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venerdì 6 novembre 2009

Blasfemi 2 La vendetta

Il post di Pietro Clemente ha aperto un piccolo dibattito travasato nelle mie note su Facebook (dove vanno a finire in copia tutti i post di questo blog). Ne riporto un paio rispettosamente critici nei confronti di quel che diceva Clemente.
Angelo Romano ha commentato:
c'è una cosa che non mi condivince di fondo. Che ci siano parole degli antropologi: tradizione identità senso comune. Attraverso le parole si comunica, ci sono gli antropologi, i politici, le persone, quelle persone del cui senso comune noi con un pò di presunzione ci riteniamo esegeti.

E ha continuato Maurizio Palucci:
Angelo ha ragione! Ci manca solo che per usare una parola dobbiamo chiedere il permesso a qualcuno
Con tutta la simpatia per il prof. Clemente il fatto che nessuno conosca l'articolo della Gallini la dice lunga sulla circolazione in ambiti ridottissimi di alcune ricerche e sull'interesse generale su alcune tematiche.

Volevo rispondere direttamente nei commenti, ma mi è uscita una cosa un poco più lunga:
Non è in gioco il "diritto" di usare le parole. E' scontato che ognuno usa quelle che vuole, ci mancherebbe. Il punto è se quelle parole significano qualcosa per chi le dice o sono solo orecchiate e usate perché di moda. Gli antropologi hanno lavorato da decenni sul concetto di cultura, di tradizione e di identità, e hanno quindi imparato che sono parole difficili, dietro cui spesso si nascondono pervicaci questioni di potere. Clemente dice che manca la consapevolezza della rete semantica in cui quelle parole sono imbrigliate, che però continua a funzionare anche se non se ne rendono conto.
Quanto a Clara Gallini, non ha scritto un articolo, ma due libri interi. Eppure, andate a leggere i giornali e guardate a chi hanno chiesto un parere su questa questione: praticamente a tutti tranne che a chi se ne è occupato professionalmente. Questo è l'altro punto del post di Clemente (e leggete quel che dice Bourdieu sul ruolo dell'intellettuale se volete approfondire): il problema è che viviamo in un mondo di opinionisti, per cui se sei esperto in un campo (la botanica nucleare filiforme) ma per qualche ragione diventi noto (hai litigato in tv con Sgarbi), allora verrai interpellato anche sull'arte gotica, sulle tette in silicone e sul ruolo dei sensi unici nei centri storici. Questo è deleterio per il concetto stesso di sapere, che coincide con quello di fama, dal quale dovrebbe invece rimanere ben separato (episteme e doxa, dicevano gli antichi parlando di una questione molto simile). La comunicazione di massa è la principale artefice e vittima di questo meccanismo. Lo si vede anche con la morte di Lévi-Strauss: tutti i giornali ne hanno parlato perché Lévi-Strauss era famoso (per aver litigato con alcuni intellettuali negli anni Settanta), e quindi da famoso era trattato dai giornalisti italiani, non perché il pensiero di Lévi-Strauss fosse in qualche modo conosciuto o ritenuto importante (tant’è vero che l’hanno descritto come “il primo che ha studiato i primitivi” e scemenze del genere). Quando è morto Geertz due anni fa non se l’è cagato nessuno, anche se Geertz aveva cose molto più importanti e attuali da dire di Lévi-Strauss. La sua morte è passata inosservata perché Geertz non era famoso in Italia, non aveva fatto alcuna polemica, non aveva partecipato ai talk show, non era stato processato.
Chiaro che la battaglia per noi sembra persa in partenza: se vogliamo farci sentire sembriamo costretti a entrare nel gioco della fama, per cui non importerà più a nessuno cosa vogliamo dire, e ci limiteremo a essere famosi in quanto noti. Oppure siamo costretti alla marginalità per cui diciamo cose interessanti (a volte, almeno a volta, dai) ma non ci ascolta nessuno perché non siamo famosi (vedi i libri di Chiara Gallini).
La terza opzione è invece quella lenta, quella che più ci compete: poco alla volta, provare a scheggiare il monolite della fama e provare a lasciare un segno sulla struttura culturale: lavorare per una slow culture ecologica mi pare l’unica possibilità, e forse è per questo che rimango ottimista rispetto all’uso dei social network, dove questa dimensione ha ancora spazio.