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sabato 28 giugno 2008

Verso il Fato


Gli intellettuali si fanno vanto di saper interpretare lo spirito dei tempi, di capire in anticipo dove andrà il mondo. A parte aver azzeccato con una certa regolarità per diversi anni il “vincitore morale” del Festival di Sanremo, da questo punto di vista io sono un pessimo intellettuale, dato che la mia capacità di previsione è prossima allo zero (o comunque del tutto sovrapponibile a qualunque vaticinio stabilito a caso). Basti pensare ai consigli a mio padre di investire in Albania nel 1996 (pochi mesi prima del crollo delle piramidi che ha portato a una specie di guerra civile), al fatto che misi piede per la prima volta in una sede del Pci credo nel novembre 1988 (vale a dire pochi mesi prima che da quelle parti finisse praticamente tutto), e al fatto che qualche mese fa avevo segnalato in Capezzone (sì, quello che ora è il portavoce di Berlusconi) la vera novità della politica italiana.
Ammesso quindi il mio disastroso livello di perspicacia sullo spirito dei tempi, non ce la faccio comunque a resistere. Ci sono alcuni segnali recenti che mi fanno presagire un mutamento di rotta nel modo in cui concepiamo la nostra vita.
Negli ultimi trent’anni ha dominato il modello della agency, sia sul piano della pratica sociale, sia sul piano dell’analisi. Con agency, prendendo il termine in prestito dalle scienze sociali, indico un atteggiamento per cui i soggetti della vita sociale si sentono artefici delle loro sorti, e questo atteggiamento attraversa in modo trasversale le classi. Se infatti la borghesia ha incorporato il modello della agency da diversi secoli (sostanzialmente è quella classe sociale che fa della agency la sua struttura identitaria centrale), è solo con le grandi lotte politiche del Novecento che il modello prova a passare alle classi lavoratrici, ed è solo (e paradossalmente) con la fine dell’acme della lotta politica che il modello si rende effettivamente disponibile a una popolarizzazione capillare. Che si fosse ferrotramvieri, popolo delle partite IVA, colletti bianchi o imprenditori, tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Duemila ha dominato una concezione del sé tutta orientata al “mi faccio da me” e “scelgo quel che voglio essere”.
Da qualche anno, mi pare, questo modello è in declino. Sarà la precarizzazione del lavoro, sarà stata la crisi morale dell’Occidente susseguente all’11 settembre, sarà la stagnazione ormai radicata dello “sviluppo”, fatto sta che sempre più evidenti emergono i segnali di una concezione (e di una teorizzazione) della vita sociale che insiste sull’imprevedibile, sull’imponderabile, sulla dimensione letteralmente caotica della cause che producono specifici effetti sociali.
Un libro che va per la maggiore nella saggistica di queste settimane è il Cigno Nero di Nassim Nicholas Taleb.
Il libro vuole sostanzialmente dimostrare che buona parte di quel che succede, sul piano dell’azione sociale, dipende da fattori teoreticamente imprevedibili, che cioè non possono essere inclusi nei nostri quadri teorici (che come si sa dovrebbero essere assieme esplicativi degli eventi passati e predittivi di quelli futuri). Non siamo, dunque, in grado di formulare nel campo delle scienze umane teorie nel senso compiuto del termine, e dobbiamo accontentarci di glossare a margine gli eventi che sono “accaduti”, per evidenziare proprio (ovviamente solo ex post) quei fattori scatenanti e del tutto impossibili da ipotizzare ex ante.
Un secondo indizio è un pezzo che Remo Bodei ha pubblicato qualche settimana fa sul domenicale del Sole24ore, ma a casa non riesco a trovare l’articolo, e quindi dovete fidarvi (anzi, se qualcuno ha notizie precise di questo pezzo, pubblicato credo all’inizio di giugno, mi fa un grande favore a segnarlamelo).
Il terzo, infine, più privato, è stata una recente conversazione con il mio amico e collega Bjorn Thomassen. Bjorn mi raccontava come lui e i suoi colleghi stiano riflettendo, attorno alla nuova rivista International Political Anthropology, sulla differenza tra cose fatte e eventi accaduti. La maggior parte delle azioni che compiamo, dice questo abbozzo di teoria sociale, non è la conseguenza di scelte (razionali o irrazionali non è una distinzione interessante, in questo contesto) ma piuttosto un mero intersecarsi di eventi che ci succedono. Il semplice essere riconosciuti socialmente come “maschi” o “femmine” non dipende dalla nostra agency, e il tipo di interazione che abbiamo avuto con i nostri genitori nell’infanzia, con gli insegnanti nella scuola elementare o con i nostri pari fino all’adolescenza (una serie di fattori che si sa essere di fatto determinanti nella formazione di qualunque soggettività) sono tutte cose che “ci sono successe” e su cui non avevamo alcun controllo effettivo.
Ecco, dunque, che dopo la fase moderna degli strutturalismi (in cui il soggetto era la risultante di un fascio di relazioni che poteva essere districato dall’analisi sociale, e quindi orientato dalla politica) e la fase postmoderna della agency (in cui il soggetto è ironico homo faber del suo destino) ci avviciniamo a una fase (neopagana? Non c’è un termine per questo modo di vedere le cose, ancora) in cui i soggetti danno importanza al Fato come fattore determinante della struttura sociale e della loro posizione al suo interno. Non so dove ci porterà questa fase ma, a vederla da qui, suona un aggiustamento interessante del feroce pessimismo strutturalista e dell’irragionevole ottimismo postmoderno.