho fatto, sono arrivata al campo, e
subito dopo le presentazioni, sono salite nella mia macchina tre donne con i
loro bambini. Tempo di spiegarmi la ricetta della Pita (un piatto, mi hanno
detto, che non manca mai nelle loro occasioni di festa), siamo arrivati al
fienile -ovviamente grazie alle loro indicazioni stradali visto che io sapevo a
malapena come ero riuscita ad arrivare fino a casa loro-.
Non sapevo bene cosa avessero organizzato per quella giornata al Fienile
ma, appena arrivata ho capito che c’entrava col progetto “Mondi di Mamme” che
porta avanti il professore insieme ad altre 3 ragazze sue collaboratrici: una
volta al mese infatti si incontrano al Fienile insieme a delle Donne che condividono
gioie e difficoltà del loro essere Mamma confrontandosi sui loro diversi modi
di accudire.
Quello, per loro, era un giorno di festa in cui c’era chi aveva
già partecipato agli incontri passati e chi invece si affacciava per la prima
volta con figli e figlie.
Dopo aver addobbato l’albero di natale insieme ai bambini e dopo
aver bevuto e mangiato (tra le tante cose ovviamente anche la Pita), tutte le
mamme si sono sedute in cerchio e con l’aiuto del professore hanno cominciato a
presentarsi, ognuna di loro diceva da dove veniva e quanti figli aveva,
provando a spiegare perché aveva deciso di ritrovarsi lì. C’erano mamme Etiopi,
del Bangladesh, di Tor Bella, dall’Albania, mamme Rom e del Montenegro.
Dopo aver superato le prime timidezze tra di loro, l’ambiente si è
fatto più caldo e mi sono accorta di come la mamma più giovane, nata e
cresciuta a Tor Bella Monaca, ascoltava interessata la mamma più anziana
vissuta invece in una baraccopoli Rom che le raccontava della sua parentela, dei
suoi otto figli, e delle sue drammatiche vicende con il marito.
In quel momento, due persone con storie di vita tanto diverse, si
sono avvicinate, si sono guardate e ascoltate per condividere un pezzetto della
loro storia che in fondo le unisce: il loro essere Mamma.
Tornando a casa mi sono chiesta che atteggiamento avrebbe avuto
quella ragazza se, trovandosi al parco con la sua bambina, le si fosse seduta
accanto quella stessa donna con cui parlava al Fienile. Mi sono immaginata,
forse anche con un po’ di presunzione, che quella ragazza l’avrebbe guardata
con diffidenza facendo in modo di allontanarsi con sua figlia il prima
possibile. Ho pensato che le cose sarebbero potute andare così perché nel
nostro immaginario le donne rom sono quelle che potrebbero rapire i “nostri”
bambini nascondendoli sotto le loro gonne lunghe e quindi a pensarla così è
comprensibile anche la diffidenza di una madre non-rom.
Ma in quell’occasione al Fienile ho visto come cambiano gli
atteggiamenti e le parole quando ci si avvicina e ho sentito quanto valgono
questi momenti in grado di aiutare persone diverse a conoscersi, in grado di
rendere le differenze delle occasioni per farci sentire meglio e più in grado
di affrontare quell’altra realtà che prova sempre a metterci l’uno contro
l’altro.
Quel giorno di festa al fienile ha permesso a quelle due mamme
così diverse di avvicinarsi, e ha permesso a tutti e tutte noi che eravamo lì
di provare a “rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di
comprendere chi ci sta di fronte”.
martedì 12 dicembre 2017
La Notte degli Antropologi
12 12 2017. Con più di 420 studenti tra lettere e economia, diciamo che "sono un po' stanchino" (Forrest Gump).
E non è ancora finita dato che ancora mi resta qualche montagna di post di blog e tesine da correggere (oltre a qualche bella dozzina di dozzine di esoneri orali).
Sto finendo il modulo B (antropologia economica) a lettere, e ho finito la settimana scorsa il modulo di Anthropology of Globalization per Global Governance, a Economia.
Visto che il peggio ormai è passato (almeno per me) ho pensato che varrebbe la pena di mettere a frutto tutta sta scienza infusa nelle giovani menti di Tor Vergata.
Ci si vede allora all'ex Fienile, giovedì 14 dicembre 2017, per condividere assieme un po' di tempo, un po' di musica, un po' di antropologia.
Come vedete dalla locandina qui a fianco, si viene belli ricchi di patatine fritte e di riflessioni antropologiche, da condividere entrambe sorseggiando una bibita.
Non ho veramente idea di come organizzare lo speech corner dove chi vuole può sproloquiare per tre minuti tre su quel che più gli/le pare. Ma l'idea è semplice, sul modello "tesina" su cui insisto da anni: l'antropologia culturale fornisce prima di tutto un paio di lenti per vedere in modo inconsueto quel che già conosciamo, per spiazzarci rispetto a noi stessi, per metterci di lato alle nostre ordinarie prospettive. L'antropologia culturale è una visione ai raggi X, il più delle volte un po' arrabattata (tipo questa) ma spesso si vedono comunque cose che non ci si sarebbe aspettati.
Se avete imparato qualcosa dello "sguardo antropologico" venite a raccontarcelo. E anche se non avete nulla da dire, venite lo stesso, a fare il tifo per i coraggiosi che si vorranno buttare nell'impresa.
lunedì 11 dicembre 2017
Domande Macedoni
Mi rendo conto che è un po' complicato, capirci qualcosa della Macedonia (scrivo "un po' complicato" e non "un casino" perché pare che noi professori universitari si debba parlare forbito), ma se volete capire cosa è successo a Leonidas, a sua madre, a suo padre, all'identità politica da quelle parti, se insomma vi interessa capire cosa succede alle identità (o anche solo vi interessa passare l'esame di Antropologia culturale) sarà bene che vi guardiate la lista aggiornata delle domande cui mi aspetto sappiate rispondere senza alcuna esitazione. Sto procedendo con gli esoneri e sono solo parzialmente soddisfatto dei riscontri ottenuti finora. Colpa mia, senz'altro, che non ho dedicato al libro il tempo forse necessario, ma fa parte della mia intenzionale strategia didattica verificare se e quanto siete in grado di studiare per conto vostro, dove "studiare" significa sempre e solo una cosa: applicare il metodo ermeneutico antropologico, per ricostruire il punto di vista dei nativi. Nel libro alcune cose sono dette molto sinteticamente per diverse ragioni, non ultima che quando l'ho scritto Leonidas era ancora vivo ed ho intenzionalmente evitato di soffermarmi troppo su questioni per lui spinose (come il motivo per cui cercano di far fuori il padre, vale a dire il posizionamento politico del padre). Ma io mi aspetto, e lo dico ad alta voce, che tutti gli studenti di antropologia culturale abbiano chiaro il quadro identiario della regione. Se poi non sapete dirmi quali sono gli stati che partecipano alla prima guerra balcanica e chi si schiera contro chi, allora è meglio che non vi presentiate. QUI c'è il file con la lista aggiornata delle domande. E guardate google maps, ho visto che vale la pena di chiedere un sacco di volte "dove" oltre che "quando".
giovedì 7 dicembre 2017
Mamme al fienile
E' quasi un anno che, una volta al mese, alcune mamme si riuniscono al Polo ex Fienile di Torbellamonaca per parlare del complicato lavoro di essere genitori, oggi, nelle periferie di una grande città come Roma.
Per aprire ancora un poco il nostro gruppo abbiamo organizzato una festicciola al Fienile, venerdì 8 dicembre, dalle 15, rivolta ai genitori curiosi di conoscere che stiamo combinando. Tutti e tutte sono invitati coi loro bimbi dalle 15 in poi. Pianteremo un bellissimo albero dell'amicizia e tutti i bambini contribuiranno a decorarlo, ci saranno attività per i bimbi e faremo merenda assieme con le torte autoprodotte (se venite portare anche solo una piccola cosa, meglio se fatta da voi!). Ci sarà anche un laboratorio di break dance per i bambini e una mamma darà la sua testimonianza come "libro vivente". Ci crediamo, che ancora si possa trasmettere qualcosa alle prossime generazioni, basta cominciare a farlo.
Stiamo assieme per un'ora e mezza, chiacchieriamo, mangiamo qualche dolcetto (solitamente ci troviamo dopo pranzo, di venerdì) e intanto chi ha esperienze, belle o brutte, le condivide, le racconta, attraverso diverse culture, a volte con qualche aiuto per elaborare il tutto in italiano, la lingua che usiamo tra noi.
Intanto io registro tutto con il mio registratorino portatile, che non dà fastidio e non imbarazza nessuno. Le mie fidatissime collaboratrici, Daniela Iuppa, Agnese Vannozzi e Maria Ludovica Ventura, provvedono poi a trascrivere queste conversazioni e poco alla volta stiamo raccogliendo un piccolo corpus di memorie e piccoli eventi della genitorialità, che stiamo lentamente montando in una pubblicazione da distribuire alle stesse mamme del progetto e ad altre del quartiere.
L'intento è quello di gestire il fatto di essere genitore come un evento sociale che può essere condiviso, uscendo dalla logica fallimentare della "privatizzazione" anche della genitorialità. Essere padri e madri, oggi, è forse complicato come lo è sempre stato, non di più. Certo, siamo tutti compressi in un sistema di mutamento accelerato, per cui è difficile potersi appoggiare a qualsivoglia tradizione nel nostro ruolo. Io la sintetizzo così: nel decidere come gestire i tempi del cellulare di Rebecca, mia figlia maggiore, non posso andare da mio padre e chiedergli cosa fece lui quando io avevo l'età di Rebecca, visto che non esistevano cellulari, allora!
Eppure, questa eventuale ulteriore difficoltà può essere affrontata meglio se usciamo dalla logica della genitorialità securitarizzata, per cui saremmo noi, singolo padre e singola madre, i guardiani e i responsabili assoluti dei nostri figli. Meglio recuperare una qualche condivisione, raccogliere i pareri di "zii" e "zie" del vicinato, sentire loro che farebbero, o hanno fatto, al posto nostro.
domenica 3 dicembre 2017
Poeti al fienile, dunque
E che poeti. Io ho ancora la pelle d’oca. Credo che il
metodo della competizione a eliminazione
sia terribile, cripto-capitalista,
darwinismo sociale anti-poetico come null’altro al mondo. Ma è evidente che funziona, visto come è andata la serata di giovedì 30 novembre. Qui trovate la registrazione integrale di tutta la performance (mancano solo i primi
dieci minuti, durante i quali, fuori concorso, Jacopo Lubich ha letto una
bellissima sua creazione sulla prospettiva di chi arriva sulle nostre coste, o
muore nel tentativo). Non ho amato allo stesso modo tutte le performance, ma ho
amato di tutte il coraggio strepitoso
di credere alla possibilità di comunicare.
Mettersi lì, davanti a un microfono, con ben più di cinquanta persone che si aspettano tutto e non si aspettano niente,
e provare per tre minuti a dire, a creare mondi avendo come unico
strumento il proprio corpo e la
propria voce è un atto di fiducia nella specie umana che a me, scusate,
ma ancora mi commuove. QUESTA E' LA CARTELLA con le foto dei prodi poeti in azione: Christian Ferrante, Valerio Piga, Carlo Carducci, Giovan Bartolo Botta, Carmine Marcello, Valerio Cecca, Allegra Trenta, Camillo De Felice, Jacopo Masci, Elia Ciricillo, Damiano Gasperini.
Ci sono state risate
e momenti commoventi, attimi di rabbia condivisa e squarci di luce su angoli normalmente lasciati al buio.
I 3 finalisti, dopo 2 manches, erano Giovan Bartolo Botta,
Allegra Trenta e Camillo De Felice.
Vincitrice ALLEGRA TRENTA
Come minimo è da rifare prestissimo.
Antropologia economica, le prime lezioni
3 dicembre 2017. Siamo
partiti ormai da tre settimane (ecco qui la cartella con gli mp3
delle lezioni) con il modulo B di
Antropologia culturale, dedicato ai temi dell’antropologia economica. Lo scopo
è quello di acquisire strumenti sufficienti a comprendere alcuni meccanismi di
base del funzionamento economico di
una società, anche della nostra però, non solo di società “primitive” che, come
sempre in questo corso, ci serviranno come strumenti comparativi, per acquisire assieme le loro e le nostre regole culturali.
Siamo partiti con una lettura generale, basata su un manuale generale, quello di Marvin
Harris, che al capitolo 6 si occupa dell’ORGANIZZAZIONE ECONOMICA. Il vantaggio di partire da questa
esposizione manualistica è che ci consente di avere un po’ a volo di uccello un
rapido sguardo sui temi centrali che incontreremo per tutto il modulo, in
particolare la questione se “l’economia” sia una funzione separata della vita sociale (come è previsto dall’idea moderna del mercato) o se invece si debba
considerare “incastonata” (embedded) in altre istituzioni della
vita associata. Qui
potete trovare qualche appunto che ho steso e utilizzato a lezione per
queste lezioni.
Siamo poi passati a leggere Richard Wilk, Economie e
culture, che ci ha permesso di avvicinarci con un po’ più di profondità al
dibattito polanyano tra formalisti/sostantivisti.
Qui trovate il
link ai miei appunti su quelle lezioni, che ci hanno inoltre aiutato a
capire come mai quando si parla di economia si finisce sempre per parlare,
consapevolmente o meno, di natura umana. Sempre in queste lezioni abbiamo
iniziato a comprendere la complicata relazione tra valore d’uso e valore di
scambio.
Abbiamo poi fatto un salto nel mondo dei cacciatori e raccoglitori con Marshall Sahlins e il suo testo sulla Originaria società opulenta, per
comprendere che il sistema dei desideri
(culturalmente determinato) di fatto costituisce il sistema dei bisogni (che a prima vista potremmo
pensare come naturale). Quindi: i bisogni sono paradossalmente impostati non
tanto dalla necessità (naturale) ma
dalla significatività (culturale).
Gli oggetti vengono inseriti nei circoli economici che li caricano di un valore
di scambio (prezzo) ma anche di un
valore d’uso (relativo bisogno). Si tratta di uno snodo
teorico su cui torneremo più avanti, ma che vale la pena di considerare bene,
perché è la lezione centrale dell’antropologia economica: il valore d’uso è culturalmente determinato quanto lo è il valore di
scambio. È solo dentro un determinato quadro culturale che alcune cose o
alcuni servizi acquisiscono un dato
valore d’uso (si pensi alla questione della mobilità per i cacciatori raccoglitori).
Abbiamo introdotto quindi Polanyi, l’autore che più di altri ha compreso il complesso
rapporto tra economia e cultura, sfidando la vulgata dell’homo oeconomicus, incline a soddisfare la sua tendenza naturale
alla massimizzazione. Abbiamo letto
quattro capitoli (non tre, come mi è capitato di dire a volte a lezione) del
suo fondamentale La grande trasformazione
(eccoqui gli appunti da cui abbiamo letto, soprattutto per il capitolo 3, l’unico
per cui ho steso dei veri appunti “da lezione in aula”) ma abbiamo accompagnato
questa lettura con una riflessione ulteriore sulla contrapposizione storica tra
ricchezza intesa come relazione alla
natura (proprietà terriera e
relativa produzione) e ricchezza invece intesa come prodotto del commercio. È stato Aristotele che ha colto per primo questa contrapposizione tra economia (gestione della casa) e crematistica (arte del denaro)
e visto che gli economisti con cui polemizza Polanyi considerano spesso il
povero Aristotele incapace di cogliere il superiore valore del commercio come
fonte di ricchezza, è meglio chiarire subito il punto e specificare che il
quadro aristotelico è invece quasi profetico, dato che il filosofo non solo aveva
capito la differenza tra produzione e commercio come fonti di ricchezza, ma
aveva anche capito (ecco il valore profetico della sua analisi) che un sistema
tutto teso alla crematistica era radicalmente innaturale, vale a dire incapace di cogliere i limiti della natura e quindi destinato alla distruzione
ambientale. Abbiamo quindi letto dei passi da Antropologia economica di Chris
Hann e Keith Hart, che trovate sintetizzati in questi
appunti.
Un ultimo, essenziale, punto di riflessione che abbiamo
preso sempre da Polanyi è la specificità assoluta (la Grande Trasformazione)
del mercato autoregolato, descritta
nel dettaglio del capitolo sesto ma già anticipata nel terzo, quando spiega l’emergere
della prima industrializzazione
inglese nel quadro necessario della meccanizzazione
che produce una mercificazione (cioè
una finzione culturale che siano
merci) di Natura, Lavoro e Denaro, i tre beni necessari a sostenere la meccanizzazione e di
fatto creatori dell’idea che il mercato potesse regolarsi esclusivamente sul
principio interno della domanda e dell’offerta.
Q1. Considerate gli
oggetti che sono sotto il vostro sguardo in questo momento, compresi vestiti e
suppellettili e cercate di ricostruirne la storia
economica, vale a dire come sono stati prodotti,
come sono arrivati fin lì sotto il
vostro naso, e quali transazioni
economiche o di altra natura
sono intercorse. Per ognuno degli oggetti cercate di comprendere se e fino a
che punto sono stati sottoposti al principio del mercato autoregolato o se sono stati fatti e movimentati in
base ad altri principi (reciprocità,
in modo particolare). Inviate il vostro testo come allegato word al mio indirizzo mail, specificando obbligatoriamente nell’oggetto del
messaggio “test antropologia economica”.
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sabato 2 dicembre 2017
Anthropology of Globalization for Global Governance #14
20th November 2017. Islam is the name of the game for today's class. We had to complete a few more things about Appadurai's essay on Cultural Dimensions of Globalization (first 27 minutes), but then we had an interesting guest lecture by Abdel Latif Chalikandi.
He discussed the role of fake news and how islamophobia is related to the sistematic production by media of a distorted image of what Islam is and does.
Most of Muslims in the world act peacefully and don't have negative attitude towards "the West".
It is evident there are growing issues of communication and mutual understanding between Muslims and non Muslims in different parts of the world.
We came up with a long list of questions, issues and even more to think about.
The assigned reading for this week is al almost old (let's say seasoned) article by Ruba Salih on the emergence of a post-national and transnational Islam in Europe. But it presents an Italian case-study and perfectly fits my teaching needs.
Q. I don't have a specific question for this week topic, but you may want to share your view on Islam, after what you read and you listened, reporting on an experience of yours with Islam, whatever may it be.
He discussed the role of fake news and how islamophobia is related to the sistematic production by media of a distorted image of what Islam is and does.
Most of Muslims in the world act peacefully and don't have negative attitude towards "the West".
It is evident there are growing issues of communication and mutual understanding between Muslims and non Muslims in different parts of the world.
We came up with a long list of questions, issues and even more to think about.
The assigned reading for this week is al almost old (let's say seasoned) article by Ruba Salih on the emergence of a post-national and transnational Islam in Europe. But it presents an Italian case-study and perfectly fits my teaching needs.
Q. I don't have a specific question for this week topic, but you may want to share your view on Islam, after what you read and you listened, reporting on an experience of yours with Islam, whatever may it be.
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