Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
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domenica 5 ottobre 2008
Cambio di paradigma
Siamo cresciuti (intendo tutti noi che siamo ormai cresciuti) immersi in una retorica della crescita che si è infilata dentro le nostre storie, le nostre famiglie. Abbiamo tutti assorbito la convinzione che la nostra vita sia stata materialmente migliore di quella dei nostri genitori, che a loro volta era stata migliore di quella dei loro e così via. Almeno a partire dai miei bisnonni (nati attorno al 1860-70) ho la testimonianza diretta di questo miglioramento: mia nonna sapeva di stare meglio dei suoi genitori (anche se di poco), e così la pensa mio padre, e così sono cresciuto pensandola anch’io.
Questo convincimento era costruito narrativamente su una serie di storie intenzionate a spiegarci come si era poveri una volta, come loro avessero poco in confronto a noi, come noi non si riesca neppure a immaginare quanto poco ci fosse allora. La sintesi di questa narrazione della miseria passata, per la mia esperienza, sta in un breve racconto di mio padre, che credo non sia mai stato realtà ma che incarna proprio la dimensione mitologica di questa povertà ancestrale che ci portiamo dentro nelle nostre storie famigliari. Mi dice mio papà, dunque, che da piccolo gli dicevano: “Sta bon, che se ti sta bon te porto in piasa San Marco a vardar i signori che magna el gelato”.
Un’altra forma di questa retorica è incarnata nel parente (spesso uno zio) che si lamenta del fatto che noi, oggi, si abbia tutto, e con una nota acre fa notare che “vi ci vorrebbe un po’ di guerra”, oppure “dovreste sentire cos’è la fame veramente”, e altre frasi che vorrebbero suscitare un improbabile senso di colpa generazionale.
Con l’aria che tira, mi pare evidente che avremo presto bisogno di nuove retoriche, nuovi modi di raccontarci. Quando sarò anziano (nessun commento spiritoso, prego) forse dovrò raccontare ai miei nipoti di un’epoca d’oro, quando avevamo tutti un cellulare (e qualcuno ne aveva più di uno!), quando ogni famiglia aveva due automobili, o quando il lavoro era a tempo indeterminato e addirittura ti davano la pensione.
I miei nipoti mi guarderanno stupiti, come gli eredi di un principato in rovina che rovistano nelle stanze del palazzo alla ricerca di antichi segnali di una ricchezza che ormai non c’è più. Non credo che saranno peggiori di noi, i nostri nipoti, solo più poveri. Godiamoci gli ultimi fuochi di questo carnevale Novecentesco, perché la festa sta per finire.