2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

giovedì 30 ottobre 2008

La rivoluzione è un pranzo di gala (anche: facinorosi visti da vicino)


Questa settimana, a Tor Vergata, ci sono una serie di iniziative di protesta per testimoniare il dissenso dell'Ateneo nei confronti dei tagli previsti dal decreto 133. Una parte della protesta prevede l'organizzazione di attività didattica alternativa da tenere nelle ore serali, dalle 20 alle 23. Lunedì mi sono reso disponibile già per la sera stessa. Sono arrivato alle sette e mezzo nell'aula occupata e ho cercato di capire se e dove dovessi insegnare. Avevo preparato una lezione su "gli usi della diversità", una lezione per me classica, che tengo da anni per tutti gli studenti del mio modulo di introduzione all'antropologia, e che consiste nella lettura guidata di un bellissimo saggio di Clifford Geertz dallo stesso titolo. In realtà l'organizzazione della didattica era ancora in corso, non si sapeva se avrei insegnato quella sera o quella successiva, e io ho detto che potevo aspettare, che per me andava bene anche fare lezione quella sera e farne un'altra il martedì. Mentre aspettavo, mi sono messo a fare quello che un antropologo fa spesso all'inizio del lavoro di campo, e cioè mi sono messo a osservare limitando le mie interazioni a quanti si rivolgevano a me, ma senza intenzionalmente interferire con il movimento del gruppo.

Ho visto un gruppo di ragazzi che cercava di mantenere un clima sereno pur se intenzionati ad essere battaglieri. Sono rimasto colpito quando mi sono reso conto che uscivano dall'aula per andare a fumare! Mi sono tornate in mente le fasi calde della Pantera, quando Lettere alla Sapienza era occupata, e ho visto un altro tono, un altro stile, decisamente.

Al mattino c'era stato un pacifissimo corteo che aveva sfilato dentro l'Ateneo. Alla sera, mentre i ragazzi aspettavano le pizze (una solo al pomodoro per il vegano del gruppo) hanno letto su qualche sito internet un comunicato rilasciato dagli studenti vicini ad AN, in cui si denunciavano inesistenti danneggiamenti ad automobili e a beni dell'università durante il corteo. Tra l'amareggiato e lo stupito, gli studenti leggevano pezzi di questo comunicato ad alta voce, fino a quando qualcuno ha detto: "Fuori ci sono i poliziotti di ronda. C'erano anche stamattina al corteo, andiamo a chiedere loro cosa ne pensano di questo comunicato". Sono entrati credo quattro poliziotti in borghese, che hanno ascoltato con attenzione il comunicato che parlava di danni e tafferugli durante il corteo. Si sono messi a ridere, confermando che si trattava di una panzana, e poi sono arrivati a dire che ci sarebbero stati gli estremi per una denuncia per calunnia, dato che nulla di quello che il comunicato dichiarava corrispondeva a verità.

Io, devo ammettere, ero estasiato. Pensavo a Pasolini a Valle Giulia, quando lui disse che stava dalla parte dei poliziotti, "figli dei poveri", e non da quella degli studenti, borghesucci viziati, "figli di papà". Ora poliziotti e studenti si parlavano e, udite udite, sembrava stessero dalla stessa parte! Certo, ho pensato, la provenienza sociale dei poliziotti, in questi trent'anni, è mutata di poco, ma di sicuro gli studenti universitari non sono più quelli del Sessantotto, e neppure del Settantasette. I dati statistici ci confermano che sono molti di più di un tempo quelli che hanno i genitori NON laureati. Sono i primi ad affacciarsi all'educazione di terzo livello nelle loro famiglie, e quindi la distanza sociale con i poliziotti è molto minore oggi.

Durante la lezione (che poi ho fatto su un altro tema, vale a dire le forme elementari dell'interazione sociale, con l'intento di far riflettere gli studenti se il loro rapporto con i docenti fosse improntato alla competizione o alla collaborazione, in questa fase) un'altra bella sorpresa: hanno bussato alla porta, e i poliziotti sono entrati portando in regalo un intera scatola di cornetti vari, che sono stati presi d'assalto non appena è finita la discussione.

Penso alla distanza che c'è tra i modelli con cui inscatoliamo la realtà che ci risulta difficile da comprendere o potenzialmente ostile ("la sinistra" "i facinorosi") e la bellezza delle facce di quei ragazzi, la loro voglia di vivere in una società migliore, la loro gioia, la loro curiosità, la loro capacità di credere ancora in qualcosa. Penso che valga la pena di dare loro una mano, perché se lo meritano, forse più di quanto ce lo meritavamo noi alla loro età. Loro lo sanno che non sono convinto del tutto che i docenti e gli studenti abbiano gli stessi obiettivi, contestando il decreto 133, ma proprio per questo credo che valga la pena di starli ad ascoltare. Indicare solo tagli, senza dire dove e come andranno fatti, è un brutto segnale, un bruttissimo segnale. Indica mancanza di attenzione, pressapochismo, paternalismo autoritario. Anche se le intenzioni del ministro Gelmini fossero le migliori (e io aspetto le sue proposte effettive per l'Università, dato che finora ci ha detto che ci saranno meno soldi, ma non ha detto per chi e per come), il modo in cui si è posta è tecnicamente idiota, tutto centrato su se stesso, senza nessun interesse per farsi capire dall'altro, o per provare a capirlo. Che gli studenti si siano incazzati mi pare un bellissimo segnale.





lunedì 27 ottobre 2008

Edison, le nuvole, gli immigrati


La storia di Edison Duraj, che per fortuna sta prendendo la giusta piega, è significativa per molti di noi. Ve la racconta direttamente lui, nel suo blog. E' una storia commovente e insieme gioiosa, che ha già dato vita a uno spettacolo teatrale e a un film documentario. Credo che sia ancora il caso di firmare la petizione per evitare la sua espulsione dall'Italia, anche se fortunatamente non c'è più l'urgenza di qualche giorno fa. Ora Edison ha un lavoro, ma io il piccolo banner qui a destra lo lascio comunque. Dato che sembra una storia a lieto fine, non vorrei che qualche simpaticone istituzionale pensasse di rovinarla per amore della Legalità e della Giustizia. Oltre a Saviano, dobbiamo cominciare a pensare veramente che "siamo tutti Edison Duraj".

giovedì 23 ottobre 2008

Ce l'aveva duro


Avrete sentito e letto delle rivelazioni di Stefan Petzner, il delfino di Jörg Haider che ha candidamente raccontato di aver avuto con il discusso politico dell'estrema destra austriaca qualcosa di molto più intenso e profondo di "un'amicizia". Buon per lui, e anche per Haider, marito e padre di due figlie, se riusciva a tenere in piedi (notare la metafora) un intrico del genere.

Mi viene solo un po' da sorridere cinicamente se penso alla reazione di alcuni suoi virili sodali al di qua delle Alpi. Che ne penseranno di tutta la vicenda veri maschioni come Gentilini o Borghezio?


mercoledì 22 ottobre 2008

Ridere

Chi mi legge sa che mi appassiono poco alle campagne elettorali. Anche a quelle nostrane, figuriamoci a quelle per cui neppure posso votare, come le prossime elezioni americane. Mi irrita, in particolare il piccolo provincialismo di alcuni giornali italiani, tutti protesi a dare il loro endorsement a questo o quello, come fossero il New York Times o come se della loro opinione fregasse qualcosa a quelli che poi votano al di là delle Alpi o dell’Oceano. Mi ricordano certi bimbi secchioni delle medie, tutti preoccupati di far sapere al professore di lettere come la pensavano, tanto per fargli vedere quanto erano bravi.
Quindi, ho seguito poco e male la campagna per le presidenziali americane, ma c’è stato un episodio che mi ha dato da pensare. La settimana scorsa i due contendenti si sono ritrovati ospiti della stessa cena di beneficenza. Ognuno ha avuto modo di parlare per una decina di minuti e, prima McCain e poi Obama, si sono lanciati una serie infinita di battute fulminanti in cui prendevano in giro l’avversario e se stessi, mentre il rivale rideva veramente di gusto alle battute evidentemente scritte con molta perizia dai rispettivi staff di ghost writers. Ne hanno parlato sia Luca Sofri (in un post che ha perso il link ai video su YouTube) sia Christian Rocca (in un post che invece rimanda ai video di Fox Tv, che vi avviso sono sponsorizzati, se volete vederli).
Il confronto è stato inevitabile. Ma non tra i due candidati americani, bensì tra loro e i nostri politici. Sicuramente Obama e McCain hanno condotto una campagna – tanto per trovare una definizione originale – “senza esclusione di colpi”, eppure in quel momento era evidente che potevano ridere assieme delle loro stesse idiosincrasie. In Italia non ho mai assistito a qualcosa di simile, e non riesco neppure a immaginarmelo. Certo, ci dicono che Bossi sia un grandissimo battutista, e Berlusconi è famoso per deliziare i suoi uditori con sapide barzellette, ma la distanza stratosferica con la politica americana è che i nostri politici possono, al massimo, ridere dell’avversario, ma mai ridere assieme a lui. Siamo troppo convinti che il nostro modo di vedere/sentire/pensare sia giusto e serio, per riderci sopra, e siamo troppo inclini a pensare che l’idiozia alberghi sempre e solo nello schieramento avversario.
Non credo che l’America sia un modello perfetto, tanto meno in politica. Ma è vero che gli Americani hanno un’evidente facilità di inserire una marcia leggera quando pensano a se stessi, e questo atteggiamento è particolarmente positivo perché permette a chi lo pratica di allontanarsi un poco da se stesso, di vedersi un poco “di lato”, e quindi di essere in grado di cambiare, quando è necessario almeno per la decenza. I politici italiani (e gli elettori, che sono ovviamente uguali a loro) hanno coltivato con molta meno cura la sottile arte dell’autoironia, e purtroppo si vede.

domenica 19 ottobre 2008

Università e tagli


Siccome la confusione è sempre maggiore, preferisco dire chiaramente come la penso sulla 133, anche se dai post che pubblico da anni dovrebbe essere chiaro che non sono un fautore dello status quo all’università. Se voleva risparmiare soldi, il governo poteva applicare il sistema di valutazione elaborato dal CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca) già voluto da Letizia Moratti, ignorato dal susseguente ministro della Ricerca e Università del governo Prodi, Fabio Mussi. Il sistema permetteva, per la prima volta, di finanziare quelle istituzioni universitarie più meritevoli per la qualità della ricerca, invece del solito e pazzesco sistema di finanziamenti a pioggia dove chi lavora e fa ricerca prende esattamente gli stessi soldi di chi non fa assolutamente nulla (il sistema è ulteriormente aggravato dal fatto che molti dipartimenti, una volta ottenuto il finanziamento “per teste”, cioè in base al numero di persone che lo compongono, poi ripartisce i soldi secondo criteri di nonnismo spudorato, per cui fatto 1 quel che prende un ricercatore, un associato prende 2 e un ordinario 3, sempre indipendentemente dal tipo di spese sostenute e dalla qualità della ricerca prodotta). Mussi ha avuto paura di toccare il farraginoso corporativismo del mondo universitario italiano, ma la ministra Gelmini? Perché non ha detto: “Ok, si riparte dalla valutazione del CIVR e i soldi da quest’anno vanno a chi a prodotto”?. Poi mettiamo a punto un sistema per valutare meglio anche la didattica, e dal prossimo anno attiviamo un piano di rientro che ci permetta da un lato di finanziare meglio (vale a dire con soldi veri, non con 300 euro all’anno per un ricercatore) chi produce ricerca di qualità, su temi rilevanti e in grado di attrarre l’attenzione della comunità scientifica internazionale, contemporaneamente lasciando a becco asciutto chi non ha prodotto. E poi, sempre dal prossimo anno, la Gelmini poteva proporre di ancorare gli stipendi alla produttività (valutabile a livello di ateneo, facoltà, dipartimento e singolo docente/ricercatore), semplicemente tagliando gli stipendi a chi non produce adeguatamente alla posizione occupata. Ovviamente si sarebbe tirata addosso il biasimo di quanti avrebbero da temere da un sistema del genere, ma non si sarebbe alienata TUTTA l’università italiana, come sta accadendo dato che i suoi previsti tagli saranno del tutto orizzontali, legati sostanzialmente al blocco del ricambio del personale (per cui l’università invecchierà ulteriormente, diventando un luogo ancora più lugubre e staccato dalla realtà della vita del paese). Se avesse proposto una vera riforma universitaria attuabile in cinque anni, certo molti le avrebbero dato filo da torcere, ma alcuni (tra cui io) avrebbero applaudito e non avrebbero avuto timore di schierarsi dalla sua parte. E non venitemi a dire che il sistema dell’Università italiana è troppo radicato in queste consuetudini di poco impegno di ricerca per poter essere modificato in tempi brevi. In Gran Bretagna avevano un sistema universitario forse ancora più elefantiaco e antiquato del nostro (avete letto i libri di David Lodge?), ma in meno di dieci anni ne hanno fatto uno dei sistemi più avanzati e produttivi del mondo. Il che significa, tra l’altro, che i docenti insegnano normalmente 150-180 ore all’anno, che i loro stipendi hanno un ampio margine di negoziazione (per cui gli Atenei pagano di più i docenti migliori, potendo fare campagna acquisti) e che gli studenti pagano salato quando possono permetterselo e pagano poco o non pagano quando sono meritevoli. Basterebbero dieci anni per mandare a regime un sistema del genere, basterebbe voler applicare seriamente il principio della qualità e del merito, invece di imporre tagli che si abbattono su tutti indistintamente, che andranno certo a esaurire dipartimenti esausti che nulla più hanno da dire e ricercare, ma che insieme soffocheranno alcune tra le realtà più della nostra ricerca, che non potranno rinnovarsi, crescere, nutrirsi di finanziamenti appropriati e di personale giovane.
Vero è che la 133 non dice nulla di cosa andrà fatto nell’Università italiana di qui al 2012 dovranno essere risparmiati da tutto il sistema dell’istruzione oltre tre miliardi di euro (articolo 64, comma 6) mentre si istituisce il 5 per mille a favore della ricerca. Spero insomma che i decreti applicativi della legge (o meglio, ulteriori norme da dibattere in parlamento) offrano spazio per orientare i tagli in favore della qualità e del merito, ma è comunque preoccupante che si parli di istruzione (dalle elementari all’università) solo per dire che verranno risparmiati soldi.
Certo, il sistema dell’istruzione pubblica ha bisogno di una riforma radicale, ma fare dei tagli senza nessuna progettualità non è una riforma, è un massacro sparando nel mucchio. Certo, si farà fuori qualche stronzo, ma non avevo mai pensato che il massacro di Columbine potesse costituire un buon modello per razionalizzare la spesa pubblica.

sabato 18 ottobre 2008

Legga, signora ministra


Un link per una lettera bellissima scritta da Teo Lorini. E' indirizzata a Bossi ma spero che arrivi al ministro Gelmini e a tutti quelli che vogliono distruggere la scuola come luogo di aggregazione e crescita sociale, oltre che grembiulificio e condottificio. Leggete e passate parola. Il sito, poi, merita la vostra attenzione, e sta nella mia lista qui a destra da sempre.

giovedì 16 ottobre 2008

Hanno ragione loro

Purtroppo, la cosiddetta “riforma” della scuola ha una ragione profonda. Mi riferisco assieme alla 133 sull’Università, al “decreto Gelmini” che riguarda la scuola dell’obbligo e alla recente uscita della Lega di introdurre le “classi ponte” per i bambini stranieri. Paradossalmente, la riduzione dell’orario scolastico, il taglio drastico e trasversale delle risorse senza alcuna considerazione per le effettive esigenze delle scuole e degli studenti, corrisponde a un’effettiva razionalizzazione dei costi e benefici da parte dello Stato.
Lo Stato non è ovviamente un sistema autonomo, ma l’insieme delle pratiche sociali organizzate attorno a specifici campi di forza. Per capire quel che vuole fare la Gelmini (e questo Governo) bisogna chiedersi a cosa serva la scuola pubblica, e perché sia nata come servizio universale. Lo Stato non ha bisogno né desiderio di essere buono, e quel che gli serve è mettere in moto servizi che lo mantengano in vita possibilmente rafforzandolo. Quando nacque l’idea di “scuola dell’obbligo” la definizione già ne chiariva lo scopo: non si trattava di dare maggior libertà ai cittadini, ma un ulteriore dovere, da rispettare per il bene pubblico. Andare a scuola, nella seconda metà dell’Ottocento, in uno Stato di recente formazione frammentato per usi linguistici, tradizioni culturali e composizione sociale, voleva dire imparare i rudimenti di una cittadinanza condivisa. Questa condivisione era essenziale al funzionamento delle strutture dello Stato. Un operaio anche semplice, necessario poniamo per stendere binari e traversine (indispensabili all’uniformazione strutturale del paese, dato che senza un sistema di comunicazioni omogeneo uno Stato non è tale, cfr. le strade consolari dei Romani) doveva essere in grado di lavorare dove ce ne fosse bisogno, parimenti in Piemonte, Abruzzo o Calabria. Se quell’operaio aveva fatto almeno la seconda elementare aveva se non altro imparato a capire una serie di comandi di base in lingua italiana, e quindi poteva essere utilizzato su tutto il territorio nazionale. La migrazione interna (pensate che la seconda città italiana per numero di Calabresi è Torino) si poteva realizzare con maggior efficacia se una parvenza di koinè linguistica andava a colmare i gap dialettali. Un operaio specializzato o un impiegato dovevano essere in grado di leggere i manuali di istruzione delle loro attrezzature o delle loro pratiche burocratiche, e per questo lo Stato era disposto a investire nell’insegnamento.
Avere cittadini con un certo grado di omogeneità culturale era indispensabile, un investimento costoso ma il cui ritorno era evidente. Naturalmente la rapida separazione dei percorsi scolastici (scuole medie contro scuole di avviamento al lavoro) serviva a mantenere nitida la distinzione tra le classi e a garantire la loro relativa impermeabilità (si diventava operai da famiglie contadine, o insegnanti da piccoli bottegai, ma non si diventava medici da contadini o notai da impiegati). Eppure il sistema pubblico, l’istruzione concepita come “obbligo” e come “dovere” ha prodotto una nuova coscienza sociale, per cui l’istruzione è stata considerata un “valore in sé”. Si pensi, ad esempio, come una visione del tutto distorta di questa idea di educazione (sempre più ideologicamente distaccata dal sistema della produzione) abbia ridotto nel secondo dopoguerra l’istruzione universitaria di molte Facoltà a un insieme di nozioni spesso prive di senso e prive soprattutto di qualunque legame con la realtà sociale del paese, ma questo è un altro discorso.
Fino a quando ha retto il sistema fordista, lo Stato aveva la necessità di investire decentemente nell’istruzione per garantirsi quel livello di funzionalità strutturale (industria e servizi) indispensabile al suo funzionamento “moderno”.
Poi è arrivata la crisi del modello delle merci e della struttura lavorativa di base. E questo ha cambiato il rapporto tra Stato e istruzione.
Da qualche decennio i cittadini italiani sono italianizzati dai mezzi di comunicazione di massa (in primis dalla televisione) e quindi imparano la koinè nazionale senza bisogno di andare a scuola. La strutturazione del lavoro è tale che non ha più senso concepire la scuola come una piattaforma operativa sulla quale si andranno a innestare le diverse professionalità. Per rispondere a un call center non serve più che un’istruzione minima, visto che il compito è elementare e un grado di istruzione maggiore potrebbe risvegliare arcaiche “coscienze di classe”. Il sistema della stratificazione etnica del lavoro (per cui i muratori sono romeni, le badanti ucraine, i braccianti nigeriani, gli spacciatori albanesi o marocchini, i pizzaioli egiziani, e così via) funziona molto meglio se questi soggetti sono deboli, privi di diritti e facilmente ricattabili: a loro l’istruzione non serve o al massimo si propone qualcosa di “differenziato” per educarli fin da piccoli alla loro condizione di bacino etnico di forza lavoro.
Diventa invece imperativo, dato il decrescere delle risorse, mantenere e anzi rafforzare le barriere di classe. Ecco che la scuola pubblica può diventare lo spazio dell’istruzione minima da offrire ipocritamente a quelle che una volta si chiamavano “classi strumentali” e che oggi includono anche buona parte del “ceto medio”. Per i professionisti, gli affaristi e le clientele politiche in grado di arricchirsi, invece, si aprono scuole a pagamento dove viene mantenuto uno standard elevato e soprattutto non si teme di istillare una “coscienza di classe” che è ovviamente coscienza di appartenere a un’élite.
In questo quadro, la scuola pubblica non è un investimento sul futuro dei cittadini, ma una perdita secca, una scocciatura, una mesta sopravvivenza di un rituale sociale antico, in cui ancora si credeva che fosse possibile dare pari opportunità a tutti i cittadini e che poi sarebbe stata la disposizione di ognuno a produrre una gerarchia sociale. Finita l’epoca della democrazia intesa come pari opportunità, si apre una feudalizzazione della struttura sociale, e in questo processo la scuola diventa un campo di battaglia.
Io ho due figlie, una di sette anni e una di due mesi. Che scuola faranno ancora non lo so. La prima è in seconda elementare, e ha scansato per un pelo (un anno scolastico) il massacro del maestro unico. La seconda invece arriverà in una scuola ormai disossata, e io certo con il mio stipendio di 1150 euro (che diventeranno 1400) non avrò certo modo di mandarle alla scuola privata. Ecco che tutti gli sforzi dei miei genitori (primi diplomati delle loro genealogie) si esauriranno con me (primo laureato) e io dovrò combattere sperando che esista ancora un’università dove mandare mie figlie.
Non voglio parlare qui dei tagli all’Università, una schifezza senza senso che non tiene in alcun conto del merito e che anzi salvaguarda i privilegi della casta professorale, quella che manda in cattedra parenti e amici, di questo dirò un’altra volta. Voglio qui urlare tutta la mia rabbia per la cecità dei nostri governanti, macchine idiote e miopi in mano a una concezione folle dell’Economia. Questo Stato sta per essere spazzato via (quanto a ricchezza economica e benessere) da Stati che hanno capito che la crisi del sistema classico di produzione dei cittadini “uniformi” si supera non rinunciando al sistema dell’istruzione pubblica, ma investendo ancora di più perché dobbiamo produrre nuovi tipi di cittadini, più attenti, più consapevoli, più in grado di capire la velocità con cui cambia il mondo. Il mito del maestro unico (e lo si vede dalle baggianate mitologiche con cui si accompagna: il grembiule, il voto in condotta, l’educazione civica) va bene per far contenti tutti quelli che, spaventati dalla rapidità dei mutamenti in corso, chiudono gli occhi e si ricordano dei bei tempi andati, quando le cose erano semplici e il pane si cucinava in casa. Invece di aguzzare la vista per capire meglio quel che succede, vogliono farci chiudere gli occhi, sperando che in questo modo la distruzione culturale ed economica a cui stiamo andando incontro sarà meno dolorosa. Se avessi un briciolo di fede chiederei a Dio di perdonarli “perché non sanno quello che fanno”, ma di fede non ne ho e non posso perdonare questa casta di insipienti che invece di portare il nostro paese verso un futuro fatto di prospettive e grandi visioni sociali lo sta sprofondando verso un tempo vergognoso di ristagno sociale e di miseria culturale.

martedì 14 ottobre 2008

Fermare la conversione in legge del decreto Gelmini


Ricopio qui sotto il testo di una mail che ho fatto circolare sul mio indirizzario. Vi chiedo di fare altrettanto e di impegnarvi per cinque minuti per una cosa importante. So bene che il Presidente ha già detto che non ha il potere di non firmare una legge voluta dal Parlamento, ma il fatto che ne abbia parlato è un segnale che stiamo andando nella giusta direzione. Bisogna che si continui a tenere l'attenzione alta.

Scusate se mi aggancio a una catena di mail, cosa che non faccio mai, ma pare che stia funzionando e allora forse vale la pena di insistere.
Sul sito www.quirinale.it sulla destra c'è il link "posta" con il quale potete inviare un messaggio al Presidente della Repubblica. Vi prego di impegnare cinque minuti del vostro tempo per scrivere una lettera in cui chiedete che il Presidente non firmi la legge Gelmini quando gli verrà sottoposta per l'approvazione finale.
Ci ho pensato un bel po', avendo una bimba di sette anni e un'altra di due mesi, ho letto il decreto, mi sono informato per quanto ho potuto, e pur non avendo una predisposizione pregiudizialmente antagonista verso questo governo, ritengo che il decreto Gelmini sia una vera porcata, un modo per tagliare le spese dello stato sulle spalle di quelli che non si possono permettere un'instruzione privata di alto livello. Scriverò sul mio blog un pezzo in proposito e intanto vi accludo la lettera che ho scritto io, se qualcuno fosse a corto di ispirazione.
Vi prego quindi di contribuire scrivendo al Presidente e far circolare questa mail tramite i vostri indirizzari.
Grazie,
pv

Egregio Presidente,

con la presente le chiedo di non firmare il decreto Gelmini quando le verrà sottoposto dopo l'approvazione in Parlamento. Glielo chiedo come padre estremamente preoccupato che uno dei pochi beni pubblici che funzionano egregiamente nella periferia romana dove vivo, vale a dire la scuola elementare, venga smantellato per miopi ragioni di "economia", senza alcuna considerazione di lungo periodo sul ruolo delle pubbliche istituzioni nel formare cittadini consapevoli e responsabili. Dal testo del decreto, infatti, non è chiaro quale sia il destino riservato al tempo pieno, e seppure la ministra ha garantito che "il tempo pieno non si tocca", è evidente che il taglio indiscriminato delle risorse porterà inevitabilmente a una contrazione del numero di classi che potranno garantire questo tipo di servizio, o che comunque la spesa del tempo prolungato oltre le 24 ore degli insegnanti ricadrà sui portafogli di quei genitori (tra cui non sono incluso, come molti di quelli che abitano la mia zona) che potranno permettersela. Ci sono già indicazioni di questa tendenza, dato che più di una scuola (come quella che frequenta mia figlia) ha dovuto ridurre il numero delle classi prime a tempo pieno per carenza di personale, dopo che alcuni insegnanti sono andati in pensione senza essere rimpiazzati.

Le chiedo quindi, signor Presidente, di non firmare un testo di legge iniquo e socialmente discriminatorio. Sono una persona mite e poco dedita allo "scontro", ma questa volta si tratta del bene intellettuale delle prossime generazioni di questo Paese, tra cui ci sono anche le mie figlie. Molti altri genitori come me, persone senza pregiudiziali partitiche, sono pronti a fare tutto quello che sarà legittimamente possibile per non consentire l'approvazione di questa legge e subito ci batteremo per la sua abrogazione tramite referendum.

Rinnovo con questa la mia profonda stima per il ruolo che lei incarna e per la sua storia personale, entrambi garanzie che saprà fare quanto di meglio il Paese si merita.

lunedì 13 ottobre 2008

A cosa serve il razzismo


Si è svolto il 9 ottobre scorso all’Università di Roma “Tor Vergata” un incontro titolato “Razzismo: figlio della stupidità, fratello dell’ignoranza”. L’incontro è stato fortemente voluto dal Rettore, professor Alessandro Finazzi Agrò, che ha trovato la pronta risposta della Facoltà di Lettere e Filosofia nella persona del Preside, professor Rino Caputo.
Il motivo di questa presa forte di posizione da parte dell’Ateneo è da ricercare nei recenti fatti di cronaca. Il giovane cinese pestato a Tor Bella Monaca si trovava giusto dall’altra parte della Casilina rispetto all’Università, che si insedia territorialmente proprio nel Municipio “delle Torri”. Inoltre, ci ha informati il Rettore, uno degli invitati all’incontro, un dottorando indiano che di cognome fa Gupta (non ricordo purtroppo il nome) era stato malmenato più o meno con le stesse modalità qualche giorno prima. Il giovane ricercatore indiano ha poi presentato la sua triste testimonianza, mentre altri studenti stranieri (uno specializzando cinese e una dottoranda credo britannica di religione islamica) hanno invece raccontato storie più fortunate.
Le parole dal palco, rivolte prima di tutto ai molti studenti delle scuole medie inferiori e superiori giunti dal territorio circostante, hanno ribadito l’urgenza di affermare l’uguaglianza degli uomini, mentre la professoressa Olga Rickards ci ha spiegato una cosa importante: le razze umano, dal punto di vista biologico, non esistono, e quindi il problema del razzismo è esclusivamente di natura “culturale, psicologica, sociale e politica”.
Alcuni ragazzi hanno presentato le loro testimonianze e le loro domande. Una in particolare mi è rimasta impressa. La domanda di un ragazzo che ha chiesto al ai relatori sul palco: “Che cosa possiamo fare per contrastare il razzismo?”. Peccato che non abbia trovato una risposta diretta e che l’incontro abbia certamente posto alcune questioni morali di fondo, ma non sia riuscito a proporre qualche punto di applicazione pratica, qualche “compito per casa” da proporre agli studenti.
Ho chiesto la parola, ma il tempo era veramente tiranno e non mi è stato possibile parlare. Se avessi potuto, avrei detto più o meno quanto segue.
Bene, abbiamo imparato oggi due cose. La prima è la certezza della scienza che le razze non esistono, che cioè le differenze genetiche dentro lo stesso fenotipo (persone ad esempio “nere” o “bianche”) sono altrettanto ampie di quelle che ci possono essere tra persone di fenotipo diverso. La seconda cosa che abbiamo imparato è che “siamo tutti uguali”. Questo secondo insegnamento, ovviamente, non va preso alla lettera come una descrizione di quello che vediamo, ma come un principio morale, cioè che nessuno di noi è intrinsecamente superiore o inferiore se manifesta alcune qualità fisiche (colore della pelle) o culturali (abbigliamento, religione, lingua, eccetera).
Messa così, sembrerebbe che possiamo stare tranquilli. Ma il punto è che partiamo da esperienze che sembrano contraddire del tutto questi due insegnamenti. Le razze non ci sono, ma esiste il razzismo, e siamo tutti uguali ma molti continuano a discriminare sulla base del colore della pelle.
Se c’è una così forte differenza tra quello che “dovrebbe essere” e quello che “è in realtà” è evidente che siamo di fronte a un problema di rappresentazione e di comunicazione. Dobbiamo cioè chiederci seriamente: se il razzismo non ha basi scientifiche o morali, come mai il dottor Gupta è stato picchiato mentre tornava a casa da una banda di ragazzotti solo perché ha la pelle scura e i tratti riconoscibilmente asiatici?
Se il razzismo “non ha senso”, perché sempre più prende piede nelle nostre città? Io credo che per rispondere dovremmo partire da una domanda e da una considerazione. La domanda è semplice: a cosa serve il razzismo? Se pure è figlio della stupidità e fratello dell’ignoranza, deve comunque avere una ragione, e se non proviamo a indagarla è difficile che riusciremo a sconfiggerlo. Per rispondere alla domanda, è bene intanto partire dalla considerazione che dicevo dobbiamo fare: se anche, sul piano morale, siamo “tutti uguali”, non di meno sul piano fenomenomenico dell’esperienza quotidiana siamo tutti diversi. Attorno al tavolo c’erano uomini e donne, giovani e meno giovani, italiani e stranieri, di diverse religioni, di diverse confessioni, con abbigliamenti diversi. Ad ascoltarli c’erano professori universitari e studenti delle superiori, insegnanti e ricercatori, sicuramente persone che hanno votato diversamente alle elezioni. Insomma, il dato esperienziale da cui partiamo, tutti, è che siamo diversi, non uguali tra di noi.
Credo che sia questo il punto di partenza da cui muoversi se vogliamo capire una delle cause principali del razzismo, che è uno degli strumenti più efficaci per illuderci che il “nostro” gruppo è un gruppo di “uguali”.
Da tempo sappiamo che qualunque processo di categorizzazione degli altri (bianchi, neri, di sinistra, di destra, alti, bassi, belli, brutti), vale a dire tutto quello che noi riusciamo a dire su come sono e si raggruppano gli altri, ci dice in effetti un sacco di cose su di noi, su come siamo e ci raggruppiamo noi. Essere razzisti, dunque – e “fare cose” razziste, come picchiare uno sconosciuto solo perché ha il colore della pelle diverso dal nostro – è un esercizio di espulsione all’esterno di noi della diversità. Fateci caso: i cosiddetti “episodi di razzismo” sono sempre responsabilità di un gruppo, non vengono mai esercitati dai singoli individui. Non è solo vigliaccheria. Ci sta anche quella, certo, ma non solo: il razzismo si esercita in gruppo perché è il gruppo che ne ha bisogno, non il singolo, dato che è il gruppo che deve dire a sé stesso la propria omogeneità. Qualunque appartenenza, infatti (e non c’è dubbio che la spinta all’aggregazione sociale è scritta nel nostro sistema operativo di base, come esseri umani siamo animali gregari, e ci sono un sacco di ragioni ecologiche ed evolutive perché sia così) è organizzata attorno a due principi impliciti: 1. Noi siamo diversi da Loro; 2. Noi siamo in grado di comunicare veramente tra di noi, cosa che invece non avviene mai veramente con Loro. Questi principi sono necessari ma ognuno di noi, preso singolarmente, sa quanto siano fragili: non è vero (ce lo dice l’esperienza, tutti i giorni) che siamo in grado di comunicare “tra di noi”, e il rischio della solitudine assoluta come stato comunicativo è sempre incombente. I giovani non capiscono i loro genitori, e sanno di non essere capiti. Non si capiscono spessissimo neppure tra loro, litigano, si maltrattano, si insultano. L’amicizia “speciale” e l’amore, a quell’età sono tentativi di consolarsi rispetto al rischio di essere veramente e unicamente soli, completamente diversi. L’amico o l’amica del cuore, l’amore “eterno” dell’infanzia e della prima giovinezza sono il prodotto di questa speranza, che qualcuno cioè, almeno uno, sia veramente in grado di capirci e che noi siamo veramente il grado di capire lui/lei. Che ci sia insomma “vera comunicazione” tra di noi.
Il razzismo, è questa la mia tesi, è la riproposizione di questa speranza a livello di gruppo: se carichiamo tutto il fardello della Diversità su di Loro (neri, musulmani, stranieri, zingari) allora possiamo illuderci che Noi, tra di Noi, siamo uguali e possiamo veramente essere in contatto. La cosa migliore è prendere un tratto distintivo eclatante, particolarmente evidente, e caricarlo di tutta la differenza. Picchiare un indiano diventa un modo malato per dire: tu sei talmente diverso da noi che sicuramente noi siamo uguali tra noi, e mentre con te non c’è alcuna speranza di comunicazione, tra di noi la comunicazione è efficace, funziona.
Ogni razzista, dentro di sé, è una persona terrorizzata dall’idea di essere sola, di non essere capita e di non capire gli altri. Esercitando il razzismo spera di lasciare la differenza all’esterno di un piccolo gruppo di puri con i quali, si illude, la comunicazione può essere invece diretta, semplice, “immediata”.
Il razzismo, dunque, è il figlio degenere di un mito ossimorico, quello della “comunicazione immediata”, l’unica illusione che può salvare queste persone piene di paura dal loro senso di solitudine totale. E ne parlo il terza persona (queste persone) solo perché pratico anch’io lo stesso rituale di allontanamento da me di quel che potrebbe macchiare la mia immagine di puro intellettuale, anche se so benissimo che la paura della solitudine esistenziale (e quindi la minaccia del razzismo come soluzione facile all’angoscia) è sempre in agguato per ciascuno di noi, me compreso.
Cosa si può fare, allora, di concreto, per contrastare il razzismo, per combatterlo non tanto nei suoi sintomi, ma nelle sue ragioni più profonde? Io non credo che serva a molto parlare di tolleranza verso gli altri, di rispetto della differenza o di integrazione nei nostri sistemi culturali. Tutto questo, in fondo, non è altro che una conferma che esiste, da qualche parte, un modo per distinguere nitidamente tra noi e loro, dando così implicitamente ragione alle ragioni del razzismo. A quello studente che aveva chiesto “Cosa possiamo fare per combattere il razzismo?” io vorrei dire: prova a vedere come la differenza non sia tanto lontana, non venga dal Pakistan, dall’Africa o da Altrove, ma sia sempre stata molto vicina a te. Prova a vedere quanto sei diverso da tuo fratello, da tua sorella, dai tuoi genitori, dal tuo migliore amico, dalla tua fidanzata. Non ti illudere di essere uguale a qualcun altro, perché la differenza per te, come per ognuno di noi, comincia lì dove finisce la tua pelle. Passa attraverso quella differenza e renditi conto che puoi comunicare comunque. Certo ci sono malintesi, incomprensioni, false comunicazioni, disillusioni. Ma nonostante tutti gli errori e i tentativi falliti, possiamo comunicare, te lo dimostra il fatto che mi ascolti e io ti ascolto, che cerco di rispondere alla tua domanda e tu cerchi di capire la mia risposta, nonostante io te siamo diversissimi.
Se accetterai la differenza come condizione esistenziale vedrai un mondo di differenze, e forse comincerai ad apprezzarle non tanto come “alternativa al tuo modo di vivere”, ma come “alternative per il tuo modo di vivere”. Più conosci differenze più ti si allarga lo spazio di scelta per te: se assaggi un po’ di cibo cinese, indiano, thai o somalo puoi conoscere sapori nuovi, e forse scoprirai di avere una passione per una spezia o un sapore che prima neppure immaginavi. Ma per apprezzare il cibo “esotico” devi prima riconoscere che c’è un sacco di differenza nel tuo cibo domestico, che quel che cucina la mamma del tuo compagno di banco è molto diverso (e non sempre ha un sapore allettante) da quel che cucina tua mamma. Esercitati quindi a vedere la differenza che sta sempre al tuo fianco, impara a non averne paura senza nasconderla dietro un muro fasullo di “siamo tutti uguali tra Noi”, e mano a mano che calerà la tua paura di scoprire differenze in chi credi uguale, allora non avrai più bisogno di inventarti un Altro totalmente diverso su cui riversare i tuoi timoni di non essere ascoltato e capito.

domenica 5 ottobre 2008

Ottusi



Sono sempre meno ottimista sullo stato morale della società attuale. Le mie letture di antropologia della globalizzazione per anni mi hanno fatto sperare che la diffusione dei segni, per così dire, potesse imprimere un’accelerazione alla democratizzazione dei significati. In parte resto convinto che la cultura di massa sia una buona occasione per “l’ingresso nella storia”, soprattutto in contesti di forte repressione politica. Ma nelle democrazie compiute sono sempre più sospettoso dell’utilità di certe forme di liberalizzazione del diritto di espressione.
Leggendo Antropologia e filosofia di Clifford Geertz, ho trovato una frase che sintetizza il mio critico stato d’animo attuale. Geertz ci sta raccontando (in un capitolo titolato “Una vita di studio”) i suoi anni di studente universitario alla fine della seconda guerra mondiale. Come molti suoi coetanei che avevano partecipato alla guerra durante gli anni che altrimenti avrebbe speso a studiare, Geertz usufruì di una legge speciale che consentiva ai reduci che lo volessero di frequentare l’università senza alcuna spesa. Lui ne approfittò, per fortuna nostra oltre che sua, studiando in un piccolo college dell’Ohio meridionale, l’Antioch College.
Come altri ex combattenti, aveva scelto di studiare non per perdere tempo, ma per recuperarlo, e aveva un’esperienza diretta della vita che lo rendeva refrattario a molta della fuffa che si vende all’università. Il suo stato d’animo generale, e quello della sua generazione, è sintetizzato in modo perfettamente chiaro:
Si poteva essere smarriti o disperati, o tormentati da ansia ontologica; ma ci si doveva sforzare almeno di non essere ottusi (p. 19).

I nostri tempi, invece, hanno sdoganato l’ottusità. Essere cocciutamente stupidi di fronte all’evidenza del reale non è più un limite, ma di fatto un vanto, un segno di tetragona resistenza al mondo. Domina su scala planetaria un sistema politico, economico e mediatico in cui è evidente che il tratto che porta al successo è sempre più l’ottusità mentale, la chiusura, non solo l’incapacità ma anche la mancanza di desiderio di conoscere qualcosa di strano, di diverso, di anomalo. Siamo dentro una forma di vita che ha fatto dell’ottusità il suo blasone, che dice “pace” quando fa la guerra, che chiama riforme quelle che sono devastazioni culturali, che dice che “gli italiani non sono razzisti” quando è così evidente che lo siamo in misura spaventosa, e che pretende che in tutto questo squallore sia rinvenibile ancora una qualche parvenza di “superiorità”.
No, non sono più ottimista come una volta.

Cambio di paradigma


Siamo cresciuti (intendo tutti noi che siamo ormai cresciuti) immersi in una retorica della crescita che si è infilata dentro le nostre storie, le nostre famiglie. Abbiamo tutti assorbito la convinzione che la nostra vita sia stata materialmente migliore di quella dei nostri genitori, che a loro volta era stata migliore di quella dei loro e così via. Almeno a partire dai miei bisnonni (nati attorno al 1860-70) ho la testimonianza diretta di questo miglioramento: mia nonna sapeva di stare meglio dei suoi genitori (anche se di poco), e così la pensa mio padre, e così sono cresciuto pensandola anch’io.
Questo convincimento era costruito narrativamente su una serie di storie intenzionate a spiegarci come si era poveri una volta, come loro avessero poco in confronto a noi, come noi non si riesca neppure a immaginare quanto poco ci fosse allora. La sintesi di questa narrazione della miseria passata, per la mia esperienza, sta in un breve racconto di mio padre, che credo non sia mai stato realtà ma che incarna proprio la dimensione mitologica di questa povertà ancestrale che ci portiamo dentro nelle nostre storie famigliari. Mi dice mio papà, dunque, che da piccolo gli dicevano: “Sta bon, che se ti sta bon te porto in piasa San Marco a vardar i signori che magna el gelato”.
Un’altra forma di questa retorica è incarnata nel parente (spesso uno zio) che si lamenta del fatto che noi, oggi, si abbia tutto, e con una nota acre fa notare che “vi ci vorrebbe un po’ di guerra”, oppure “dovreste sentire cos’è la fame veramente”, e altre frasi che vorrebbero suscitare un improbabile senso di colpa generazionale.
Con l’aria che tira, mi pare evidente che avremo presto bisogno di nuove retoriche, nuovi modi di raccontarci. Quando sarò anziano (nessun commento spiritoso, prego) forse dovrò raccontare ai miei nipoti di un’epoca d’oro, quando avevamo tutti un cellulare (e qualcuno ne aveva più di uno!), quando ogni famiglia aveva due automobili, o quando il lavoro era a tempo indeterminato e addirittura ti davano la pensione.
I miei nipoti mi guarderanno stupiti, come gli eredi di un principato in rovina che rovistano nelle stanze del palazzo alla ricerca di antichi segnali di una ricchezza che ormai non c’è più. Non credo che saranno peggiori di noi, i nostri nipoti, solo più poveri. Godiamoci gli ultimi fuochi di questo carnevale Novecentesco, perché la festa sta per finire.