La settimana scorsa mi sono fatto la tratta del trenino Roma Laziali-Giardinetti assieme a Nello Avellani di Radio Popolare Roma, uno dei curatori del programma Jalla! Jalla!, che va in onda oltre che a Roma anche su Popolare Network.
Con Nello abbiamo scelto cinque stazioni per parlare di altrettanti temi legati alla città di Roma. La prima fermata scelta è stata Santa Bibiana, alle porte di San Lorenzo, per parlare di Roma come città universitaria. La seconda stazione è stata Villini, per entrare al Mandrione e parlare della città spontanea, dei borghetti e dell'immigrazione interna. La terza è stata Torpignattara, per parlare invece della città multiculturale e dell'immigrazione transnazionale. Come quarta stazione abbiamo scelto Alessandrino, e il tema è stata l'acqua (dall'acquedotto) e quindi di necessità il consumo sostenibile, un rapporto ecologico con lo spazio urbano. Abbiamo finito con la stazione di Centocelle, una delle borgate storiche studiate negli anni Sessanta da Franco Ferrarotti e i suoi collaboratori. A distanza di quarant'anni Ferrarotti con Maria Immacolata Macioti ha compiuto una nuova ricerca nelle periferie romane, e questa ricerca ci ha offerto il destro per parlare di generazioni, anziani e giovani dentro la città.
Se vi interessa sapere quel che ho raccontato, da oggi (lunedì 13) a venerdì 17 durante Jalla! Jalla! Nello manderà in onda una rubrica su questo viaggio.
Così vi ascoltate un po' di Radio Popolare Roma, capite che lavoro enorme stanno facendo, e magari decidete di aderire alla loro campagna di abbonamenti!
PS Se non siete di Roma o nella vostra città non si sente Popolare Network, potete comunque ascoltare la radio in streaming su Interet, o scaricarvi il programma in podcast.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
lunedì 13 dicembre 2010
Roma-Giardinetti
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Radio Popolare Roma,
Urban and Global Rome
giovedì 25 novembre 2010
Contemporary Rome: Changing Faces of the Eternal City
Domani mattina ci saro' anch'io, e il programma si preannuncia succoso! (Qui trovate il file del programma completo).
Bilingual Conference (English and Italian)
The American University of Rome - The Auditorium - Via Pietro Roselli, 16 Rome
26-27 November 2010
Keynote Speakers
Michael Herzfeld, Harvard University & Alessandro Portelli, Università degli Studi di Roma, La Sapienza
The city of Rome, the Caput Mundi of Antiquity, has been studied predominantly as a historical monument. But what of contemporary Rome; its people, its politics and economy, its environment, the challenges of globalization? Both within and outside Rome’s historic centre, a variety of transformations are currently underway. Recent decades have seen the arrival of large numbers of immigrants, many of whom are becoming permanent residents and are changing the outlook of the city. This new multicultural reality is affecting the arts, Rome’s nightlife, its economy, and neighborhoods. It has also become a highly contested issue in local politics. Mobility is not restricted to Rome’s newcomers and the city is undergoing gentrification, labor market transformations, geographic expansion. Conditions in its peripheries are now the subject of intense study and urban planners are seeking new approaches to developing the city for a sustainable future. The issues of pollution, congestion and calls for decentralization are more urgent than ever. Rome’s identity as national capital is also an issue for debate as moves for increased regional autonomy and questions concerning the role of the nation state itself develop. The fast-changing urban realities of Italy’s biggest city and capital are the focus of this two-day conference which will bring together Italian and English-speaking scholars from a variety of disciplines.
PANEL 1 - 10:00 - 11:30AM Global Politics, Local Realities
Chair: Bjørn Thomassen, AUR
Pierluigi Cervelli, (Università di Roma la Sapienza) “Rome as a Global City: Mapping New Cultural and Political Boundaries”
Adriana Goni Mazzitelli, (Università degli Studi "Roma Tre") “‘Se ci sei battiti:’ Cultural Urban Movements of Resistance in a City for Sale”
Piero Vereni, (l'Università di Roma Tor Vergata) “Diversly Globalized Rome”
Bilingual Conference (English and Italian)
The American University of Rome - The Auditorium - Via Pietro Roselli, 16 Rome
26-27 November 2010
Keynote Speakers
Michael Herzfeld, Harvard University & Alessandro Portelli, Università degli Studi di Roma, La Sapienza
The city of Rome, the Caput Mundi of Antiquity, has been studied predominantly as a historical monument. But what of contemporary Rome; its people, its politics and economy, its environment, the challenges of globalization? Both within and outside Rome’s historic centre, a variety of transformations are currently underway. Recent decades have seen the arrival of large numbers of immigrants, many of whom are becoming permanent residents and are changing the outlook of the city. This new multicultural reality is affecting the arts, Rome’s nightlife, its economy, and neighborhoods. It has also become a highly contested issue in local politics. Mobility is not restricted to Rome’s newcomers and the city is undergoing gentrification, labor market transformations, geographic expansion. Conditions in its peripheries are now the subject of intense study and urban planners are seeking new approaches to developing the city for a sustainable future. The issues of pollution, congestion and calls for decentralization are more urgent than ever. Rome’s identity as national capital is also an issue for debate as moves for increased regional autonomy and questions concerning the role of the nation state itself develop. The fast-changing urban realities of Italy’s biggest city and capital are the focus of this two-day conference which will bring together Italian and English-speaking scholars from a variety of disciplines.
PANEL 1 - 10:00 - 11:30AM Global Politics, Local Realities
Chair: Bjørn Thomassen, AUR
Pierluigi Cervelli, (Università di Roma la Sapienza) “Rome as a Global City: Mapping New Cultural and Political Boundaries”
Adriana Goni Mazzitelli, (Università degli Studi "Roma Tre") “‘Se ci sei battiti:’ Cultural Urban Movements of Resistance in a City for Sale”
Piero Vereni, (l'Università di Roma Tor Vergata) “Diversly Globalized Rome”
martedì 16 novembre 2010
Servizi essenziali
Non mi era mai successo. L'universita' americana dove insegno (e da dove scrivo questo post, ecco la mancanza delle vocali accentate) sta in un punto meraviglioso di Roma, in cima all'Aventino. Arrivo verso le 17.30 con la moto, parcheggio e faccio il piccolo pezzo a piedi che porta all'ingresso del College. Qualche volta vedo i domestici straneri che portano a spasso i cani (quasi sempre di piccola taglia) dei loro padroni. Padroni dei filippini, penso, e padroni dei cani. Ho sempre trovato abbastanza umiliante portare a spasso il cane di un altro, e abbastanza idiota affidare a un proprio dipendente il proprio cane da portare a spasso. Ma questo e' il sistema delle relazioni e il sistema di produzione corrente, ho sempre pensato, non posso che prenderne atto ed evitare di trovarmi mai in una delle due posizioni, di passeggiatore di cani altrui e di affidatario dei cani miei.
Pero' stasera ne ho vista una nuova, almeno per me. Sulla discesa del college, vedo avanzare una strana coppia verso di me: un uomo tozzo e piuttosto impacciato trascinato da un altro, segaligno e scuro. Mentre si avvicinavano cercavo, come spesso mi capita, di immaginare la relazione tra queste due persone. Sembravano di eta' troppo ravvicinata per essere padre e figlio, ed erano troppo diversi somaticamente per essere fratellli.
Quando il lampione me li ha messi a fuoco, ho capito che si trattava di un inserviente straniero (asiatico meridionale, forse pachistano o bangladese, sulla quarantina) che portava a passeggio un uomo a occhio poco piu' giovane con un evidente handicap psichico, un ritardo mentale.
L'inserviente portava a spasso l'uomo con evidente distrazione, stando avanti a lui di un passo buono e letteralmente trascinandosi dietro il braccio dell'altro, a cui era appeso il resto del corpo. Era una scena allucinante nella sua fredda razionalita'. Ho pensato ai genitori di quel ritardato, che proprio non ce la fanno piu' e hanno anche loro diritto a un attimo di quiete. E la pagano, quella quiete, affidando la loro dolorosa croce al badante sbadato.
Se siamo a questo punto, se veramente dobbiamo pagare qualcuno per condividere un dolore, mi sa che siamo proprio nella merda.
Pero' stasera ne ho vista una nuova, almeno per me. Sulla discesa del college, vedo avanzare una strana coppia verso di me: un uomo tozzo e piuttosto impacciato trascinato da un altro, segaligno e scuro. Mentre si avvicinavano cercavo, come spesso mi capita, di immaginare la relazione tra queste due persone. Sembravano di eta' troppo ravvicinata per essere padre e figlio, ed erano troppo diversi somaticamente per essere fratellli.
Quando il lampione me li ha messi a fuoco, ho capito che si trattava di un inserviente straniero (asiatico meridionale, forse pachistano o bangladese, sulla quarantina) che portava a passeggio un uomo a occhio poco piu' giovane con un evidente handicap psichico, un ritardo mentale.
L'inserviente portava a spasso l'uomo con evidente distrazione, stando avanti a lui di un passo buono e letteralmente trascinandosi dietro il braccio dell'altro, a cui era appeso il resto del corpo. Era una scena allucinante nella sua fredda razionalita'. Ho pensato ai genitori di quel ritardato, che proprio non ce la fanno piu' e hanno anche loro diritto a un attimo di quiete. E la pagano, quella quiete, affidando la loro dolorosa croce al badante sbadato.
Se siamo a questo punto, se veramente dobbiamo pagare qualcuno per condividere un dolore, mi sa che siamo proprio nella merda.
venerdì 12 novembre 2010
Immigrati italiani
Come si fa a non parlare di quel che è successo a Brescia e di quel che sta succedendo in tante parti d’Italia, di diritti negati, di clandestità artate per dare in pasto alla belva un po’ d’odio d’accatto, raschiando sul fondo del barile elettorale la vergogna della nostra inciviltà?
Io mi sento male, e allora racconto un episodio che mi è stato raccontato ieri (cambio i nomi dei protagonisti), da una maestra di una delle scuole “multiculturali” di Roma. Qualche saccente sostenitore dello “scontro di civilità” mi taccerà, come ha già fatto, di “irenismo”, ma non sa che mi farà un complimento.
In una quarta elementare dove i bambini vengono da tutto il mondo la maestra propone un esercizio di reciproca descrizione. Uno alla volta, i bambini si avvicinano alla cattedra e i compagni cercano di raccontarne a voce i tratti salienti.
E’ la volta di Stephan, romanissimo figlio di filippini.
Com’è Stephan? chiede la maestra.
- Ha i capelli neri e lisci lisci.
- Ha la pelle olivastra.
- E’ magro e ha i denti bianchissimi.
Greta (una bambina “italiana”) aggiunge: - Ha gli occhi a mandorla!
La maestra approfitta di quest’ultimo tratto per provare a parlare di diversità, per provare a spiegarla: - Perché Stephan ha gli occhi a mandorla, Greta?
- Perché sorride sempre!
(Grazie a A.T. e alle sue colleghe, che insegnano ai bambini a guardare i sorrisi dei compagni di classe)
Io mi sento male, e allora racconto un episodio che mi è stato raccontato ieri (cambio i nomi dei protagonisti), da una maestra di una delle scuole “multiculturali” di Roma. Qualche saccente sostenitore dello “scontro di civilità” mi taccerà, come ha già fatto, di “irenismo”, ma non sa che mi farà un complimento.
In una quarta elementare dove i bambini vengono da tutto il mondo la maestra propone un esercizio di reciproca descrizione. Uno alla volta, i bambini si avvicinano alla cattedra e i compagni cercano di raccontarne a voce i tratti salienti.
E’ la volta di Stephan, romanissimo figlio di filippini.
Com’è Stephan? chiede la maestra.
- Ha i capelli neri e lisci lisci.
- Ha la pelle olivastra.
- E’ magro e ha i denti bianchissimi.
Greta (una bambina “italiana”) aggiunge: - Ha gli occhi a mandorla!
La maestra approfitta di quest’ultimo tratto per provare a parlare di diversità, per provare a spiegarla: - Perché Stephan ha gli occhi a mandorla, Greta?
- Perché sorride sempre!
(Grazie a A.T. e alle sue colleghe, che insegnano ai bambini a guardare i sorrisi dei compagni di classe)
Ultime notizie
Sto diventando terribilmente conservatore, e in questa metamorfosi comincio a rivalutare il peso del nostro passato sconosciuto. Per il mio lavoro sull’impatto della globalizzazione a Roma mi sono fatto dare quest’estate da mio suocero la sua copia di Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, di Italo Insolera (Einuadi, 1962 seconda edizione). In quel libro si fa spesso riferimento a Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, di Alberto Caracciolo (Edizioni Rinascita, 1956), un libro che non parla solo della dimensione urbanistica di Roma e che mi sembrava molto interessante dai riferimenti che ne fa Insolera. Del tutto casualmente, ho trovato una copia intonsa di Roma capitale in una piccola libreria di usati la scorsa settimana a Prati e ho iniziato a leggerla con estremo interesse.
Alle pagine 61 e 62 riporta la posizione di Quintino Sella, piemontese fino al midollo e uomo della Destra, su quale dovesse essere il ruolo dell’allora nuova Capitale del Regno, Roma. E’ un pezzo memorabile, che porta inevitabilmente alla comparazione con la classe politica attuale. Mentre oggi Giulio Tremonti, il nostro Ministro dell’Economia, massacra l’Università (due conti: dare un miliardo dopo che si è tagliato un miliardo e mezzo non significa investire, ma tagliare mezzo miliardo) e fresco fresco dice che “la cultura non si mangia”, e mentre il governo di questo paese è condizionato in modo determinante dal programma politico dalla Lega Nord, una forza reazionaria e antinazionale che ha sdoganato il peggior familismo localista sbraitando contro “Roma ladrona”, i padri della nazione avevano tutt’altro spessore culturale e politico, e anche quand’erano conservatori concepivano sempre in modo chiaro il duplice necessario senso del ruolo della cultura e dell’unità nazionale.
Ecco il passo in cui Caracciolo (uomo di sinistra, per altro) riporta la posizione di Quintino Sella:
Alle pagine 61 e 62 riporta la posizione di Quintino Sella, piemontese fino al midollo e uomo della Destra, su quale dovesse essere il ruolo dell’allora nuova Capitale del Regno, Roma. E’ un pezzo memorabile, che porta inevitabilmente alla comparazione con la classe politica attuale. Mentre oggi Giulio Tremonti, il nostro Ministro dell’Economia, massacra l’Università (due conti: dare un miliardo dopo che si è tagliato un miliardo e mezzo non significa investire, ma tagliare mezzo miliardo) e fresco fresco dice che “la cultura non si mangia”, e mentre il governo di questo paese è condizionato in modo determinante dal programma politico dalla Lega Nord, una forza reazionaria e antinazionale che ha sdoganato il peggior familismo localista sbraitando contro “Roma ladrona”, i padri della nazione avevano tutt’altro spessore culturale e politico, e anche quand’erano conservatori concepivano sempre in modo chiaro il duplice necessario senso del ruolo della cultura e dell’unità nazionale.
Ecco il passo in cui Caracciolo (uomo di sinistra, per altro) riporta la posizione di Quintino Sella:
Cosa deve rappresentare questa città dalla storia secolare? Essa dovrà essere il luogo della scienza e del dibattito intellettuale. “Il cozzo delle idee, bene inteso, se vi ha luogo in cui debba dare buoni risultati, questo deve essere in Roma”, afferma Quintino Sella già nel 1872. Pertanto “qui deve essere un centro scientifico di luce, una Università principalissima, informata soprattutto ai princìpi delle osservazioni sperimentali che sono sempre imparziali e senza idee preconcette”. Farne un centro della scienza significa attribuire a Roma una missione universale, egli spiega nella famosa intervista al Mommsen. “Ma vuol dire anche che deve aversi in essa il cervello supremo della nazione”, preciserà in una discussione parlamentare qualche anno dopo. “In Roma hanno sede il governo e il Parlamento. Giova ad essi - avverte ancora in altra occasione - giova al paese, giova alla scienza, che si crei e si costituisca nella capitale del Regno un ambiente di alta scienza, il quale abbia sull’ambiente politico, legislativo e amministrativo quella parte d’azione che meritatamente gli spetta”.
lunedì 1 novembre 2010
Ma che colpa abbiamo noi?
Da quando ne è diventato direttore Gianni Riotta, anche l’inserto domenicale del Sole24ore ha preso “il web” a capro espiatorio di qualunque malefatta e nel numero di ieri (domenica 31 ottobre 2010) c’è una doppietta in fila indiana che merita un momento ulteriore di riflessione, anche per la sua natura paradossale.
In prima pagina il direttore in persona recensisce l’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, che ha per oggetto il falso e la sua proliferazione nel mondo degli uomini attraverso la vita fittizia del protagonista, spia e falsario, immaginato, tra l’altro, come autore del famigerato Protocollo dei Savi di Sion, un falso su cui ha campato (e in parte ancora campa) per un secolo l’antisemitismo internazionale.
Il romanzo si svolge nell’arco di tempo che va dal 1830 al 1898 (testuali parole di Umberto Eco ieri intervistato a Fabio Fazio), ma questa precisa collocazione temporale decisamente pre-elettronica non impedisce a Riotta di partire subito a questo modo: “Secondo le “teorie della cospirazione”, sul web, tutto quel che crediamo di sapere è falso...” e poi via elencando la consueta sfilza di scemenze sulle Torri Gemelle o sulla religione di Obama. Sul web? Perché sul web come se prima non ci fosse alcuna teoria della cospirazione, come se prima del web il mondo fosse cristallino nel trasmetterci informazioni pure? Il libro di Eco (e come dimenticare Il pendolo di Foucault) sta lì a ricordarci che l’ossessione paranoide, il gusto di produrre notizie a vanvera per spargere panico o sperare di orientare le masse di qui o di là, la pretesa di individuare un senso nella pratica politica, che spesso è banalmente insensata, insomma “le teorie della cospirazione” ci sono da ben prima del web. Avrò avuto una decina d’anni quando dalla parrucchiera di mia mamma (dove mi portavano a farmi i capelli dato che il barbiere di nonno aveva una visione piuttosto spartana del taglio maschile) rimasi impressionato dalle foto sgranate e in bianco e nero riportate in un settimanale che strillava la notizia che “John Kennedy non è morto!”. Eravamo una ventina d’anni prima del web, ma il mondo era già pieno di scemenze veicolate dal mondo dell’informazione.
Alla pagina successiva dello stesso numero del Domenicale un articolo di Sergio Luzzatto parte da un libro di Michele Battini (Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino, Bollati Borighieri) per estendere di molto il discorso al “rapporto che la società di oggi intrattiene con il vero e con il falso”, per finire però con il collegarsi idealmente al modello di Riotta, che vede “sul web” annidarsi la peggior strumentazione della propaganda e della falsificazione. Si parla cioè ancora dei Protocolli (un documento russo della fine dell’Ottocento) per arrivare alla fatidica conclusione: “Come pensare che le fortune odierne del negazionismo non incrocino le fortune della fabbricazione di bufale in rete?”. Di nuovo: perché in rete? Prima le bufale non si producevano? I Protocolli sono una strana eccezione? E’ proprio Luzzatto a ricordare (senza citarlo per esteso) il saggio di March Bloch dedicato alla costruzione di false notizie durante la prima guerra mondiale (La guerra e le false notizie, Roma, Donzelli, 1994; ed. or. 1921: ma non vi fidate, ho trovato questo riferimento bibliografico “sul web”, per cui sicuramente è falso) e io potrei aggiungere il quadro generale degli studi di storia sociale e di storia della mentalità, in cui il tema della costruzione dell’immaginario collettivo è stata studiata fin dai primi del Novecento (tutti conosceranno almeno per sentito dire il famosissimo La grande paura di Georges Lefebvre, pubblicato nel 1932 e riferito all’episodio di panico collettivo del 1789, qualche tempo prima delle bufale in rete).
Insomma, perché “Il web” dovrebbe essere la sentina di tutti i mali della comunicazione quando è accertato storicamente che la falsificazione e l’ideologia complottarda e paranoica veleggiavano tra gli esseri umani da sempre?
La risposta a questa mia domanda retorica si trova nello stesso articolo di Luzzatto. Il web sarebbe la fonte del falso perché non produrrebbe alcuna coscienza critica in senso filologico:
Insegno all’università dall’anno accademico 1999/2000, ma devo ammettere che non mi ero mai accorto dell’unico criterio di verità giovanile individuato da Luzzatto. Dev’essere una mia mancanza, non so. I miei studenti rubacchiano dalla rete quando pensano di poterlo fare (infatti smettono non appena li sgamo e faccio vedere loro che quando si tratta di reperire fonti in internet sono ancora più bravo di molti di loro), esattamente come come molti di noi rubacchiavano da studenti prendendo pezzi interi da libri che speravano il professore non conoscesse. Del resto è lo stesso Eco che, da qualche parte in Come si fa una tesi di laurea, suggerisce agli svogliati di trovarsi una tesi sul loro argomento in qualche ateneo lontano da casa e copiarla, sel’unico loro problema è quello di risolvere la pratica burocratica detta tesi di laurea.
E, per ribaltare l’argomento, ricordo lo sgomento stuporoso, misto a timor panico, con cui qualche compagno di liceo mi sussurrava che il nuovo prof di filosofia “ha fatto un libro! Ti rendi conto, ha fatto un libro!”, come se avesse camminato sulle acque o fosse risuscitato dai morti.
Insomma, quando noi “genitori” eravamo studenti, non eravamo, mediamente, più istruiti nelle raffinatezze della “critica dei testi” di quanto i nostri figli non lo siano oggi nella “critica delle fonti su internet”. La gran parte di noi e di loro si è arrabattata con timore reverenziale di fronte alla Cultura, perpecita come un luogo distante e ostile di preservazione del sapere, dove andare a saccheggiare qualcosa per la propria vita. Alcuni di noi, pochi, hanno invece elaborato (allora e oggi) un’idea della cultura come spazio di produzione del sapere, e quindi hanno allora imparato a maneggiare criticamente i libri e il loro contenuto come oggi maneggiano criticamente i siti e quel che dentro contengono.
La rete ha certo bisogno di guide, di punti di riferimento, ma non perché di suo sia più infida di una biblioteca, e la bliblioteca ha bisogno di essere approcciata criticamente non per consentire a chi la frequenta di sentirsi migliore dei poveri fessi connessi, ma perché la biblioteca è un luogo terribile, pieno di menzogne e paranoie, sempre più pieno anzi di pagine vuote di qualunque cosa che non sia l’ego malato di chi li ha scritte.
Resto comunque stupefatto dal paradosso che questo approccio impone: cercando di dimostrare come il passato ha inventato un capro espiatorio, un ebreo adatto per qualunque colpa, si riproduce curiosamente lo stesso meccanismo di discriminazione, adattandolo al contesto odierno: se prima era “il sionismo” il nemico della verità, non vorrei che tra qualche tempo ci toccasse di difendere “il web” da attacchi ancora più violenti, parimenti frutto di paranoie del tutto preconcette.
In prima pagina il direttore in persona recensisce l’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, che ha per oggetto il falso e la sua proliferazione nel mondo degli uomini attraverso la vita fittizia del protagonista, spia e falsario, immaginato, tra l’altro, come autore del famigerato Protocollo dei Savi di Sion, un falso su cui ha campato (e in parte ancora campa) per un secolo l’antisemitismo internazionale.
Il romanzo si svolge nell’arco di tempo che va dal 1830 al 1898 (testuali parole di Umberto Eco ieri intervistato a Fabio Fazio), ma questa precisa collocazione temporale decisamente pre-elettronica non impedisce a Riotta di partire subito a questo modo: “Secondo le “teorie della cospirazione”, sul web, tutto quel che crediamo di sapere è falso...” e poi via elencando la consueta sfilza di scemenze sulle Torri Gemelle o sulla religione di Obama. Sul web? Perché sul web come se prima non ci fosse alcuna teoria della cospirazione, come se prima del web il mondo fosse cristallino nel trasmetterci informazioni pure? Il libro di Eco (e come dimenticare Il pendolo di Foucault) sta lì a ricordarci che l’ossessione paranoide, il gusto di produrre notizie a vanvera per spargere panico o sperare di orientare le masse di qui o di là, la pretesa di individuare un senso nella pratica politica, che spesso è banalmente insensata, insomma “le teorie della cospirazione” ci sono da ben prima del web. Avrò avuto una decina d’anni quando dalla parrucchiera di mia mamma (dove mi portavano a farmi i capelli dato che il barbiere di nonno aveva una visione piuttosto spartana del taglio maschile) rimasi impressionato dalle foto sgranate e in bianco e nero riportate in un settimanale che strillava la notizia che “John Kennedy non è morto!”. Eravamo una ventina d’anni prima del web, ma il mondo era già pieno di scemenze veicolate dal mondo dell’informazione.
Alla pagina successiva dello stesso numero del Domenicale un articolo di Sergio Luzzatto parte da un libro di Michele Battini (Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei, Torino, Bollati Borighieri) per estendere di molto il discorso al “rapporto che la società di oggi intrattiene con il vero e con il falso”, per finire però con il collegarsi idealmente al modello di Riotta, che vede “sul web” annidarsi la peggior strumentazione della propaganda e della falsificazione. Si parla cioè ancora dei Protocolli (un documento russo della fine dell’Ottocento) per arrivare alla fatidica conclusione: “Come pensare che le fortune odierne del negazionismo non incrocino le fortune della fabbricazione di bufale in rete?”. Di nuovo: perché in rete? Prima le bufale non si producevano? I Protocolli sono una strana eccezione? E’ proprio Luzzatto a ricordare (senza citarlo per esteso) il saggio di March Bloch dedicato alla costruzione di false notizie durante la prima guerra mondiale (La guerra e le false notizie, Roma, Donzelli, 1994; ed. or. 1921: ma non vi fidate, ho trovato questo riferimento bibliografico “sul web”, per cui sicuramente è falso) e io potrei aggiungere il quadro generale degli studi di storia sociale e di storia della mentalità, in cui il tema della costruzione dell’immaginario collettivo è stata studiata fin dai primi del Novecento (tutti conosceranno almeno per sentito dire il famosissimo La grande paura di Georges Lefebvre, pubblicato nel 1932 e riferito all’episodio di panico collettivo del 1789, qualche tempo prima delle bufale in rete).
Insomma, perché “Il web” dovrebbe essere la sentina di tutti i mali della comunicazione quando è accertato storicamente che la falsificazione e l’ideologia complottarda e paranoica veleggiavano tra gli esseri umani da sempre?
La risposta a questa mia domanda retorica si trova nello stesso articolo di Luzzatto. Il web sarebbe la fonte del falso perché non produrrebbe alcuna coscienza critica in senso filologico:
Oggi, chiunque sia insegnante - dalle scuole medie all’università - sa che i ragazzi hanno un unico criterio di verità: “L’ho trovato su internet!”. Oggi, il digital divide non separa soltanto chi ha l’accesso a internet d chi non ce l’ha: separa una generazione (la nostra) che ancora si è formata, bene o male, sulla forma-libro e sulla critica dei testi, da una generazione (quella dei nostri figli) il cui nativismo digitale significa un’impreparazione spesso totale rispetto alle insidie conoscitive della rete...
Insegno all’università dall’anno accademico 1999/2000, ma devo ammettere che non mi ero mai accorto dell’unico criterio di verità giovanile individuato da Luzzatto. Dev’essere una mia mancanza, non so. I miei studenti rubacchiano dalla rete quando pensano di poterlo fare (infatti smettono non appena li sgamo e faccio vedere loro che quando si tratta di reperire fonti in internet sono ancora più bravo di molti di loro), esattamente come come molti di noi rubacchiavano da studenti prendendo pezzi interi da libri che speravano il professore non conoscesse. Del resto è lo stesso Eco che, da qualche parte in Come si fa una tesi di laurea, suggerisce agli svogliati di trovarsi una tesi sul loro argomento in qualche ateneo lontano da casa e copiarla, sel’unico loro problema è quello di risolvere la pratica burocratica detta tesi di laurea.
E, per ribaltare l’argomento, ricordo lo sgomento stuporoso, misto a timor panico, con cui qualche compagno di liceo mi sussurrava che il nuovo prof di filosofia “ha fatto un libro! Ti rendi conto, ha fatto un libro!”, come se avesse camminato sulle acque o fosse risuscitato dai morti.
Insomma, quando noi “genitori” eravamo studenti, non eravamo, mediamente, più istruiti nelle raffinatezze della “critica dei testi” di quanto i nostri figli non lo siano oggi nella “critica delle fonti su internet”. La gran parte di noi e di loro si è arrabattata con timore reverenziale di fronte alla Cultura, perpecita come un luogo distante e ostile di preservazione del sapere, dove andare a saccheggiare qualcosa per la propria vita. Alcuni di noi, pochi, hanno invece elaborato (allora e oggi) un’idea della cultura come spazio di produzione del sapere, e quindi hanno allora imparato a maneggiare criticamente i libri e il loro contenuto come oggi maneggiano criticamente i siti e quel che dentro contengono.
La rete ha certo bisogno di guide, di punti di riferimento, ma non perché di suo sia più infida di una biblioteca, e la bliblioteca ha bisogno di essere approcciata criticamente non per consentire a chi la frequenta di sentirsi migliore dei poveri fessi connessi, ma perché la biblioteca è un luogo terribile, pieno di menzogne e paranoie, sempre più pieno anzi di pagine vuote di qualunque cosa che non sia l’ego malato di chi li ha scritte.
Resto comunque stupefatto dal paradosso che questo approccio impone: cercando di dimostrare come il passato ha inventato un capro espiatorio, un ebreo adatto per qualunque colpa, si riproduce curiosamente lo stesso meccanismo di discriminazione, adattandolo al contesto odierno: se prima era “il sionismo” il nemico della verità, non vorrei che tra qualche tempo ci toccasse di difendere “il web” da attacchi ancora più violenti, parimenti frutto di paranoie del tutto preconcette.
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venerdì 29 ottobre 2010
'Kwa:le vu'wò:lo?
Il titolo di questo post è la trascrizione fonetica di una frase che Amanda (26 mesi quasi 27) ha imparato a pronunciare da qualche giorno, e che potrei trascrivere con la grafia dell’italiano in modo più comprensibile: Quale vuolo?
Tra i suoi dvd (alcuni in realtà ereditati dalla sorella maggiore, Rebecca, quasi nove anni) ce ne sono alcuni a episodi, oppure sono raccolte di corti riuniti in un unico disco. In questi casi, Amanda è di fronte al dilemma della scelta: quale vuolo? Cioè: quale scegliamo di vedere? Ha capito che non c’è necessità di guardare gli episodi in sequenza lineare, ma grazie al concetto di “menu”, cioè di schermata iniziale da cui si può saltare a un’esposizione visiva dei diversi “capitoli” del dvd, può accedere alle immagini in modo non sequenziale, può scegliere.
Ecco allora la domanda come le si pone: quale voglio?
Quando avevo la sua età questa domanda era di certo molto meno impellente, dato che gli oggetti tra cui scegliere erano in misura estremamente limitata, soprattutto se il godimento era di tipo visivo. In quel caso non c’era praticamente nulla da “vuolere” e ci facevamo andare bene Oggi le comiche del sabato a pranzo (filmati del cinema muto!), i risicatissimi cartoni animati di Braccio di Ferro e quell’ora scarsa di Tv dei ragazzi che c’era prima della riforma del 1975. Con il risultato che lo spazio dell’immagine era relegato ai grandi e ci sembrava in buona misura una cosa noiosa (telegiornali in bianco e nero, e qualche sabato di Canzonissima più gradito per la vestaglia da indossare sedendo nella stessa poltrona con papà mangiando caramelle, che per il contenuto del programma, mortalmente barboso per noi piccoli).
Oggi Amanda, a poco più di due anni, è messa dal mercato dell’immagine di fronte al suo desiderio, deve cominciare a capire come funziona, cosa preferisce, cosa più le dà piacere.
L’unica cosa positiva che posso rintracciare in questa precocizzazione della consapevolezza desiderante è il suo sforzo di socializzarla. Amanda non si limita a un amletico dubbio interiore, non parla con il teschio di Yorick ma ha il coraggio di guardarci in faccia, me, sua madre, sua sorella. Ci interpella, vuole sapere da noi qual è il suo desiderio. Noi la guardiamo perplessi, certamente, ma in fondo sentiamo che la sua domanda resta lì, in attesa della nostra risposta, della nostra responsabilità: mi avete regalato la bicicletta? E allora forza, insegnatemi a pedalare...
Tra i suoi dvd (alcuni in realtà ereditati dalla sorella maggiore, Rebecca, quasi nove anni) ce ne sono alcuni a episodi, oppure sono raccolte di corti riuniti in un unico disco. In questi casi, Amanda è di fronte al dilemma della scelta: quale vuolo? Cioè: quale scegliamo di vedere? Ha capito che non c’è necessità di guardare gli episodi in sequenza lineare, ma grazie al concetto di “menu”, cioè di schermata iniziale da cui si può saltare a un’esposizione visiva dei diversi “capitoli” del dvd, può accedere alle immagini in modo non sequenziale, può scegliere.
Ecco allora la domanda come le si pone: quale voglio?
Quando avevo la sua età questa domanda era di certo molto meno impellente, dato che gli oggetti tra cui scegliere erano in misura estremamente limitata, soprattutto se il godimento era di tipo visivo. In quel caso non c’era praticamente nulla da “vuolere” e ci facevamo andare bene Oggi le comiche del sabato a pranzo (filmati del cinema muto!), i risicatissimi cartoni animati di Braccio di Ferro e quell’ora scarsa di Tv dei ragazzi che c’era prima della riforma del 1975. Con il risultato che lo spazio dell’immagine era relegato ai grandi e ci sembrava in buona misura una cosa noiosa (telegiornali in bianco e nero, e qualche sabato di Canzonissima più gradito per la vestaglia da indossare sedendo nella stessa poltrona con papà mangiando caramelle, che per il contenuto del programma, mortalmente barboso per noi piccoli).
Oggi Amanda, a poco più di due anni, è messa dal mercato dell’immagine di fronte al suo desiderio, deve cominciare a capire come funziona, cosa preferisce, cosa più le dà piacere.
L’unica cosa positiva che posso rintracciare in questa precocizzazione della consapevolezza desiderante è il suo sforzo di socializzarla. Amanda non si limita a un amletico dubbio interiore, non parla con il teschio di Yorick ma ha il coraggio di guardarci in faccia, me, sua madre, sua sorella. Ci interpella, vuole sapere da noi qual è il suo desiderio. Noi la guardiamo perplessi, certamente, ma in fondo sentiamo che la sua domanda resta lì, in attesa della nostra risposta, della nostra responsabilità: mi avete regalato la bicicletta? E allora forza, insegnatemi a pedalare...
Mission Impossible
Ogni semestre mi ritrovo con un nuovo gruppetto di studenti americani del Trinity College - Rome Campus cui devo insegnare la forma peculiare che la globalizzazione prende in una città come Roma (Urban & Global Rome), e ogni anno, per spiegare come funziona Roma, devo spiegare almeno un poco come funziona l’Italia. E per spiegare come funziona l’Italia devo raccontare a questi bei giovanottoni di vent’anni, che praticamente nulla sanno del nostro paese, anche un poco dell’attuale politica italiana.
Ora, mi dite voi come posso spiegare a questi benedetti ragazzi che negli ultimi due anni la politica italiana si è sostanzialmente occupata di (e di certo dimentico qualcosa di parimenti rilevante):
Mi torna in mente un vecchio detto dei politologi americani durante la Guerra Fredda: della politica sovietica non si sa nulla, ma si capisce tutto; della politica italiana si sa tutto, ma non si capisce nulla.
Ora, mi dite voi come posso spiegare a questi benedetti ragazzi che negli ultimi due anni la politica italiana si è sostanzialmente occupata di (e di certo dimentico qualcosa di parimenti rilevante):
- una diciottenne festeggiata per il suo compleanno dal Presidente del Consiglio mentre la moglie lo lasciava dicendo che è malato e che al diciottesimo compleanno dei figli lui non si è mai presentato
- il tipo di relazione tra i genitori della diciottenne e il Presidente del Consiglio
- un ministro che si è dimesso perché non sapeva chi gli aveva comprato la casa
- un ministro che avrebbe dovuto essere un ministro ma non è mai stato un ministro perché pensava che diventando ministro si sarebbe salvato da un processo
- il cognato del Presidente della Camera
- a quale casa fosse destinata una cucina acquistata dal Presidente della Camera
- da chi abbia comprato un terreno ad Antigua il Presidente del Consiglio
- il bunga bunga
Mi torna in mente un vecchio detto dei politologi americani durante la Guerra Fredda: della politica sovietica non si sa nulla, ma si capisce tutto; della politica italiana si sa tutto, ma non si capisce nulla.
lunedì 25 ottobre 2010
Il velo pietoso
Domani mattina (martedì 26), dalle 10.00 in poi, su Radio24 Gialuca Nicoletti a Melog discute il fondo di Mario Calabresi in cui il direttore della Stampa racconta come ha deciso di cestinare le registrazioni dei verbali di interrogatorio di Michele e Sabrina Misseri. Ero a pranzo dai miei suoceri ieri (domenica 24) quando abbiamo sentito la voce dello zio di Sarah Scazzi in televisione. E poi i commenti raccapriccianti di qualche “opinionista” di cui è bello tacere. Per fortuna eravamo a fine pasto e mi sono potuto alzare da tavola.
Ci sarò anch’io, in collegamento telefonico con Melog, per portare il contributo dell’antropologia culturale alla discussione: dove bisogna fermarsi?
Rischiamo il paradosso, e sicuramente tutti ne saremo consapevoli, domattina: come si fa a parlare di una cosa per discutere se di quella cosa sarebbe meglio tacere? L’unica possibilità che abbiamo di salvarci è trattare il caso di Avetrana come uno dei casi “trucidi” di cui i media italiani si sono interessati in questi anni, e cercare di capire alcune tendenze, alcune delle ragioni che hanno prodotto una sorta di incantamento della comunicazione di massa.
Io ricordo i casi di Alfredino Ciampi e Vermicino, il “delitto di via Poma”, Simonetta Cesaroni, Cogne, Annamaria Franzoni e “il piccolo Samuele”, Garlasco, Chiara Poggi e Alberto Stasi. Come nota autobiografica posso aggiungere che leggo e seguo pochissimo questi casi non per distinguermi dalla massa beota, ma solo perché sto fisicamente troppo male al racconto di morti truculente in cui le vittime sono sempre giovani o addirittura bambini, e semplicemente “non reggo”, per cui giro la pagina o cambio canale. Sono di stomaco troppo delicato per la cronaca nera.
Ma posso ancora chiedermi cosa spinge allo sguardo morboso molti di noi (e probabilmente spingerebbe anche me, se non fossi un cacasotto).
La disciplina che pratico e che insegno mi ha convinto che, al di là delle motivazioni di ordine economico, gli uomini sono spinti all’agire dall’impellenza del senso, vale a dire dalla necessità di colmare quell’immenso buco semantico che chiamiamo “vita” con quella merce sempre carente che chiamiamo “senso della”, vale a dire la convinzione che gli eventi che si dispongono nella linea del tempo sono in qualche “ordine”, per noi e per gli altri. Mi pare evidente che nei delitti di cui si è occupata di più l’opinione pubblica c’è sempre un elemento attrattore costituito dalla suspance (come nel terribile caso di Alfredino) o dal mistero. La suspance riguarda un evento futuro (come andrà a finire?) mentre il mistero riguarda un evento passato (cosa è successo?) e noi, dal nostro presente, pretendiamo che quell’evento abbia un senso, che si capisca qual è cioè la sua ragione. La tensione dei media si alza quanto più la sequenza lineare si ingarbuglia verso il futuro o verso il passato, quanto più insomma il rischio è quello di trovarci di fronte a un evento “insensato”, che simbolicamente ci condannerebbe al fallimento nel nostro tentativo di “riempirlo”.
La controprova di questa ipotesi interpretativa è costituita dal fatto che omicidi anche più sconvolgenti vengono rapidamente derubricati dall’attenzione dei mass media (quindi del pubblico) quando la soluzione è chiara in tempi brevi. Molti ricorderanno almeno vagamente il caso dell’imbianchio del Varesotto che mozzò le mani a un’anziana ottantenne per non lasciare tracce del suo delitto, ma chi ricorda i dettagli, i nomi dei protagonisti (la vittima era Carla Molinari, mentre il folle smembratore era Giuseppe Piccolomo)? Quel che ci attrae, direi, è quindi prima di tutto la carenza di un senso, il timore che non ve ne sia alcuno e la speranza invece che scavando quanto più a fondo possibile si giunga al “vero” senso della morte (e quindi della vita).
A questa prima necessità di sapere come andrà a finire o cosa è successo veramente penso se ne aggiunga un’altra, quando ci sentiamo irresistibilmente attratti dall’orrido. Questa seconda necessità è forse un retaggio antico, di una visione del mondo che razionalmente rifiutiamo ma che invece ancora ci possiede. E’ la convinzione che il male ha una quota necessaria e indisponibile che deve essere distribuita regolarmente, come se non solo il bene fosse a disponibilità limitata (non ce n’è per tutti) ma il male fosse a disponibilità obbligatoria. Se da qualche parte sentiamo ancora che questo è vero, ecco allora che assistere al male altrui è la garanzia di esserne esclusi, di averla sfangata, almeno per questa volta. Le vittime e i carnefici diventano capri espiatori preventivi: su di essi vediamo calare il male che altrimenti avrebbe potuto colpire noi. Il parente assassino o assassinato avremmo potuto essere noi, se quella cappa mostruosa di malignità fosse calata pochi chilometri più a sud o più a nord, e questa concezione sostanzialmente casuale e fatalista ha la necessità di alleggerire la tensione riversandola sulla colpa dell’altro. La vista del genitore sconvolto o del carnefice finalmente svelato ci rassicurano (almeno per un po’) che non è toccata a noi, stavolta. Indugiare sulla mostruosità dell’altro è cercare di misurarne quanto più male possibile. Se il volto che vediamo in tv è quello di un vero mostro, allora il male che rimane in circolazione ancora di distribuire è per forza poco, essendo stato quasi tutto speso per il mostro...
Queste due possibili ragioni della nostra attrazione (la ricerca di un senso, la visione apotropaica del male altrui) oggi trovano nei mezzi di archiviazione e di comunicazione di massa un alleato tremendo. La possibilità di sentire la voce di Michele Misseri mentre confessa è un’assoluta novità, che dipende dalla “virtualizzazione” dei dati. Qualcuno ha fatto uscire i file dalla sede dell’interrogatorio, e ha potuto farlo, immagino, copiandoli su una usb-key, una chiavetta di minuscole dimensioni. Solo cinque anni fa avrebbe dovuto far uscire una registrazione su qualche supporto magnetico, ma chi avrebbe corso il rischio di fare una copia delle bobine dei verbali di interrogatorio per poi farla uscire?
Oggi siamo tutti spiati e spiabili, osservabili, udibili, registrabili, e la messa in pubblico del (presunto) male non costa più nulla, non è percepita come una trasgressione (il passaggio di un limite) ma come un’asettica operazione demandabile alla tecnica.
Gli antichi greci avevano il nostro stesso bisogno di capire il senso del male e di vederlo proiettato sull’altro, e per questo si erano inventati il genere teatrale della tragedia, il luogo in cui si parlava del senso del male, e il pharmakòs, vale a dire un rituale in cui uno o due membri della comunità erano scacciati dopo essersi addossati il male collettivo, come un capro espiatorio umano.
Quindi, con la nostra ossessione per i delitti irrisolti e il nostro bisogno di vedere e sentire il mostro non stiamo facendo nulla di nuovo. La novità è che quei nostri bisogni di senso e di sollievo dal male vengono esercitati senza alcuna regola, mentre la tragedia e il pharmakòs erano eventi collettivi altamente ritualizzati, cioè sequenze di comportamento preordinate nei minimi particolari. L’oscenità (ciò che va tenuto fuori dalla scena), che allora non era consentita, oggi invece domina la rappresentazione perché la riflessione sul senso del male e lo sforzo per allontanarlo da noi sono state sottratti al poeta e al sacerdote (le figure che pur come individui singoli potevano incarnare i bisogni collettivi) per essere demandate al circo della comunicazione di massa, che è un coacervo di interessi privati che non potranno mai preoccuparsi del bene pubblico.
Bene ha fatto, quindi, Mario Calabresi a gettare al macero quei file, ma il suo gesto rimane la voce di uno che grida nel deserto, mentre sullo sfondo gli sciacalli non possono che fare il loro mestiere, vale a dire buttarsi a capofitto sulla preda agonizzante.
Dentro questo sistema della comunicazione, fatto di interessi singoli e privati associati a una tecnologia sempre più in grado di riprodurre il reale in scala 1:1, non abbiamo scampo e il futuro ci vedrà stuporosi ad ascoltare a cadenze regolari la voce rotta e vedere i lineamenti sconvolti del Michele Misseri di turno. Se vogliamo cambiare, se vogliamo impedire che questa barbarie prenda piede, dobbiamo restituire alla comunicazione la sua sacralità e la sua poeticità. Chi fa comunicazione, insomma i giornalisti di professione devono ricominciare a pensarsi come responsabili del bene comune della collettività per cui e di cui scrivono, ricordandosi del valore potente delle loro parole e dei loro strumenti. Con l’aria che tira in Italia, non posso nutrire molte speranze sulla vitalità di questa prospettiva.
Ci sarò anch’io, in collegamento telefonico con Melog, per portare il contributo dell’antropologia culturale alla discussione: dove bisogna fermarsi?
Rischiamo il paradosso, e sicuramente tutti ne saremo consapevoli, domattina: come si fa a parlare di una cosa per discutere se di quella cosa sarebbe meglio tacere? L’unica possibilità che abbiamo di salvarci è trattare il caso di Avetrana come uno dei casi “trucidi” di cui i media italiani si sono interessati in questi anni, e cercare di capire alcune tendenze, alcune delle ragioni che hanno prodotto una sorta di incantamento della comunicazione di massa.
Io ricordo i casi di Alfredino Ciampi e Vermicino, il “delitto di via Poma”, Simonetta Cesaroni, Cogne, Annamaria Franzoni e “il piccolo Samuele”, Garlasco, Chiara Poggi e Alberto Stasi. Come nota autobiografica posso aggiungere che leggo e seguo pochissimo questi casi non per distinguermi dalla massa beota, ma solo perché sto fisicamente troppo male al racconto di morti truculente in cui le vittime sono sempre giovani o addirittura bambini, e semplicemente “non reggo”, per cui giro la pagina o cambio canale. Sono di stomaco troppo delicato per la cronaca nera.
Ma posso ancora chiedermi cosa spinge allo sguardo morboso molti di noi (e probabilmente spingerebbe anche me, se non fossi un cacasotto).
La disciplina che pratico e che insegno mi ha convinto che, al di là delle motivazioni di ordine economico, gli uomini sono spinti all’agire dall’impellenza del senso, vale a dire dalla necessità di colmare quell’immenso buco semantico che chiamiamo “vita” con quella merce sempre carente che chiamiamo “senso della”, vale a dire la convinzione che gli eventi che si dispongono nella linea del tempo sono in qualche “ordine”, per noi e per gli altri. Mi pare evidente che nei delitti di cui si è occupata di più l’opinione pubblica c’è sempre un elemento attrattore costituito dalla suspance (come nel terribile caso di Alfredino) o dal mistero. La suspance riguarda un evento futuro (come andrà a finire?) mentre il mistero riguarda un evento passato (cosa è successo?) e noi, dal nostro presente, pretendiamo che quell’evento abbia un senso, che si capisca qual è cioè la sua ragione. La tensione dei media si alza quanto più la sequenza lineare si ingarbuglia verso il futuro o verso il passato, quanto più insomma il rischio è quello di trovarci di fronte a un evento “insensato”, che simbolicamente ci condannerebbe al fallimento nel nostro tentativo di “riempirlo”.
La controprova di questa ipotesi interpretativa è costituita dal fatto che omicidi anche più sconvolgenti vengono rapidamente derubricati dall’attenzione dei mass media (quindi del pubblico) quando la soluzione è chiara in tempi brevi. Molti ricorderanno almeno vagamente il caso dell’imbianchio del Varesotto che mozzò le mani a un’anziana ottantenne per non lasciare tracce del suo delitto, ma chi ricorda i dettagli, i nomi dei protagonisti (la vittima era Carla Molinari, mentre il folle smembratore era Giuseppe Piccolomo)? Quel che ci attrae, direi, è quindi prima di tutto la carenza di un senso, il timore che non ve ne sia alcuno e la speranza invece che scavando quanto più a fondo possibile si giunga al “vero” senso della morte (e quindi della vita).
A questa prima necessità di sapere come andrà a finire o cosa è successo veramente penso se ne aggiunga un’altra, quando ci sentiamo irresistibilmente attratti dall’orrido. Questa seconda necessità è forse un retaggio antico, di una visione del mondo che razionalmente rifiutiamo ma che invece ancora ci possiede. E’ la convinzione che il male ha una quota necessaria e indisponibile che deve essere distribuita regolarmente, come se non solo il bene fosse a disponibilità limitata (non ce n’è per tutti) ma il male fosse a disponibilità obbligatoria. Se da qualche parte sentiamo ancora che questo è vero, ecco allora che assistere al male altrui è la garanzia di esserne esclusi, di averla sfangata, almeno per questa volta. Le vittime e i carnefici diventano capri espiatori preventivi: su di essi vediamo calare il male che altrimenti avrebbe potuto colpire noi. Il parente assassino o assassinato avremmo potuto essere noi, se quella cappa mostruosa di malignità fosse calata pochi chilometri più a sud o più a nord, e questa concezione sostanzialmente casuale e fatalista ha la necessità di alleggerire la tensione riversandola sulla colpa dell’altro. La vista del genitore sconvolto o del carnefice finalmente svelato ci rassicurano (almeno per un po’) che non è toccata a noi, stavolta. Indugiare sulla mostruosità dell’altro è cercare di misurarne quanto più male possibile. Se il volto che vediamo in tv è quello di un vero mostro, allora il male che rimane in circolazione ancora di distribuire è per forza poco, essendo stato quasi tutto speso per il mostro...
Queste due possibili ragioni della nostra attrazione (la ricerca di un senso, la visione apotropaica del male altrui) oggi trovano nei mezzi di archiviazione e di comunicazione di massa un alleato tremendo. La possibilità di sentire la voce di Michele Misseri mentre confessa è un’assoluta novità, che dipende dalla “virtualizzazione” dei dati. Qualcuno ha fatto uscire i file dalla sede dell’interrogatorio, e ha potuto farlo, immagino, copiandoli su una usb-key, una chiavetta di minuscole dimensioni. Solo cinque anni fa avrebbe dovuto far uscire una registrazione su qualche supporto magnetico, ma chi avrebbe corso il rischio di fare una copia delle bobine dei verbali di interrogatorio per poi farla uscire?
Oggi siamo tutti spiati e spiabili, osservabili, udibili, registrabili, e la messa in pubblico del (presunto) male non costa più nulla, non è percepita come una trasgressione (il passaggio di un limite) ma come un’asettica operazione demandabile alla tecnica.
Gli antichi greci avevano il nostro stesso bisogno di capire il senso del male e di vederlo proiettato sull’altro, e per questo si erano inventati il genere teatrale della tragedia, il luogo in cui si parlava del senso del male, e il pharmakòs, vale a dire un rituale in cui uno o due membri della comunità erano scacciati dopo essersi addossati il male collettivo, come un capro espiatorio umano.
Quindi, con la nostra ossessione per i delitti irrisolti e il nostro bisogno di vedere e sentire il mostro non stiamo facendo nulla di nuovo. La novità è che quei nostri bisogni di senso e di sollievo dal male vengono esercitati senza alcuna regola, mentre la tragedia e il pharmakòs erano eventi collettivi altamente ritualizzati, cioè sequenze di comportamento preordinate nei minimi particolari. L’oscenità (ciò che va tenuto fuori dalla scena), che allora non era consentita, oggi invece domina la rappresentazione perché la riflessione sul senso del male e lo sforzo per allontanarlo da noi sono state sottratti al poeta e al sacerdote (le figure che pur come individui singoli potevano incarnare i bisogni collettivi) per essere demandate al circo della comunicazione di massa, che è un coacervo di interessi privati che non potranno mai preoccuparsi del bene pubblico.
Bene ha fatto, quindi, Mario Calabresi a gettare al macero quei file, ma il suo gesto rimane la voce di uno che grida nel deserto, mentre sullo sfondo gli sciacalli non possono che fare il loro mestiere, vale a dire buttarsi a capofitto sulla preda agonizzante.
Dentro questo sistema della comunicazione, fatto di interessi singoli e privati associati a una tecnologia sempre più in grado di riprodurre il reale in scala 1:1, non abbiamo scampo e il futuro ci vedrà stuporosi ad ascoltare a cadenze regolari la voce rotta e vedere i lineamenti sconvolti del Michele Misseri di turno. Se vogliamo cambiare, se vogliamo impedire che questa barbarie prenda piede, dobbiamo restituire alla comunicazione la sua sacralità e la sua poeticità. Chi fa comunicazione, insomma i giornalisti di professione devono ricominciare a pensarsi come responsabili del bene comune della collettività per cui e di cui scrivono, ricordandosi del valore potente delle loro parole e dei loro strumenti. Con l’aria che tira in Italia, non posso nutrire molte speranze sulla vitalità di questa prospettiva.
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