Ieri, nella Sala del Mappamondo, della Camera dei Deputati, si è tenuta una conferenza stampa della Rete nazionale di seconde generazioni G2, per presentare la Campagna Cittadinanza G2 e il disegno di legge Sarubbi-Granata sulla possibilità di estendere la cittadinanza agli immigrati in regola residenti da almeno cinque anni e la garanzia che i figli di immigrati, nati in Italia o comunque qui cresciuti, possano accedere alla cittadinanza italiana senza particolari (e particolarmente odiose) trafile burocratiche.
Abbiamo sentito le testimonianze di Qenia (di origini brasiliane e nigeriane) e di Neva (di origini croate), italiane che non vedono riconosciuti i loro diritti, che non possono votare; che hanno forti limitazioni agli spostamenti (di fatto non possono viaggiare fuori dall’Italia mentre il loro permesso di soggiorno è in rinnovo, vale a dire per molti mesi all’anno, e spesso una volta rinnovato scade poco dopo); che non possono accedere ai concorsi pubblici anche quando ne avrebbero i titoli (perché molti concorsi sono riservati ai cittadini italiani o UE); che spesso non possono aprire una partita IVA (se la chiedono una volta esaurite le “quote”); che hanno enormi problemi a recuperare i documenti necessari per il matrimonio; che devono subire la trafila umiliante del rinnovo (spesso annuale!) del permesso di soggiorno, anche se sono nate qui come me o hanno fatto buona parte delle scuole qui, come me, che non mi sento certo in obbligo di “chiedere permesso” per restare in Italia; che quindi vivono sistematicamente come cittadini di serie B.
Ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa e lo scambio di informazioni, e propongo al dibattito queste mie riflessioni.
1. Chi vota la legge? La proposta di legge Sarubbi-Granata è sicuramente interessante (per quanto migliorabile), ma il vero rovello è un altro: chi effettivamente sarà disposto a votarla? Con questa maggioranza di Governo, tenuta in scacco dal razzismo della Lega, non vedo proprio come sia possibile un’operazione bi-partisan che sembra destinata a morire sul nascere, o a vivacchiare solo e fino a quando rimane un ballon d’essai senza alcuna velleità di effettiva realizzazione. La Rete G2, che si dichiara (giustamente!) apartitica deve fare i conti con il fatto che non solo nella società civile, ma dentro il cuore del Parlamento esistono spezzoni evidenti e consistenti del corpo politico che non hanno alcuna intenzione di lavorare in favore di una qualsivoglia integrazione dei cittadini immigrati e dei loro figli, e che anzi articolano i loro programmi politici sul razzismo, l’esclusione sociale del culturalmente o razzialmente diverso, e l’assimilazionismo più spudorato. Per quanto voglia giustamente trovare degli interlocutori istituzionali, la Rete G2 deve avere ben chiaro che nelle istituzioni alcuni sono referenti potenziali, ma altri sono chiaramente dei nemici, e come tali andrebbero trattati. Inutile farsi illusioni su questo punto, che è legato a quello successivo.
2. L’identità italiana. La Rete G2 sta chiedendo un diritto fondamentale per i propri aderenti e per tutti coloro che hanno una cultura italiana (parlano in italiano, pensano e scrivono in italiano, conoscono chi è Pippo Baudo e sanno riconoscere di chi sono i versi Sempre caro mi fu quest’ermo colle e Nel mezzo del cammin di nostra vita) ma non hanno il diritto di vedersi riconosciuti come italiani. Bisogna tuttavia avere chiaro in mente che questa loro richiesta coinvolge tutti noi italiani, anche quelli che credono di aver accesso garantito alla cittadinanza. Chiedere che si possa avere la cittadinanza italiana anche se si ha la pelle scura o gli occhi a mandorla, se si è musulmani o si crede nella reincarnazione, significa SGANCIARE una volta per tutte l’identità italiana dal colore della pelle e dalla religione. Significa che noi-che-abbiamo-la-cittadinanza-italiana-come-dato-di-fatto dobbiamo ammettere che è ora di finirla di concepire l’italianità come inevitabilmente associata a uno stereotipo fisico (la Cuccinotta?) o culturale (Padre Pio?) per riconoscere che l’identità italiana è qualcosa che costruiamo tutti insieme dibattendone. Significa ammettere che essere italiani è un processo identitario, un’appartenenza sempre in fieri, e che questi nostri connazionali dai colori “strani” ci stanno sollecitando su questo tema. Siamo disposti ad ammettere che italiani si diventa e che l’appartenenza nazionale non è un bene ereditato per via genetica o anche per via culturale direttamente parentale? Siamo pronti ad accettare il fatto che si possa essere pienamente italiani senza essere nati da genitori italiani, ma perché si è stati esposti alla cultura italiana nel processo di socializzazione?
Attenzione, il punto è cruciale: siamo disposti ad accettare il fatto che l’identità italiana NON DIPENDA DIRETTAMENTE DALLA FAMIGLIA CHE CI HA GENERATI?
Io ovviamente sono entusiasta di questa prospettiva dinamica, ma non so quanti connazionali possano al momento condividerla. Mi sembra doveroso ricordare agli amici della Rete G2 che parlando dei loro (sacrosanti) diritti stanno in effetti anche parlando dell’identità italiana di tutti gli italiani, e su questo punto è probabile che trovino le resistenze di tutti quegli italiani che (vedi punto 1) si fanno rappresentare da esponenti esplicitamente razzisti e intolleranti, che articolano invece un’ideologia dell’appartenenza completamente diversa, delegando alla famiglia di origine il diritto/dovere di inculcare l’identità nazionale. Il lavoro da fare, in questo senso, è complicatissimo, perché prevedere la possibilità che persone somaticamente e/o culturalmente eccentriche rispetto al modello steretipicamente normativo dell’identità nazionale italiana siano riconosciute come interlocutori legittimi per parlare dell’italianità e per contribuire alla sua costruzione.
3. La questione del nome. Per quanto, come si capisce, io sia del tutto in accordo con le richieste della Rete G2, trovo fuorviante il nome che si sono scelti, e mi azzardo a proporre una sua modifica. “Rete nazionale di seconde generazioni G2” lascia in sospeso a cosa si riferisca il “seconde”, producendo facilmente nella mente di chi legge o sente un effetto da “spazio bianco da riempire” con l’inevitabile etichetta “immigrate”, producendo un risultato finale “seconde generazioni di immigrati” che è errato (in quanto non parliamo di immigrati, ma di nati qui o arrivati a un’età in cui non si può proprio essere immigrati) e politicamente deleterio (dato che conferma nella mente di chi legge o ascolta “seconde generazioni” la convinzione che si tratti comunque di immigrati, di altri, mica di italiani con i quali fare i conti). Il rischio di questa denominazione, secondo me, è quindi quello di tagliare alla radice lo scandalo della condizione dei G2, che è invece quello di essere italiani non riconosciuti come tali, per essere ricondotto all’ennesima richiesta dell’ennesima lamentosa minoranza che si rivolge umilmente alla maggioranza per rivendicare qualche briciola di diritto.
No, io credo che la cosa, anche terminologicamente, andrebbe presa di petto, con un’espressione del tipo Italiani di Prima Generazione (IPG), a indicare che gli IPG sono i Primi nel susseguirsi delle Generazioni della loro famiglia, ad essere di cultura Italiana e quindi Italiani e basta. Mentre io, diciamo, sono italiano da diverse generazioni, gli IPG lo sono da una generazione (la loro), ma dato che nel nostro sistema giuridico l’appartenenza nazionale non è un sistema dinastico (dove si acquisisce prestigio tanto più quanto si allunga il pedigrée dall’antenato fondatore) ma è invece un sistema di diritti/doveri, gli IPG possono sensatamente battersi affinché la loro condizione di PG non intacchi in alcun modo i loro diritti di I(taliani).
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
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giovedì 19 novembre 2009
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