Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
giovedì 22 gennaio 2009
Gaza
Sergio Baratto e Antonio Moresco, su Ilprimoamore, hanno scritto un pezzo memorabile, lucido e commovente, spietato nell'analisi e insieme speranzosamente rivolto al futuro. Io lo sottoscrivo in pieno, parola per parola, lettera per lettera: le loro parole sono le mie parole. E spero che possano diventare le parole di molti, per fare il possibile perché questo strazio di dolori disumani abbia finalmente fine.
A cena con Van Gogh
Questa sera le patate e i wurstel di Rebecca hanno richiesto parecchio lavoro, ma valeva la pena di fare questo campo di girasoli.
martedì 20 gennaio 2009
Giornata della memoria
Martedì 20 gennaio 2009, ore 17.00
Università della Calabria - Arcavata di Rende
Aula zeus cubo 18 b
Piero Vereni
Gli usi della diversità, ovvero: a cosa serve il razzismo?
Sperando di vedervi numerosi
giovedì 15 gennaio 2009
Sintomi
Da qualche settimana Amanda (5 mesi) non prende più il latte della mamma, e siamo passati all’allattamento artificiale. Per disinfettare i biberon di Amanda usiamo un prodotto di marca, che poi si risolve nell’essere una specie di varecchina profumata e costosissima: ne mettiamo un misurino in due litri d’acqua e per 24 ore possiamo essere sicuri che i biberon saranno disinfettati a fondo. Il liquido è un po’ irritante per la pelle e dopo qualche giorno che sciacquavamo tettarelle, ghiere e biberon, io e Valeria ci siamo ritrovati con le mani tutte secche e screpolate.
Al supermercato ho pensato di comprare i guanti di gomma. Vedo la taglia “grande” e la porto a casa, solo per scoprire che l’unità di misura dei guanti per lavare i piatti è tuttora la mano di una donna, per cui “grande” significa “grande da donna”, e infatti a me stanno strettissimi.
È dentro ovvietà di questo tipo (le taglie dei guanti per lavare i piatti) che si nasconde la disparità tra uomini e donne che tutti diamo per scontata.
mercoledì 14 gennaio 2009
So fare di meglio
Non vorrei che pensaste che sono monotono. In realtà mi piace cucinare e anche variare: oggi abbiamo pranzato con una zuppa di orzo e farro niente male (e dovreste assaggiare la crema di porri della settimana scorsa). Ma Rebecca non ne vuole sapere di assaggiare cose nuove, quindi al mercoledì è menu fisso: wurstel e patate rosolate. Come altre volte, cerco di variare un poco almeno nella composizione. Questi "bambini con palloncini" mi sono venuti benino, direi. E lo ha pensato anche Rebecca. Se ci cliccate sopra si vedono meglio.
martedì 13 gennaio 2009
pre-giudizi
giovedì 8 gennaio 2009
La mia teoria su Mario
Pensa un po’ che provinciale che sono, non sapevo neppure cosa fosse la Ivi League e me lo sono dovuto cercare! Ora ho scoperto che con questo nome si raggruppano otto università degli Stati Uniti Nord-orientale, che il “free dictionary” che ho consultato definisce “high in academic and social prestige”. Insomma, ci dice Vincenzo:
Nota che quando era chiuso su Harvard o sulla Ivy League NON era un mezzo di distinzione (fra ivy leaguers e studenti normali), perché gli utenti erano _solo_ ivy leaguers.
A me pare esattamente l’opposto, vale a dire la conferma perfetta della mia “teoria”. Stiamo parlando di una cosa che nasce a Harvard, vale a dire una delle più prestigiose università americane, e si diffonde nella Ivy League, che è una specie di associazione delle università più fighe degli Stati Uniti. Ergo, al suo nascere Facebook non era una cosa da fighi, ma da superfighi. Usare Fb al suo inizio vuol dire fare parte di una cerchia ristretta, molto molto elitaria e quindi, ipso facto, distinguersi da quanti non lo usano.
Ma, ancora una volta, mi pare che non si colga il punto della mia argomentazione: e cioè che qualunque oggetto che produca aggregazione automaticamente produce distinzione tra quanti lo usano e quanti no. E uscire dal Fb di massa è (ok, evitiamo determinismi che possono irritare: può essere) un ulteriore tentativo di distinguersi. Spero che un nuovo esempio chiarisca la mia prospettiva.
Mario è stato invitato a una festa: gli hanno detto che è una festa dove ci sono tutti quelli che veramente contano, e quindi decide di andarci. Effettivamente alla festa c’è un sacco di gente figa, ma poco alla volta Mario si rende conto che ci sono e continuano ad arrivare anche un sacco di persone che non gli piacciono, e che lui considera tipacci, di buzzurri e coattoni. Mario allora, per la sua specifica storia, per il suo carattere, per come è fatto, decide che non gli piace stare lì, e se ne torna a casa. LA MIA E’ UNA TEORIA SU MARIO, NON UNA TEORIA DEL PERCHÉ ESISTE LA FESTA, ARGOMENTO SUL QUALE NON HO DETTO NULLA.
Nestore Pellicano invece mi rimprovera:
a partire da quale etnografia parte per le sue affermazioni riguardo le origini di facebook, riguardo il perché la gente vi si iscrive e soprattutto riguardo la perdita di esclusività e sicurezza che qualcuno ha lamentato data la massiccia partecipazione a questo social network? Non crede di essere troppo azzardato nelle sue conclusioni?
Un momento: io sto cui a scrivere sul mio blog perché mi va, non sto lavorando, e non è che faccio la spesa o la doccia “a partire da qualche etnografia”. Ci sono, per fortuna, anche cose che faccio e dico così, senza pretendere di avere ponderato esattamente tutto come se dovessi pubblicare sulla rivista ufficiale degli antropologi europei!
Premesso questo: le etnografie si fanno perché uno ha un problema teorico da risolvere, una questione che non gli è chiara, un dubbio anche solo metodologico. Ergo le etnografie vengono dopo che si è formulata qualche ipotesi di lavoro, non prima, e le ipotesi si elaborano a partire dalle proprie conoscenze e proprie esperienze.
Quel che ho detto su Fb (ANZI, LA MIA TEORIA SU MARIO, SENNÒ RICOMINCIAMO) deriva da tre fonti:
1. quel che ho sperimentato come utente di Fb;
2. quel che ho letto come lettore di alcune mail e di alcuni post online;
3. e quel che ho letto da reportage sull’uso politico di Facebook.
La prima fonte mi aveva fatto notare come in poche settimane fossi entrato in contatto con persone molto lontane dal mio circolo ordinario, persone con le quali sentivo di avere pochi punti di contatto per diverse ragioni. Non tutti “amici”, ma spesso “amici di amici di amici”, e mi rendevo conto che quelle persone continuavano ad apparire nel “mio profilo”, e che quindi chi mi cercava su Fb mi vedeva nel prisma riflesso di quel caos sociale per me – lo ammetto – a volte imbarazzante.
La seconda fonte mi raccontava di persone uscite da Fb con sdegno, come fosse un luogo di appestati o totalmente vuoto di contenuti. Facebook veniva abbandonato come si lascia un’amante traditrice, una zoccola stronza che ci ha illuso ma non ci ha dato quel che speravamo.
La terza fonte, infine, mi parlava di Facebook come luogo dell’impegno politico, della lotta dura contro regimi autocratici,come dicevo fin dal primo post di questa saga.
La cecità della seconda fonte nei confronti della terza mi ha spinto a pensare che il disagio che avevo riscontrato con la prima fosse un sintomo, e ho provato a trarre le mie conclusioni che, per rispondere a Nestore, NON riguardano perché “la gente vi si iscrive” (perché hanno deciso di fare la festa, usando la mia metafora di prima) ma perché “Mario se ne è andato via” (e non ritorna più, proprio come il Marco della Pausini).
Non ho fatto etnografia di Facebook, se per questo si intende stare un anno collegato, imparare la lingua delle diverse tribù che lo abitano, fare interviste, spedire regali virtuali a persone che conosco poco o nulla, provare a mimetizzarmi da squadrista razzista e poi da fan di Gattuso e infine di Guttuso. Per ora mi pagano per fare altri tipi di ricerca e mi accontento.
Del resto, Nestore, non è che quando incontri il dentista al supermercato pretendi che vada in giro con il trapano in mano, giusto?
mercoledì 7 gennaio 2009
Aridaje su Facebook
Ok, questi sono i miei ultimi commenti su Fb, tanto per evitare che qualcuno creda che si tratti di "prodromi" di alcunché.
Proviamo a ripartire dalla mia ipotesi, che cerco di elaborare un poco più analiticamente per evitare fraintendimenti.
1. Fb, come molti altri siti social, è nato come fenomeno locale, e gli utenti early adopters sono stati geeks che come tutti i geeks utilizzavano questo strumento in parte come mezzo di comunicazione, in parte come strumento di identificazione differenziante: noi siamo quelli che usano Fb, gli altri no.
2. Questo meccanismo è diffuso su Internet praticamente dal suo apparire. Il capitale culturale necessario a saper usare alcune forme di comunicazione via web è stato sistematicamente utilizzato per differenziarsi socialmente da parte dei detentori di quel capitale. Non disponendo di capitale economico (o trovando il capitale economico disdicevole ai fini di una differenziazione sociale) molti utenti attivi della rete si sono comportati esattamente come si sono sempre comportati gli intellettuali dal Cinquecento in poi: hanno fatto della loro competenza uno strumento di distinzione sociale. Ho parlato spesso di questo atteggiamento distintivo sul mio blog, basta cercare i post taggati social distinction.Non c'entra nulla la differenza oggettiva in classi né il finto populismo dell'analista. La matrice di quel che dico sta nell'opera di Pierre Bourdieu: non ci sono soggetti e non si sono istituzioni, piuttosto ci sono habitus e campi di forza e quel che i singoli fanno è agire secondo i loro habitus (acquisiti ed ereditati) cercando di muoversi tra diversi campi di forza. In Rete, l'habitus che ha pagato socialmente per lungo tempo è stato lo sfoggio di competenza (non di ricchezza).
3. Una moda come un'altra (ricordo l'euforia per Second Life, e il fuoco di paglia italiano di Twitter) Fb ha preso piede in Italia dalla scorsa estate. E quel che dico vale solo ed esclusivamente per gli utenti italiani di Fb, non per Fb di per sé.
4. Pur essendo stato aperto nel febbraio 2004, Fb ha avuto un numero contenuto di utenti fino a questa estate. Anche qui, le ragioni dell'esplosione repentina mi sono oscure, ma credo che abbiano a che fare con il raggiungimento del tipping point, del punto di svolta dopo il quale alcuni comportamenti diventano epidemici.
5. Mentre gli early adopters italiani potevano usare Fb come strumento di distinzione, dal momento in cui è diventato fenomeno di massa, ha cessato di essere per alcuni strumento di distinzione. Di massa non significa "frequentato dai coatti", come sembrerebbe credere qualche lettore, ma "frequentato ANCHE dai coatti".
6. A questo punto, alcuni utenti italiani di Fb hanno preferito un bel opt out, cancellando il loro account o comunque iniziando a parlare del "vuoto" che caratterizzerebbe questo sito.
La mia ipotesi è che 6 sia stato causato da 5. Tutto qui: non ho fatto ipotesi sul perché tanta gente si è iscritta a Fb (perché sì, come dice Andrea Tarabbia, è per me un motivo sufficiente) ma perché alcune persone siano uscite da Fb e ne abbiano iniziato a parlare in tono sdegnato.
Non ho alcuna intenzione di fare grandi teorie né turismo della realtà (anche se, devo ammettere che, come antropologo, sentirmi dare del turista ha ferito il mio orgoglio in modo che ancora mi brucia… :-) ). Mi stavo semplicemente chiedendo come mai Fb suscitasse questo atteggiamento emotivamente carico. Mi faceva impressione leggere commenti in cui Fb veniva descritto come "una schifezza", e mi è venuto in mente che Pierre Bourdieu racconta all'inizio de La distinzione che vuole occuparsi delle ragioni per cui alcune cose "ci fanno vomitare". Il "mi fa cagare" che sta nel titolo del mio post su Fb era proprio un'implicita citazione bourdiana (che usava il linguaggio dei suoi informatori francesi degli anni Sessanta, più morigerato). Ho pensato che in quell'atteggiamento di disgusto ci fosse una questione di distinzione sociale, e finora non ho trovato controargomenti sostenuti, ma tutt'al più un "mi fa cagare il tuo argomento", che per me suona una paradossale conferma della validità della mia ipotesi. Quando io dico che alcuni utenti cercano di distinguersi stando alla larga da Fb (ora, porca miseria, ora che su Fb "ci sono tutti", mica un anno fa quando eravamo ventimila) non ha molto senso replicare che "io su Fb ci stavo e avevo duecento amici, ma ora ne sono uscito", perché a me questa sembra la prova migliore che quel che dico è sensato. E non voglio sostenere che oggi si esce da Fb solo per questo motivo.
Mi pare che sia successo o stia succedendo con Fb quel che è successo con i romanzi di Umberto Eco. Quando uscì Il pendolo di Foucault, un amico scrittore mi disse di non averlo letto perché Umberto Eco era troppo di moda, lo leggevano tutti… (poi il mio amico era così intelligente da non farsi fregare da questa fregola distintiva, e lo lesse, e riconobbe che era un ottimo romanzo). Cioè: va bene leggere La struttura assente, o meglio ancora il Trattato di semiotica generale, dato che hanno avuto (in proporzione) pochi lettori, uniti da questo marchio distintivo, ma va male leggere Il nome della rosa, o Il pendolo di Foucault, dove Eco elabora gli stessi concetti semiotici, ma lo fa in forma narrativa riuscendo ad attrarre milioni di lettori. Quindi come lo stesso autore può essere elitario in una sua fase e biecamente popolare in un'altra, così un sito può essere una figata per noi fighi all'inizio per diventare dopo un po' una schifezza senza senso (perché si sono entrati cani e porci, oltre a noi fighi, che tanti fighi non riusciamo più ad essere, lì dentro). Pensate a quell'amico a cui parlate dell'ultimo disco del gruppo X (gruppo che ha venduto due miliardi di copie, di cui parlano tutti) e pensate al suo sopracciglio sollevato mentre vi compiange, ricordando come "il primo disco del gruppo X" (quello che ha venduto 2mila copie ma che noi fighi abbiamo comprato tutti, dato che siamo in 2mila in tutto) "quello sì che era un gran disco". Mica la merda commerciale e omologante che fanno oggi, quelli del gruppo X. Ecco, io ci vedo nelle microfughe da Fb questo atteggiamento. Non ho avuto una visione mistica, né mi sono fatto le pippe in solitaria: ho ricevuto due mail su Fb e le ho messe assieme a tre post su diversi blog che rimandavano a diversi articoli di giornale che rimandavano ad altri post di blog. Insomma, avevo del materiale da interpretare e ho provato a interpretarlo.
Vorrei provare ora a rispondere ad alcune considerazioni un po' più puntuali.
Dice Sergio Garufi:
>gli intellettuali sono sicuramente élite perché pochi, non certo perché influenti o abbienti
Appunto, è esattamente quel che sostengo: gli intellettuali hanno bisogno di essere in pochi, altrimenti non si sentono più tali. Non è una questione economica, né di snobismo elitario, ma di semplice habitus. Da almeno 200 anni l'intellettuale sa che avrà pochi soldi (altrimenti è venduto o organico al sistema) e avrà pochi simili (altrimenti è un divulgatore e quindi negatore de facto della sua vocazione analitica). Non c'è nulla di sbagliato in questa forma di identità, è una soggettività nobilissima e perfettamente legittima. Semplicemente non si capisce perché dovrei parteciparvi per forza. Di fatto, non sono un intellettuale secondo questa definizione, dato che mi ci riconosco mentre ci agisco dentro, la vedo cioè nella mia vita ma non la prendo necessariamente come una forma positiva del mio essere sociale (anzi, penso che spesso il mio habitus da intellettuale mi impedisca di comprendere a fondo alcune determinanti sociali). Però non capisco perché debba essere banale o turistica qualunque riflessione che emerga da un piano identitario non militantemente intellettuale come il mio. Le mie riflessioni non sono "propedeutiche" ad alcunché, non mi chiamo Piccolo e neppure Bajani, quindi le cose che li riguardano non mi riguardano.
Scrive invece Enrico Maria Milic (AKA morbin):
>la visione (ovviamente un po' semplificatoria) per cui facebook è un fenomeno molto buono per la massa e i blog non lo sono, è vera fino a un certo punto. nel senso che la visione dei blog come "fighettata da elite" è quella che è stata propagandata dai media main stream e dalle cosiddette blogstar (tutte di solito maschi, molto ben istruiti, tecnologizzati e politicizzati). ma se ti guardi i dati sul blogger medio e sul suo lettore medio scopri presto che di solito i blog sono un diario scritto da e per interessati a temi non politici e non tecnologici e non strettamente di alto profilo culturale (o wanna be tale).
Questo punto mi consente di chiarire (anche a me stesso, a dir la verità) come concepisco l'opposizione di fondo tra blogger e utente Fb. Il blogger si esprime in solitaria, vuole essere letto ma tendenzialmente non vuole una comunicazione. Il blogger è un monologhista, e in questo senso Beppe Grillo, che si rifiuta di partecipare a qualunque dibattito ma che spara contro chi gli pare dal suo bunker, incarna l'URblogger, in prototipo perfetto (in senso ovviamente deleterio, per come la vedo io). Questo stesso post mi costa fatica, perché ho dovuto leggere i commenti degli altri, e provare a rispondere articolando, quando quello che mi piace veramente, come blogger, è avere un'intuizione immediata che butto giù e pubblico al volo, senza chiedere permesso, senza chiedere scusa: pura volizione egocentrica che sta interamente nelle mie mani.
L'utente di Facebook, invece, è uno che vive (come utente di Rete, non come essere umano) nella relazione sociale e nella comunicazione. Se un lettore va sulla pagina del mio blog ci trova il mio elefantiaco Ego che parla di tutto lo scibile umano. Se invece va sulla mia pagina su Fb ci trova che Antonio Marcelli è passato da "relazione complicata" a single (con quattro commenti, nessuno di persone che conosco), che ho avuto un invito per cause "Boicottiamo Gigi D'Alessio", che mi sono iscritto al gruppo "Il paese dei filosofi con gli stivali", che Maria Rossi mi fa gli auguri di buon anno, Barbara Bianchi mi contatta dopo dieci anni per sapere come sto, e così via, producendo, a voler essere buoni, un'immagine caleidoscopica del sottoscritto, ad essere sinceri un accrocco
caotico che io faccio fatica a controllare, e che anzi non controllo quasi per nulla. E' questa la chiave di volta: il controllo sull'immagine che ho di me. Come blogger ho il pallino in mano (tanto più se ho scelto di filtrare i commenti, così evito pure gli scocciatori paranoici che sparano insulti per ogni post), mentre come utente Fb sono "un fascio di relazioni" e sono costretto ad ammettere che la mia immagine non è tanto mia, quanto a produzione.
Sempre Enrico Maria Milic:
>non mi azzarderei in una grossa distinzione tra facebook e altri social network, almeno nel senso di come tu l'hai fatta.
se ti leggi danah boyd vedrai, invece, come in america sia molto più fighetta l'utenza di fb di quella di myspace...
e i dati di mercato per l'italia probabilmente vanno in una simile direzione. credo.
Non ho i dati per parlare della composizione sociologica degli utenti dei social networks, mi bastava dire che IN ITALIA vi è stata un'espansione di utenza di Fb che ha cannibalizzato gli altri social network e che ha attratto molti utenti finora poco avvezzi alla produzione di contenuti. Io non so come definire certi gruppi, ma certo mi paiono poco "fighetti" questi gruppi su Fb:
Scarceriamo le turiste Britanniche arrestate per la gara di sesso orale! (24.363 iscritti)
regala anche tu una molotov ai zingari (1.514 iscritti, notare l'articolo "ai", non mi aspetto che utenti del genere abbiano una grande consuetudine con la scrittura)
Pensavo fosse amore e invece...MAVATTENAFFANCULO (24.363 iscritti)
Giusy Ferreri, ora che novembre è finito piantala di rompere i coglioni! (93.145 iscritti)
Potrei continuare per ore, ma il senso di quel che voglio dire mi pare chiaro…
Andrea Tarabbia dice:
> Scusami Piero, ma non capisco cosa intendi dire quando scrivi: "Fb è stato e viene ancora sistematicamente usato come strumento di pressione politica."
Mi riferivo all'uso che se ne è fatto in Egitto e in Birmania lo scorso anno, quando centinaia di migliaia di persone sono state coinvolte in attività di dissenso politico grazie alla rete messa in piedi con Fb. Era uno dei motivi del mio sconcerto di fronte ai commenti risentiti contro Fb di alcuni utenti o ex utenti italiani: com'è possibile che si giudichi Fb sulla base dell'uso meschino che a volte ne fanno i buzzurri utenti italiani (vedi sopra) e non si tenga conto del fatto che Fb aggrega migliaia di dissidenti, attivisti, gente che rischia il carcere quando non la pelle per fare attività politica su Fb? È proprio di fronte a questo dato di fatto politico enorme come un macigno che ho cominciato a pensare che il risentimento di chi "se ne va" da Fb avesse un'origine socialmentedistintiva e non politica.
Sempre Andrea:
>Stiamo sempre parlando di qualcosa da cui si può essere esclusi in qualsiasi momento senza una motivazione apparente, qualcosa che ha delle regole ben precise che nessuno di noi veramente conosce
Sì, ma questo è vero anche per yahoo (ho un account mail che non ho mai cancellato), per google (io NON conosco le regole di Gmail, e ho scoperto da poco che se voglio più spazio di memoria devo pagare, e non so bene cosa ci fanno con tutte le informazioni che IO ACCETTO DI DARGLI in cambio di un client di posta elettronica che per me non ha rivali e che sono disposto a tenermi così, con tutti gli ads contestuali sulla colonna di destra che si adattano al contenuto delle mie mail) e vale anche per Amazon (che mi dà dei consigli a volte utilissimi, a volte senza senso) e per mille altri snodi di scambio di merci e/o informazioni, come cercavo di dire. Il fatto che il mondo funzioni anche attraverso transazioni economiche non mi spaventa. Credo nella reciprocità come forma fondamentale dello scambio economico, così come l'ha descritta Marcell Mauss e come funziona in Wikipedia e altri wiki cooperativi. Fb mi sta bene per alcune cose, come invitare le persone alla mia campagna per fare in modo che l'Istituto Centrale per la DemoEtnoantropologia sia diretto da un antropologo (e non da uno storico dell'arte, come vuole il suo regolamento attuale) e continuerò a usarlo in questo modo. Se poi salta fuori il compagno del liceo che mi chiede come sto anche se per cinque anni in classe non ci siamo scambiati una parola, o l'ex studente del mio corso che mi manda un "invito a bere una birra virtuale", non credo che la mia vita venga omologata da questo, e non mi importa come qualche orrendo Grande Vecchio potrà usare la terribile notizia che mi sono iscritti al gruppo "fan di Italo Calvino".
>In definitiva non capisco dove sta lo scarto che rilevi: se c'è omologazione non ci può essere cambiamento.
Anche su questo punto finale, io provo a essere un po' pragmatico: chi l'ha detto che omologazione e cambiamento non possano convivere in un ircocervo come Facebook? Per ogni stronzo che monta un gruppo "contro gli zingari" c'è un Tiziano Scarpa che è fan di Alfred Erik Leslie Satie e di Andreï Tarkovski, e io credo che Tiziano sappia benissimo cosa farci col suo "essere fan" e mi posso anche aspettare che il suo essere fan domani produca un cambiamento dentro Fb, o anche solo dentro uno stronzo che smette di fare gruppi contro gli zingari e magari si fa convincere a diventare un fan di Tarkovski. A me pare che da questo punto di vista Fb faccia paura per il motivo congiunto che sembra facilmente controllabile ma insieme complesso come la vita ordinaria, e quindi ci fa temere che la vita ordinaria possa essere facilmente controllabile. Invece, delle due premesse (Fb è controllabile, Fb somiglia alla complicatezza della vita ordinaria) solo la seconda è vera, e lo è solo in parte.
Io da tempo non la penso così, da quando ho imparato che ogni tentativo di omologazione passa necessariamente per la comunicazione, ma ogni comunicazione passa necessariamente per la lettura di ognuno di noi, e quindi la nostra dimensione agentiva come soggetti interpretanti sottrae potere alle intenzioni omologanti dell'emittente. Fuori di metafora: Mark Zuckerberg può avere le peggiori intenzioni del mondo, ma non è detto affatto che le sue intenzioni siano le nostre, e non c'è per lui verso di avere la certezza che riuscirà a convincerci. Su questo i miei studi di antropologia dei media mi confortano: sono infiniti i casi di emittenti che speravano di trasmettere il loro "messaggio" e che si sono trovati con letture devastanti, del tutto contraddittorie rispetto a quello che avevano in mente. Facebook, con la sua caoticità, con la sua apertura a terze parti, è molto, molto più malleabile di qualunque canale televisivo, e quindi mi fa molto, molto meno paura.
Sperando ovviamente di non sbagliare di grosso, resto un utente di sicuro non entusiasta, ma neppure schifato o spaventato. Cerco di USARE Fb, letteralmente, portandolo lì dove voglio io. Finora mi sembra un cavallo un po' riottoso, francamente bruttino e pure puzzolente, ma per quel che gli ho chiesto sta facendo il suo lavoro. Non ho mai preteso fosse un Pegaso alato, ma non ho paura sia il messaggero della Morte. È un ronzino un po' scoreggione, mi dà fastidio ma a volte serve.
sabato 3 gennaio 2009
Ancora su Facebook
Approfitto degli ultimi scampoli di feste per ringraziare quanti si sono presi la briga di rispondere al mio post su Facebook, e per provare a dare qualche riposta.
Andrea Tarabbia dice:
>…per come imposti il discorso sembra che cose tipo MySpace o Splinder siano orpelli da intellettuali…
Mi limitavo a constatare che mentre MySpace e Splinder, in Italia, hanno avuto un accesso sostanzialmente limitato, per una serie di ragioni in buona parte a me misteriose Fb è esploso a fenomeno di massa. Su MySpace ci trovo i cugini della mia compagna, che fanno musica etnica, e molti miei studenti che si occupano di arte in generale, scrivono, o cantano, o in qualche misura proiettano una parte consistente della loro identità nella dimensione estetica. Sui blog tanto meglio: ci trovo colleghi, scrittori, intellettuali o wannabe intellettuali.
Il punto, per me, è che su Facebook ci trovo la mia ex delle medie che ha aperto una boutique e che fino a due anni fa mi diceva che lei "di computer non ci capisce niente". Ci trovo qualche mio ex studente più votato a seguire la Sambenedettese in trasferta che non i blog miei o tuoi. Possiamo fare finta che non sia così, ma resta il fatto che la fauna di Facebook è molto più variegata, in chiave strettamente sociologica, di quanto non siano le faune dei precedenti modelli di social networking. Non ho ovviamente altri dati che non la mia lista di "amici" e quello che osservo standoci dentro, ma mi sento di scommettere che lo spettro sociale (in termini di grado di istruzione, livello occupazionale e – per indicare una caratteristica sociologica che ritengo molto rilevante in questi casi, avendone appreso la rilevanza da Pierre Bourdieu – il livello di scolarizzazione dei genitori) è enormemente più vasto tra gli utenti di Fb che non tra quelli di MySpace o tra i possessori di un blog personale.
>la seconda è che io francamente non ci vedo nulla di punk in fb, a meno che tu non intenda la deriva parapubblicitaria che ha travolto il punk dagli anni ottanta in poi.
Sì, certo, pensavo proprio a quello: al fatto che il punk è sempre stato a cavallo tra "espressione spontanea" e più bieco sfruttamento commerciale, proprio perché gli utenti (nel duplice senso di gruppi e di ascoltatori) provenivano in maggioranza dalle classi sociali meno "scafate" dal punto di vista intellettuale, e quindi da un lato più disposte ad esprimersi senza eccessivi filtri intellettuali, ma dall'altro particolarmente manipolabili. A me pare che, in questo senso, il paragone regga, per quanto mi rendo conto possa irritare, soprattutto a quelli come me, che hanno vissuto il punk da "giovani salmoni del trash", direbbe Tommaso
Labranca, vale a dire come esterni affascinati da un fenomeno che li attraeva esteticamente pur non condividendone, per pura anagrafe, la matrice sociale. Che Fb sia sottoposto a una pressante azione di mercificazione (maggiore che non su Splinder o Blogger, mi pare evidente) è per me un ulteriore sintomo dell'apertura a utenze probabilmente assuefatte alle "interruzioni pubblicitarie".
Quel che però rimane non discusso è lo stridente contrasto tra questo tipo di descrizioni di Facebook che ho cercato di analizzare nel mio post precedente (Fb come luogo della vacuità, del nulla estetico, politico, esistenziale) e il fatto di pura cronaca che invece Fb è stato e viene ancora sistematicamente usato come strumento di pressione politica. Anche questo ci può non piacere, se siamo convinti che lo spazio della politica sia altrove, sia nelle sedi dei partiti, nelle "istituzioni" o anche solo nelle piazze convocate con i volantini ciclostilati, ma non cambia la natura del fenomeno.
La mia domanda, quindi, è semplice e diretta: come mai molti "utenti esperti" di Internet italiani (quelli che ho riportato sono i commenti probabilmente più intelligenti e belli, tra quelli che ho letto, ma lo spirito di distaccato disprezzo verso Fb aleggia in molti altri post) hanno puntato il dito sulla "vacuità" di Fb e nessuno non dico ne la colto le "potenzialità politiche", ma ha registrato il fatto che Fb è efficacemente usato come strumento di pressione politica? Da dove viene questo silenzio provinciale nell'analisi di un fenomeno sociale di dimensioni mondiali?
Diego e Lara Gregori (che ringrazio per essersi rivelata uno dei due "disiscritti" di cui parlavo) pongono la questione in termini ulteriori, cercando di evidenziare i meccanismi psicologici e antropologici di adesione/allontanamento. Mi pare importante quel che dice Diego sulla rinuncia all'identità contestuale:
>ma, su fb, gli altri, altre persone che sono altri contesti di interazione, con cui nella vita sociale adotto registri linguistici e codici comportamentali diversi, mi guardano tutti - virtualmente - allo stesso momento.
questo forza ad essere "uguali a se stessi", condizione a cui gli umani sono estranei!
Mi sembra interessante questa prospettiva: in Fb siamo "costretti" ad adottare un'identità uniforme. La cosa funziona bene sul piano teorico (gli stati nazionali cercano di farci adottare identità fisse da circa duecento anni) ma sul piano empirico non sono sicuro che regga: se fosse vissuta come una costrizione, l'adesione a Fb non sarebbe così massiccia, suppongo.
Le riflessioni autobiografiche di Lara Gregori sembrano rimandare a una forma diversa di identità: Lara ha apprezzato la possibilità di intrecciare nuove relazioni, ma teme che il meccanismo commerciale di Fb sia deleterio:
>Ma il potere di usare internet come strumento di aggregazione reale è un potere da conquistare, e non per essere conquistati come invece sta avvenendo.
Concordo, ma questo è un problema che riguarda "tutto internet", come segnalava bene Andrea Tarabbia nel suo post, e non solo Facebook. Da quando esistono i cookies sappiamo tutti che il semplice accesso alla rete è una forma di consapevole violazione della privacy, e dobbiamo decidere che farci. Ma vale la pena di ricordare che anche quando compriamo i nostri ponderosi saggi e romanzi alla Feltrinelli con la nostra carta punti stiamo accettando una transazione commerciale (io ti do un po' di informazioni su di me come consumatore, tu mi dai un po' di sconto) e questo vale per ogni cavolo di tessera che abbiamo in tasca, da quella del supermercato a quella del videonoleggio. La dimensione mercantile delle relazioni umane non è un "di più" imposto dalla decadente società multimediale, e neppure un frutto deformato del capitalismo: è dentro le relazioni umane, da sempre. E questo lo posso dire con la mia expertise di antropologo. Basta leggersi il Marcel Mauss del Saggio sul dono, o il Malinowski degli Argonauti del Pacifico Occidentale, e proprio su questo blog ricordavo molto tempo fa che l'immagine oleografica del buon selvaggio che non pratica alcuna transazione economica è stata una delle armi migliori del dominio coloniale.
Se i padroni di Facebook ci propongono una dimensione malevola, bigotta e biecamente commerciale del loro sito, abbiamo tutta la possibilità di imporre loro un cambiamento. La recente questione delle foto di donne che allattano è un buon esempio: se siamo abbastanza, possiamo fare in modo che quella regola assurda venga eliminata.
A Sergio Garufi, infine, che ha detto che la mia analisi "è banale, non è da me" posso solo rispondere che "da me" è quel che scrivo, sempre. E non ho standard di riferimento. Non parlavo di opposizione elite-massa come fossero due gruppi oggettivamente esistenti dentro Fb. Dicevo piuttosto che c'è un gruppo di utenti che vuole costituirsi (spesso inconsapevolmente, e tra questi ci sono anche io) come elite, vuole distinguersi dagli altri, e dentro Fb trova perfettamente quegli altri da cui distinguersi. E così non si iscrive a Fb per poter ribadire la sua diversità, la sua peculiarità. Esattamente come Sergio Garufi, che su Fb non c'è.