Ormai da diversi anni mi occupo di antropologia urbana, un trucco un po’ da imbonitori
per dire che mi occupo di quel che mi
pare a Roma, che è la città dove vivo da (ormai troppi) anni. In questo
quadro, mi sono occupato di rappresentazioni mediatiche degli immigrati albanesi, di uomini del Bangladesh, di occupazioni a scopo abitativo e di uomini in carcere, ma non ho smesso di seguire le vicende dell’area balcanica (dove mi sono formato come
antropologo professionista) o di provare ad aprire qualche pista ulteriore di
riflessione nel campo dell’antropologia economica.
Di fatto, vengo da una formazione di antropologia
politica (identità etniche e nazionali in Macedonia, tensioni politiche e sociali sul confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda)
che mi ha portato fuori dall’Italia, mentre l’antropologia urbana è stata vissuta come un ripiego una volta che
gli impegni professionali (e ancor più quelli familiari) mi hanno tenuto
ancorato alla Città Eterna: visto che sto
qui, e non si schioda, meglio fare di necessità virtù e riciclare le mie
competenze in nuove direzioni.
In realtà, questo strabismo tra antropologia politica e antropologia
urbana dipende da un malinteso di
cui sono stato vittima fino a quando la Scuola
di politica “Confini al Centro” del polo ex Fienile non mi ha riportato alla radice etimologica del politico e dell’urbano, che è semanticamente la stessa, vale a dire lo spazio della città, le cose della città, i luoghi della città. Città intesa come
correlativo oggettivo dell’esigenza di socialità
dell’umano. Fare antropologia urbana
e fare antropologia politica sono,
dunque, esattamente la stessa cosa, una declinata in latino, l’altra in greco.
Resta la comune sostanza: cercare di comprendere
quali sono i concetti e i
riferimenti valoriali che le persone
usano e articolano per vivere il
loro stare assieme, confliggere, cercarsi, respingersi, cooperare e competere.
Fare una “scuola di politica”, dunque, è un progetto
necessariamente ancorato all’urbano,
dato che fare politica (diversamente dalla guerra
che è un puro agire) è
l’articolazione di un discorso sulle
forme possibili, perseguibili o deprecabili della vita associata (insieme = nella città come spazio comune). Fare politica è, dunque, prima
di tutto, un parlare (con buona pace
dei sostenitori della prassi) e parlare in un contesto educativo (scuola vuol dire quello) è ipso facto un’azione politica.
Chi può parlare,
in una scuola di politica? Quelli della mia
parte? I miei avversari? Persone non schierate? Scrupolosi osservatori oggettivi? Fanatici oltranzisti invasati? Per quel che mi
riguarda, a una scuola partecipo perché ho bisogno di imparare, ed è più facile che io possa imparare se a insegnarmi
sono – oltre che consolidati maestri
che avranno ancora mille cose da insegnarmi che non so – anche persone da me ideologicamente lontane o addirittura avversari politici dichiarati. Da un sodale, da un vicino, posso imparare sempre
tantissime cose se ha le risorse per
farlo, ma da un avversario imparerò sempre
e comunque, perché dovrò apprendere un modo per me inconsueto di individuare connessioni, di dare per scontate alcune cose e non altre, e di valorizzare cose e idee che per me,
dentro il mio guscio, possono essere triviali
finche non le vedo dalla prospettiva straniante
impostami a uno sguardo molto diverso dal mio.
La Scuola di politica Confini al Centro ha questo intento,
quindi: è una scuola di politica nel senso che non finge di essere super partes
o di non avere una presa sul reale sociale, limitandosi a
scrutarlo con lo sguardo asettico e
disinfettato di un entomologo; ma è una scuola di politica anche perché accetta voci di ogni sorta, non
pretende di orientare con la voce e
il pensiero dei suoi relatori il pensiero di chi vi partecipa. Non sarà mai la singola lezione a caratterizzare la
scuola di politica, ma solo l’articolato fluire
delle lezioni costituisce una grammatica,
una cassetta degli attrezzi dell’argomentazione
politica. Chi cerca partiti presi,
quadri impostati e posture ortodosse nella Scuola di politica
Confini al Centro lasci perdere e segua piuttosto le scuole dei partiti politici (se ancora se ne
fanno). Parimenti, stia alla larga dalla Scuola di politica chi vuole invece
analisi “scientifiche” e “spassionate”, una scuola di scienza della politica che proprio non
ci interessa e non ci riguarda.
Siamo una scuola di
politica, e come in ogni scuola passiamo al setaccio le parole del vocabolario, tutte, quelle che ci
piacciono, quelle che ci fanno innamorare,
quelle che fanno schifo e, quando
serve, perfino le parolacce.